24: Marte, Venere e Vulcano

Titolo dell’opera: Parnaso

Autore: Andrea Mantegna

Datazione: 1496

Collocazione: Parigi, Louvre

Committenza: Isabella d’Este

Tipologia: dipinto

Tecnica: tempera su tela (150x192 cm.)

Soggetto principale: il Parnaso

Soggetto secondario: Vulcano nella sua fucina

Personaggi: Apollo, le nove Muse, Marte, Venere, Mercurio, Vulcano, Amore

Attributi: cetra (Apollo); elmo, corazza, lancia (Marte); petaso, caduceo, calzari alati (Mercurio); incudine, martello (Vulcano)

Contesto: paesaggio campestre

Precedenti:

Derivazioni:

Immagini: http://www.wga.hu/art/m/mantegna/2/parnassu.jpg

Bibliografia: Wind E., The Parnassus of Mantegna, in Bellini’s Feast of the Gods. A study in Venetian humanist, Cambridge University, Cambridge 1948, pp. 9-20; Tietze Conrat E., Mantegna's Parnassus, a discussion of a recent interpretation, in “Art Bulletin”, XXXI, 1949, pp. 126-30; Wind E., Mantegna’s Parnassus, a reply to some recent reflections, in “Art Bulletin”, XXXI, 1949, pp. 224-31; Tietze Conrat E., Andrea Mantegna. Le pitture, i disegni, le incisioni, Sansoni, Firenze 1955; Gombrich, E. H., An interpretation of Mantegna’s Parnassus, in “Journal of Warburg Institute”, XXVI, 1963, pp. 196-198; Lehmann K., The sources and meaning of Mantegna’a Parnassus, in P.W. Lehmann – K. Lehmann, Samothracian Reflections: Aspects of the revival of the antique, Princeton, New Jersey 1973, pp. 59-178; Vickers M., The sources of the Mars in Mantegna’s Parnassus, in “Burlington Magazine”, CXX, 1978, pp. 151-152; Jones R., What Venus did with Mars”: Battista Fiera and Mantegna’s “Parnassus”, in “Journal of the Warburg and Courtauld Institutes”, XLIV, 1981, pp. 193-198; Lightbown R., Mantegna: corredato da un catalogo completo dei dipinti dei disegni e delle stampe, Arnoldo Mondadori, Milano 1986; Christiansen K., Andrea Mantegna, a cura di J. Martineau, catalogue exhibition (New York-London, 1992) Olivetti Electa, Milano 1992; Bini D., a cura di, Isabella d’Este, la primadonna del Rinascimento, Il Bulino, Modena 2001; Cieri Via C., I camerini di Isabella: uno spazio culturale esemplare, in Bini, 2001, pp. 53-64; Ventura L., Gli appartamenti isabelliani in Palazzo Ducale, in Bini, 2001, pp. 65-84; Ventura L., Isabella d’Este committenza e collezionismo, in Bini, 2001, pp. 85-108; Hope C., I camerini d’alabastro: la collocazione e la decorazione pittorica, in M. Ceriana, a cura di, Il Camerino di alabastro. Antonio Lombardo e la scultura all’antica, Silvana, Cinisello Balsamo 2004, pp. 83-95

Annotazioni redazionali: Il dipinto fu commissionato a Mantegna nel 1496, ed è il primo da lui realizzato per lo Studiolo di Isabella d’Este a Mantova, dove risulta già collocato, secondo una lettera al Marchese del 3 luglio 1497 (Tietze Conrat, 1955, p. 214). Anche questo, come tutti i dipinti presenti in questo ambiente, sono descritti nell’Inventario Stivini del 1542. Sembra che i principali dipinti dello studiolo siano stati ceduti negli anni ’20 del XVII secolo, quando Daniel Nys, agente di Carlo I d’Inghilterra, si offrì di accettare un lotto di dipinti al prezzo stimato “con un patto che vi sia dato ancora il ballo del Mantegna”, ma che, come risulta dalla risposta negativa, gli furono rifiutati, perché già passati probabilmente in proprietà del cardinal Richelieu. Questi li acquisì insieme ad altri, donatigli dalla corte mantovana negli anni 1624-29 e posti nel suo Castello Du Plessis, per passare poi al Louvre nel 1810. Il programma iconografico e le condizioni indispensabili, per un dipinto che doveva andare nel suo Studiolo, sono chiaramente stabiliti da Isabella, nella corrispondenza da lei tenuta, a questo riguardo, con Giovanni Bellini. Poteva infatti essere una storia, un antico racconto, una nuova invenzione, purché rappresentasse “un soggetto classico, con bel significato”. Il dipinto di Mantegna corrisponde evidentemente alla prima di queste condizioni, in quanto rappresenta un soggetto classico, narrato nelle fonti letterarie fin dai tempi di Omero (Vulfc01), ma più complesso è trovare un significato istruttivo nell’amore adultero di Marte e Venere. La difficoltà di interpretazione di questo dipinto appare subito evidente già alla morte di Mantegna, quando Battista Fiera, medico e umanista, in un poema scritto e indirizzato a Francesco Gonzaga, suo amico, per consolarlo della morte di tale artista, che aveva combinato le virtù degli antichi pittori Aristide e Apelle, dimostra alcune incertezze nell’interpretazione allegorica dei personaggi, pur iconograficamente molto chiari (Jones, 1981, p. 193). Il dipinto è probabilmente un’allegoria della punizione di Amore, con la contemporanea esaltazione delle arti e della conoscenza necessarie per raggiungere la virtus,nel quale si inserisce anche la storia di Venere e Marte, letta non con lo spirito ironico dell’aedo di Omero, ma con un significato più generale, quale la glorificazione dei due coniugi Gonzaga, rappresentati come dea dell’Amore e dio della Guerra. Bisogna inoltre considerare che in quegli anni si conoscevano dei manoscritti, pubblicati poi nel 1505, che possono essere stati noti anche ad Isabella o al suo consigliere, relativi ad un testo, probabilmente di Eraclito, retore del I sec. d.C., che rimprovera esplicitamente coloro che non sanno vedere oltre la superficie immortale della storia dell’Odissea, non riuscendo ad afferrare il suo bel significato, coloro, cioè, che dicono che il poeta greco non si vergogna di attribuire agli dei un crimine, come l’adulterio, che è punito con la morte fra gli uomini (Gombrich, 1963, pp. 196-198). Secondo Gombrich, Omero vuol sottolineare che i contrasti “amore-guerra” rappresentati dalle due divinità furono riconciliati  (Marsilio Ficino, Vulfr01, Poliziano, Vulfr02, Lorenzo de’ Medici, Vulfr03, Cfr. scheda opera 21 e 22), in un concetto ripreso anche nella letteratura latina da Lucrezio (Vulfc10) e Ovidio (Vulfc15) e che tra i due nasce Armonia, che riduce ogni cosa a concordia e tranquillità. Così gli dei ridono e gioiscono di gratitudine, perché la maledetta guerra è finita e trasformata in umanità e pace: questo è il messaggio che recepisce e vuole esprimere Isabella.

Al centro del dipinto, su una rupe a forma di arco, si trovano Marte e Venere, abbracciati. La dea, nuda, secondo l’iconografia tradizionale, con i lunghi capelli sciolti sulle spalle, tiene in mano la freccia d’oro, che ha tolto dalle mani di Amore, per disarmarlo e renderlo inoffensivo. Accanto a lei, Marte, armato, come indicato da Pausania (Vulfc27), rivestito di elmo, corazza e lancia, attenua con l’espressione del viso, rivolto verso la dea, il significato bellicoso delle sue armi. La bellezza di Marte con le armi splendenti è indicata anche da Boccaccio, che riferisce le parole di Stazio (Vulfm16, IX, cap. II). I due sono in piedi davanti ad un sedile, quasi a forma di grande trono, coperto da un drappo di tre colori diversi, ripresi poi anche nella veste di Marte. A sinistra, vicino a loro, un puttino, forse Anteros, indicato da  Cicerone anch’egli come figlio della coppia (Vulfc11), tiene, nella sinistra, un arco del tutto inutile, perché privo di freccia, e nella destra una cerbottana, con la quale cerca di colpire, con atteggiamento allegro e birichino, i genitali di Vulcano, che, in una grotta di fronte, lavora nella sua fucina, per preparare altre frecce, alcune delle quali sono già pronte accanto all’incudine. Quest’ultimo, irato, risponde al piccolo dio con gesti intimidatori e volto teso. Il suo corpo muscoloso è nudo, coperto solo sulle spalle da una clamide che svolazza, a dimostrarne il movimento brusco e nervoso. La grotta dove lavora è situata in un ambiente roccioso, piuttosto arido, sopra il quale si innalzano altre rocce e pochi alberi, mentre l’incudine è posta su una base, che richiama la forma di un arco romano.Su un prato piuttosto arido e sassoso, sotto la rupe ad arco, ballano le Muse, patrone delle arti, che si muovono, accompagnate nella danza dalla musica di Apollo, seduto a sinistra, con la cetra in mano. Il dio, situato proprio sotto la grotta di Vulcano, richiama, nella sua posizione quella del dio fabbro, ma l’atteggiamento è ben diverso, a dimostrare quanto la forza delle arti possa costituire un elemento determinante per lo sviluppo della persona.Le nove fanciulle, vestite con abiti di colore diverso, si tengono nelle mani, a formare quasi un cerchio, e rivolgono la loro attenzione e i loro sguardi verso i vari personaggi della scena, soprattutto verso Apollo e verso Mercurio, posto all’altra estremità, l’altro dio, cioè, che, con Apollo, avrebbe volentieri cambiato il suo posto con quello di Marte, pur avvolto nelle catene. Egli è raffigurato con i suo attributi consueti. Indossa, infatti, il petaso ed i  calzari alati, mentre nelle mani ha il caduceo, simbolo delle sue funzioni di araldo divino. Mercurio rappresenta, in questo dipinto, una divinità sapienziale, che indirizza gli uomini verso la virtus, attraverso la conoscenza, liberandoli dagli istinti bestiali. È accompagnato da Pegaso, che fece scaturire, colpendo il suolo con lo zoccolo, la fonte dell’ispirazione poetica, Ippocrene.In primo piano, abbandonati al suolo, si vedono due fasci di verghe, pronte per punire Eros. Al centro due lepri, simbolo di lussuria, fuggono da un luogo di virtù, di cultura e di arte, mentre, più a destra, uno scoiattolo ricorda che la sapienza umana non può elevarsi a vera virtù, se non attraverso il sapere divino.

Giulia Masone