Pittura parlante e poesia taciturna
di Nicolette Mandarano
Giovan Battista Marino e i suoi rapporti con l’arte e gli artisti
Molti critici nel corso degli ultimi anni hanno concentrato la loro attenzione sul rapporto che intercorse fra il poeta napoletano e Nicolas Poussin[1], ma nessuno ha posto l’accento sulla possibilità che il Marino abbia potuto esercitare la stessa influenza e garantire protezione, e se non protezione sicuramente amicizia ed ispirazione, anche ad altri artisti.
Egli, infatti, può sicuramente essere considerato un patrono delle arti e degli artisti ed un vero amatore, soprattutto di dipinti e di disegni; considerazioni fatte anche sulla scorta della lettura di alcuni dei suoi testi quali le Dicerie Sacre, la Galeria, da alcuni passi de l’Adone e, anche, da molte lettere raccolte nell’Epistolario.
Nei primi anni del Seicento Marino frequenta assiduamente la corte del cardinale Pietro Aldobrandini dove ha modo di conoscere Giovanni Battista Agucchi, segretario del Cardinale e autore di un trattato artistico prima in collaborazione con Annibale Carracci e poi con il Domenichino; il poeta ha poi anche la possibilità di assistere in prima persona alla svolta artistica dei primi anni del Seicento dovuta ai Carracci e alle opere di Caravaggio ed ha, infine, la possibilità di raffinare il gusto all’interno di un circolo di intellettuali molto interessato ai fenomeni d’arte.
Papa Clemente VIII, zio del cardinale Pietro Aldobrandini, muore nel 1605, e al soglio pontificio sale Paolo V Borghese. Pietro Aldobrandini verrà inviato dal neo eletto pontefice a Ravenna, città nella quale si trasferisce anche il Marino entrando così in contatto con il mondo accademico bolognese e, soprattutto, con l’Accademia dei Carracci[2].
Successivamente il Marino prenderà la via di Torino, città nella quale scriverà una parte delle Dicerie Sacre, e nel 1615 dopo alterne e sfortunate vicende lascerà l’Italia per recarsi in Francia, ove si stabilisce alla corte di Maria de Medici, la regina che fortemente lo aveva voluto alla sua corte, rendendolo poi “poeta laureato” di Parigi[3].
Quando, nel 1615, Marino giunge a Parigi, si presenta alla reggente con un poemetto encomiastico intitolato il Tempio, stampato a Lione in quello stesso anno. In questo poemetto Marino “costruisce” un edificio “decorato” con le storie dei reali francesi; il poeta mette in evidenza nel componimento i valori legati all’amministrazione della cosa pubblica dando risalto, soprattutto, alla reggenza di Maria de’ Medici come esempio di buon governo in cui regna pace e moralità.
Marino diviene ben presto un personaggio di rilievo alla corte parigina ed influenza notevolmente, attraverso la sua produzione letteraria, tutto l’entourage letterario ed artistico che vi gravitava. Nel 1623, a Parigi, viene pubblicato il suo poema più impegnativo, l’Adone,con dedica alla regina. Il testo, è ormai opinione diffusa, influenzò in modo considerevole la successiva produzione pittorica a soggetto mitologico[4].
In questo ambiente Marino, nel 1622, in occasione delle feste per la celebrazione della canonizzazione di S. Ignazio e S. Francesco Saverio promossa da Gregorio XV, ha modo di conoscere Nicolas Poussin chiamato dai gesuiti parigini ad eseguire sei tele a tempera per l’evento. Il Marino apprezzò molto le opere dell’artista e lo volle, come racconta il Passeri[5], presso di sé. Bellori racconta che Poussin fu di grande compagnia al Marino, costretto a letto da una malattia, che “godeva di veder rappresentate in disegno le sue proprie poesie, e quelle particolarmente dell’Adone”[6].
Per il Marino, in questo periodo, Poussin realizza una serie di disegni a soggetto mitologico su cui è aperto un ampio dibattito sia sull’originalità degli stessi, che tuttavia non può essere messa in dubbio, che sulla reale destinazione dei disegni: fra chi propone che dovessero illustrare un’edizione delle Metamorfosi di Ovidio[7] mai realizzata poi dal Marino, e chi sostiene che dovessero andare ad illustrare l’Adone[8]. Comunque l’incontro fra Marino e Poussin, come ampiamente dimostrato dalla critica, sarà fondamentale per lo sviluppo e il successo del pittore prima a Roma, città in cui si trasferirà proprio per volere del poeta, e poi a Parigi.
Nel 1620 il Marino pubblica la Galeria, ma vista la disastrosa stampa eseguita a Venezia dal Ciotti il poeta decide di pubblicare il suo nuovo, e più importante, Adone a Parigi giustificandosi in una lettera con l’editore veneziano dicendo che se l’opera fosse stata pubblicata a Venezia avrebbe attirato l’ira dell’Inquisizione, e aggiungendo inoltre che avrebbe voluto assistere alla correzione[9]. Dunque il Marino trova due giustificazioni: la volontà di seguire l’edizione per evitare quanto successo con la stampa della Galeria e la paura del giudizio dell’Inquisizione e dunque il rischio della messa all’indice del testo.
Nel 1624 il Marino torna in Italia, prima stabilendosi a Roma e poi a Napoli. Quando giunge a Roma, al seguito del cardinale Maurizio di Savoia, decide di andare ad abitare in casa Crescenzi, famiglia di vecchi protettori del poeta sin dal primo soggiorno romano, luogo questo in cui poteva anche avere degli scambi con i numerosi artisti che frequentavano il palazzo.
Appena rientrato nella città papale viene eletto principe dell’Accademia degli Humoristi e accolto nelle varie corti, ma la fortuna muta con la morte di Gregorio XIII e la salita al soglio pontificio di Urbano VIII. Maffeo Barberini, oltre ad essere stato eletto pontefice, svolgeva, come sottolineato da Fumaroli, l’attività di poeta di ispirazione neolatina[10], e sicuramente di stampo moralista, contro, dunque, la poesia mariniana. Vengono così a crearsi due schieramenti poetici: “quello delle forme e dei temi “volgari”, di cui Marino è allora il maestro, e quello delle raccolte neolatine e religiose, in cui eccellono i gesuiti e il loro ex-allievi ecclesiastici”[11]. Gli attacchi del pontefice e della curia romana nei confronti dell’Adone come testo che corrompe le anime, e contro il Marino stesso, non mancano e, soprattutto, proseguono senza sosta anche dopo la morte di quest’ultimo, per culminare con la messa all’indice del poema mitologico nel 1627[12], e divieto di pubblicazione e lettura nel territorio italiano. Del resto i protagonisti più rigorosi della Riforma cattolica guardavano con avversione alla mitologia pagana in cui vedevano solo materiale che poteva sviare le menti del popolo; e tanto più queste considerazioni valevano per la mitologia mariniana che tendeva a riutilizzare in chiave profana e senza mezzi termini storie agiografiche ed episodi della vita di Cristo.
Nel settembre del 1625, pochi mesi dopo la morte del Marino avvenuta il 25 marzo, l’Accademia degli Humoristi rende onore al poeta con una sontuosa pompa funebre il cui apparato era decorato da un ritratto del Marino realizzato da Francesco Crescenzi e da figure allegoriche realizzate dal Lanfranco, dal Pomarancio, dal Baglione, dal Valesio e dal Cavalier d’Arpino, creando così “una sorta di Galeria, come sarebbe piaciuta al cavalier Marino”[13].
La decorazione dell’apparato funebre era, dunque, costituita da otto quadri realizzati dai più importanti pittori romani; Francesco Crescenzi aveva avuto l’incarico di realizzare il ritratto: “[...] stava egli (il Marino) a sedere in atto di comporre, come più volte fu veduto con un libro fra le mani sostenuto dal destro ginocchio, che sopra il sinistro era incrocicchiato, et a piedi una panca sopra la quale erano molti libri giaceva la Lira, la Zampogna, e la Tromba chiara espressione di quanto egli valse nella lirica pastorale, e nell’heroica poesia; e sopra questi quella Corona; che egli morendo, in premio delle sue fatiche meritò”[14].
L’interesse per l’arte e per gli artisti da parte del poeta napoletano, come detto, non è mai stato messo in discussione, e trova l’espressione più compiuta nei suoi testi.
Le Dicerie Sacre vengono pubblicate a Torino nel 1614. Il testo si compone di tre discorsi: La Pittura, La Musica e Il Cielo.
Un passo sottolinea lo stretto legame tra la poesia e la pittura: “[...] somigliansi tanto queste due care gemelle nate da un parto, dico pittura e poesia, che non è chi sappia giudicarle diverse: anzi tra se stesse le proprie qualità accomunando, ed insieme gli uffici tutti e gli effetti confondendo, da chiunque ben le considera si possono distinguere quasi appena: la poesia è detta pittura parlante, la pittura poesia taciturna [...]”[15]; legame, quello fra arte e poesia, che sarà fondamentale per tutta la cultura seicentesca.
Si è scritto molto della Galeria, che idealmente doveva gareggiare nel concorso fra poesia e illustrazioni con le Immagini di Filostrato; ma l’interesse di Marino nei confronti delle arti traspare con evidenza anche dall’analisi dell’epistolario, nelle numerose lettere inviate ad artisti con l’intento di accattivarsi i loro favori e, più spesso, semplicemente per poter ottenere delle opere.
Come sottolineato da Schutze, in una delle prime edizioni dell’epistolario pubblicato a Venezia nel 1628, è presente un elenco di più di cinquanta artisti di diverse scuole e fra i più importanti dell’epoca: da Palma il Giovane al Cigoli, da Annibale e Ludovico Carracci a Guido Reni, da Francesco Albani a Giovanni Lanfranco, solo per citarne alcuni[16].
Più volte il Marino nelle sue lettere parla di artisti che starebbero lavorando per lui, durante la stesura della Galeria, ma anche nel 1620 quando progetta il suo ritorno a Napoli da Parigi e pensa alla decorazione della sua biblioteca[17].
È così che l’amore per la pittura porta il Marino, da una parte, a reinventarla in versi e, dall’altra, a collezionarla; e, indubbiamente questa sua predilezione per le arti fa sì che la sua poesia eserciti un’interessante e reale influenza sugli artisti dell’epoca.
Gli artisti e l’iconografia di Adone
Nel 1623 Marino pubblica dunque a Parigi, in italiano, il suo più importante poema intitolato Adone, dedicato alla sua mecenate Maria de’ Medici e tutelato dalla protezione di Luigi XIII che si occupa delle spese della pubblicazione; questo lungo poema, più di 40.000 versi divisi in venti canti, conosce una fama senza pari nel milieu artistico e letterario francese che in quel momento storico era, peraltro, molto orientato verso l’Italia.
Il poema mariniano non si limita ad essere una dettagliata narrazione della storia di Venere e Adone, ma diviene piuttosto il luogo per esporre una congerie di diversi racconti mitologici. Accade così di leggere storie legate ad altri miti e ad altri personaggi, collegati al resto della narrazione, e alla struttura principale della storia di Venere e Adone, attraverso una serie vastissima di metafore e comparazioni. E così, solo per fare degli esempi, nel II canto viene narrato il Giudizio di Paride, nel V canto la storia di Diana e Atteone, mentre il canto XIX, oltre a narrare la storia di Polifemo e Galatea, è dedicato alla sepoltura di Adone e alla sofferenza di Venere: per consolare la dea Apollo, Bacco, Cerere e Teti, le raccontano di fanciulli morti nel fiore degli anni, e inseriscono così all’interno del racconto principale tutta un’altra serie di narrazioni.
Questo breve inciso è utile soprattutto per comprendere che, anche se qui si parlerà di opere che hanno come soggetto Venere e Adone, non si può negare che il testo del Marino abbia influenzato gli artisti anche su altre tematiche mitologiche.
La favola di Adone, giovane cacciatore amato da Venere che non ascoltando i consigli della dea di cacciare solo piccoli animali viene ucciso da un cinghiale, è narrata nel X libro delle Metamorfosi di Ovidio (vv. 710-739)[18]. L’epilogo della favola è noto: Venere addolorata per la perdita dell’amante fa nascere dal sangue sgorgato dalla ferita di Adone dei fiori rossi; con le sue preghiere ottiene inoltre da Proserpina che Adone ogni anno possa trascorrere sei mesi sulla terra, e così ogni anno la trasformazione del sangue del giovane in anemone celebra l’anniversario della sua morte e rinascita per volere della dea. La favola di Adone simboleggia, dunque, il mistero della fecondità della vegetazione e del suo perpetuo morire e rifiorire. La trasformazione in fiore assume qui il significato di una trasformazione positiva; la metamorfosi è positiva perché sta a simboleggiare la rinascita e dunque la resurrezione. Un uomo muore, ma per volere di una divinità rinasce a nuova vita grazie alla metamorfosi in fiore, e con questo espediente vivrà per sempre.
La storia di Venere e Adone era molto in voga a Parigi negli anni Venti del Seicento, sia per le numerose traduzioni in francese delle Metamorfosi ovidiane, che proprio grazie alla pubblicazione del poema mariniano.
Nel Cinquecento e nel Seicento il poema ovidiano era, in Francia e non solo, un testo fondamentale per l’educazione degli uomini di elevata cultura, utilizzato soprattutto per apprendere il latino; e numerose sono anche le traduzioni in francese, spesso accompagnate da incisioni, che circolavano nel XVII secolo.
Anche l’interesse di Maria de’ Medici nei confronti delle opere letterarie di tema mitologico è documentato grazie ad un inventario di beni che attesta la presenza di due testi delle Metamorfosi ovidiane nella biblioteca della regina: una copia stampata ad Anversa nel 1591 ed una in traduzione francese dal titolo Les Métamorphoses d’Ovide, mises en vers françois, di Charles e Raimond Massac, stampata a Parigi nel 1617[19]. Non è forse, dunque, un caso che il Marino decida di pubblicare proprio a Parigi, stante i già discussi problemi con l’editore veneziano, il suo capolavoro letterario.
L’Adone del Marino ispirò numerosi pittori nella realizzazione di opere aventi per soggetto la storia del giovane cacciatore amato da Venere; e, infatti, il tema ebbe larga diffusione soprattutto nel primo cinquantennio del Seicento. Il testo era accessibile agli artisti e la sua influenza è accertata, senza ombra di dubbio, soprattutto in ambito francese.
Fra i dipinti che hanno per soggetto la morte di Adone tratti quasi certamente dal testo del poeta napoletano vanno segnalati il dipinto realizzato da Laurent de La Hyre, oggi, al Museo del Louvre, datato fra il 1624 e il 1628[20]; il dipinto realizzato da Poussin conservato presso il Musée des Beaux-Arts de Caen, e le numerose versioni della morte di Adone realizzate, in diversi momenti della carriera, da Alessandro Turchi.
La Morte di Adone di La Hyre (Cfr. scheda opera 52) si distingue dal classico tema di Venere e Adone - solitamente rappresentati insieme nel momento che precede la sfortunata caccia del giovane o nel momento in cui il giovane sta per lasciare la dea per dedicarsi all’attività venatoria o, ancora, nel momento in cui Venere scopre il corpo dell’amante - per la scelta del momento rappresentato: Adone è colto nel momento della morte; il giovane giace solo, in primo piano ad occupare tutta la metà inferiore del dipinto, coperto solo da un drappo rosso, e ai suoi piedi è presente il cane, unico testimone della sventurata fine. La storia di Adone è stata, in questo caso, privata di tutto l’apparato tradizionale di attributi: Venere è assente; manca l’idea della futura trasformazione in fiore; manca il cinghiale; si è in grado di riconoscere il soggetto solo dalla presenza della lancia che connota il giovane come cacciatore, dalla presenza del cane, e dalla bellezza, sempre messa in evidenza nelle fonti letterarie, di Adone.
Le Metamorfosi non descrivono la scena e dunque il pittore sembra essersi rifatto ad un’altra fonte per la realizzazione del suo dipinto.
È possibile pensare ad un’influenza dei versi dell’Adone del Marino sul pittore francese, e si può concordare con Stephane Loire quando propone un’ispirazione precisa del pittore legata alla strofa 98 del canto XVIII in cui si legge: “oh come dolce spira, e dolce langue, oh qual dolce pallor gli imbianca il volto! Orribil no, ché nel’ orror, nel sangue il riso col piacer stassi raccolto. Regna nel ciglio ancor vòto ed essangue e trionfa negli occhi Amor sepolto e chiusa e spenta l’una e l’altra stella lampeggia e Morte in sì bel viso è bella”[21].
La proposta dello studioso francese appare attendibile perché Laurent de La Hyre non poteva non conoscere il testo mariniano, che aveva conosciuto immediata fama e diffusione a Parigi, ben prima della traduzione completa dell’opera apparsa nel 1662; inoltre il pittore era vicino all’entourage degli artisti e dei letterati che circolavano alla corte di Maria de’ Medici, luogo di “nascita” del poema mariniano, tramite il suo maestro Quentin Varin che all’epoca ricopriva la carica di primo pittore del re.
Anche Nicolas Poussin ne La morte di Adone conservato al Musée des Beaux-Arts di Caen (Cfr. scheda opera 53), con una datazione dibattuta che va a collocarsi fra il 1626 anno proposto da Rosenberg e il 1630 proposto da Blunt e Mahon[22], sposta l’attenzione sulla parte finale della favola mitologica. Non si tratta tuttavia della rappresentazione della morte solitaria di Adone, ma del momento in cui Venere scopre il corpo di Adone morente e, scesa dal carro, versa, sul corpo del giovane, un liquido da una brocca. Sembrano qui ripresi i versi di Ovidio che scrive: “versò [Venere] nettare odoroso sul sangue, e il sangue al contatto cominciò a fermentare [...] dal sangue spuntò un fiore dello stesso colore”[23]. In questo caso si potrebbe dire che Poussin si attiene maggiormente alla fonte ovidiana piuttosto che farsi influenzare dalla fonte mariniana. Tuttavia è interessante notare, ai fini del discorso, la similitudine della posizione del corpo di Adone con il corpo di Cristo della Lamentazione di Monaco dello stesso Poussin[24]. Questa coincidenza non può essere fortuita. Poussin era perfettamente al corrente delle analogie che esistevano fra il mito di Adone, simbolo della resurrezione post-mortem e la storia di Cristo. Inoltre è da aggiungere che, sempre nel dipinto in questione, Rosenberg intravede anche una similitudine fra Venere e una “Madelein laïque”[25].
Questa attenzione che Poussin dimostrerà durante tutta la sua carriera per il sincretismo fra l’antichità pagana e il mondo cristiano non può che nascere dalla familiarità del pittore con il poeta che su questo sincretismo aveva fondato tutta la sua poetica.
Ma Adone come Cristo non compare solo nell’opera pittorica di Poussin.
Alessandro Turchi realizza almeno tre versioni del tema di Venere e Adone: una versione è conservata a Londra in collezione privata, già a Bologna in casa Conti dai Servi (Cfr. scheda opera 56), una presso la Galleria Corsini di Firenze, un tempo attribuita ad Annibale Carracci e poi riattribuita correttamente dal Longhi[26], e l’ultima presso la Gemaldegalerie di Dresda. Nelle tre tele il momento della favola che Turchi sceglie di rappresentare è sempre quello di Adone morente fra le braccia di Venere.
Nell’opera di Dresda Adone morente è sostenuto da Venere, sulla sinistra un puttino piange l’accaduto, mentre sulla destra stanno i due cani del giovane cacciatore. La tipologia compositiva è quella della Pietà con Cristo adagiato in braccio alla Vergine; similitudine che si fa ancora più evidente se si prende in considerazione il dipinto conservato a Londra. La scena è qui molto più stretta: i due protagonisti sono in primo piano e di Adone è visibile solo il busto adagiato in grembo a Venere. Due puttini piangono per la morte del giovane.
La scena del compianto di Venere sul corpo di Adone non è presente in Ovidio, dunque, a mio avviso, la fonte per questi dipinti e in particolar modo per quello ora a Londra, deve essere rintracciata in alcuni versi dell’Adone di Giovan Battista Marino. Nel canto XVIII si legge infatti: “[...] purché morto ancor m’ami e non ti spiaccia / aver la tomba tua fra le mie braccia”, “Su’l bel ferito la pietosa amante / altrui compiange, e se medesma strugge. / E sparge, lassa lei, lagrime tante, / e con tanti sospir l’abbraccia e sugge [...]”[27], e ancora “[...] e sentendo scaldarsi il cor di ghiaccio / per volerlo baciar lo stringe in braccio”[28]. Come esiste una evidente comparazione a livello letterario fra il compianto di Adone e il compianto di Cristo così interviene la stessa similitudine a livello pittorico[29].
Il Guardiani[30] ha evidenziato alcuni particolari del poema che possono essere letti in chiave cristologica. Diversi sono gli elementi che sacralizzano il personaggio di Adone in Marino, e sulla base dei fondamentali testi del Guardiani e del Pozzi, si cercherà qui di sintetizzarne i più salienti.
Nelle strofe 151-156 del XVI canto dell’Adone l’ultimo concorrente che si presenta al concorso di bellezza si chiama Luciferno (nome composto da Lucifero più Inferno): si tratta quindi di Satana venuto a profanare il tempio dell’amore.
La freccia di Cupido, che solitamente fa innamorare, in questo caso uccide perché Satana deve essere ucciso dall’amore. Il Guardiani individua poi un confronto fra Adone che, nello stesso canto del poema, viene proclamato re e Cristo che prima entra in Gerusalemme e poi scaccia i mercanti profanatori dal tempio.
All’ottava 195 dello stesso canto una colomba sacra, in quanto destinata all’offerta sacrificale, vola sulla spalla di Adone e qui appare ovvio il riferimento alla comparsa della colomba dello Spirito Santo nel battesimo di Cristo.
Ancora, la voglia a forma di rosa che Adone ha sul petto, come suggerito dal Pozzi, “richiama la piaga del costato di Cristo per via d’una metafora acquisita al linguaggio mistico”[31].
Nel canto XVIII il Marino introduce il personaggio dell’avara Aurilla, antica ancella di Venere, che tradisce Adone per denaro. Dopo l’uccisione di Adone si pente, getta l’oro e si suicida, ricordando chiaramente quanto avviene a Giuda dopo il tradimento di Cristo.
Di fondamentale importanza è poi il tema del pianto di Venere per la morte di Adone che rappresenta un vero e proprio planctus Mariae; e come sostenuto dal Pozzi, “si accentua la rappresentazione di Venere nella forma della mater dolorosa; tema che aveva nella letteratura di allora almeno tre esempi: le Lagrime di Maria Vergine del Tasso, i Pietosi affetti del Grillo, e le Lagrime di Maria Vergine di Campeggi, o, con poche differenze le Lacrime della Maddalena del Valvasone e quelle più famose di San Pietro del Tansillo”[32].
All’ottava 358 del canto XIX si legge: “e gli ha la piaga del costato orrenda / fasciata amor con la sua propria benda”. Interessante è qui notare il preciso riferimento alla ferita di Adone con i termini “piaga del costato”; e il termine costato compare anche nelle ottave 155 e 178. Infine, la benda di Cupido rimanda naturalmente al lenzuolo di Giuseppe d’Arimatea che avvolge il corpo di Cristo. Prima della cremazione poi, Venere imbalsama le viscere di Adone con sabeo licore (come si legge alla strofa 411 del XIX canto), con possibile rimando alla pie donne che preparano unguenti per l’imbalsamazione del corpo di Cristo.
Tutti questi elementi portano alla naturale conclusione della metamorfosi in fiore, che avviene per miracolo divino: “Poiché così parlò, di nettar fino / pien di tanta virtù quel core asperse, / che tosto per miracolo divino / forma cangiando, in un bel fior s’aperse”[33]; tale trasformazione simboleggia la resurrezione di Adone e non può che corrispondere alla resurrezione di Cristo; e così “la morte di Adone è la morte di Cristo, la metamorfosi è la resurrezione”[34].
Certo il Marino non accenna mai apertamente al rapporto fra la figura di Adone e Cristo, ma ciò appare comprensibile dal momento che si trovava ad operare in un rigido ambiente controriformistico; precauzione che peraltro non impedirà che l’Adone venga messo all’indice. Ma il rapporto fra temi profani e temi cristologici nasce già nelle Dicerie Sacre quando lo stesso poeta paragona le divinità pagane con i personaggi delle storie cristologiche, ed è così che si assiste, per esempio, all’analogia fra la figura di Pan e la figura di Cristo come Verbo incarnato: “Ed ecco ch’io dissi vero che la figura di Pan è figura di Dio, il quale in sé tutto comprende, [...] genera senza peregrino concorso le cose tutte”ed ancora sugli attributi del personaggio mitologico: “[...] in questo Pan ci viene chiaramente dinotato il grande e vero Iddio nella verga pastorale, ritorta in cima, si dimostra la possanza ed il governo di tutte le cose [...] dalla fistula cerata di piò cannelle si accenna l’ordinata armonia de’ cieli”[35]; o ancora: “[...] ma chiunque con zelo pio e con ingegno catolico prende a spiarle addentro [si sta parlando delle divinità], vi può contemplare eziandio adombrati assaissimi sacramenti della Cristiana religione. Così ritroverà in certo modo figurata la Trinità in Gerione [...], Lucifero in Fetonte, Gabriello in Mercurio, Noè in Deucalione, [...] l’incarnazione del Verbo in Danae, l’amor di Cristo in Psiche, [...] l’istituzione del Sacramento in Cerere, la passione in Atteone, la discesa al limbo in Orfeo, la salita al cielo in Dedalo, l’incendio dello Spirito Santo in Semele, l’Assunzione della Vergine in Arianna [...]”[36].
Sembra quindi provata l’influenza della poetica mariniana nella sua particolare accezione cristologica, sugli artisti in diverso modo a contatto con lui.
[1] Si vedano in particolare Pericolo, 2003, pp. 263-292; Pericolo, 2002, pp. 35-45; Graziani, 1996, pp. 367-385; Cropper, 1992, pp. 137-164.
[2] Schütze, 1992, p. 218.
[3] Fumaroli, 2005, p.11.
[4] Sainte Fare Garnot, 2005, p. 234.
[5] Passeri, 1772, p. 323.
[6] Bellori (Borea), 1976, p. 425.
[7] Questa ipotesi è stata sostenuta da Jane Costello; Costello, 1955, pp. 293-317.
[8] Su questo dibattito si veda Pericolo, 2001, pp. 35-45, in particolare la nota 13 con bibliografia precedente.
[9] Marino (Guglielminetti), 1966, lettera 134 a Ciotti.
[10] Fumaroli, 1995; l’autore dedica un ampio e approfondito capitolo alla contrapposizione fra il pontefice e il poeta; molto spazio è anche dedicato alla figura di Urbano VIII come poeta neolatino in contrapposizione dunque alla poetica mariniana.
[11] Ibidem, p. 115.
[12] Tuttavia all’interno della cerchia barberiniana non mancavano coloro che erano solidali con il poeta napoletano come, ad esempio, Gerolamo Aleandro che scrive un testo dal titolo: Difesa dell’Adone poema del cav. Marini per risposta all’Occhiale del cav. Stigliani pubblicato aVenezia da Giacomo Scaglia nel 1629.
[13] Fagiolo dell’Arco, 1996, p. 294.
[14] Passo tratto dalla Relatione della pompa funebre fatta dall’Accademia de gli Humoristi di Roma. Per la morte del cavaliere Gio.Battista Marino. Con l’orazione recitata in loda di lui, redatta dal Freschi nel 1626 e pubblicata a Venezia; citato in Fagiolo dell’Arco, 1996, p. 296.
[15] Marino (Pozzi), 1960, p. 151.
[16] Si veda Schutze, 1992, p. 211.
[17] Ibidem, p. 212.
[18] Ovidio (Bernardini Marzolla), 1994.
[19] Conihout, 2005, pp. 257-259.
[20] Loire, 1998, p. 49; si veda anche Maria de’ Medici, 2005, p. 302.
[21] Ibidem, p. 56, nota 32.
[22] Per la dibattuta questione cronologica in merito a questo dipinto si veda Rosenberg, in Nicolas Poussin, 1994, p. 155 con le diverse ipotesi.
[23] Ovidio (Bernardini Marzolla), 1994, libro X, vv. 731-735.
[24] La comparazione fra le due figure si deve a Blunt; si veda Blunt, 1967, p. 115.
[25]Nicolas Poussin, 1994, p. 155.
[26] Longhi, [1926] 1967, p. 292.
[27] Marino (Pozzi), 1988, canto XVIII, strofa 169, vv. 1-4.
[28] Ibidem, strofa 186, vv. 7-8.
[29] Questa relazione fra i versi mariniani e l’Adone morente di Turchi era già stata da me proposta in occasione della mostra veronese dedicata al pittore; a tal proposito si veda Alessandro Turchi, 1999, p. 148, scheda 38.
[30] Guardiani, 1989, in particolare p. 52 e seguenti.
[31] Marino (Pozzi), 1988, p. 621, con bibliografia di approfondimento sull’argomento. Per questo paragone fra la rosa e le piaghe di Cristo il Grillo, poeta religioso caro al Marino, a proposito delle piaghe di Cristo scrive alla strofa 42 delle Esequie di Gesù: “[...] e rose ohimé stillanti infra le spine” e poi alla strofa 57, “[...] fronte già bianca ed or vermiglia rosa nata ed aperta fra pungenti spine”, e ancora nella strofa 5 del Cristo Flagellato “[...] e da spine ben mille cader le rose in sanguinose stille”.
[32] Marino (Pozzi), 1988, pp. 653-655.
[33] Ibidem, canto XIX, ottava 420.
[34] Guardiani, 1989, p. 52.
[35] Marino (Pozzi), 1960, p. 214.
[36] Marino (Pozzi), 1960, pp. 212-213.