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GIOVANNI ANDREA dell’ANGUILLARA, Le Metamorfosi di Ovidio, Venezia, XIV, f. 238
Sibilla in voce
La fatal donna al fin di queste note
dà l’occhio al buon Troian divoto, e fido,
e d’un caldo sospiro il ciel percote,
poi scopre il mesto cor con questo grido:
Sacre a la Dea le statue alme, e devote,
che ti die’ nel suo seno il primo nido:
ch’io son mortale, e questo corpo fia
tosto di terra anch’ei per colpa mia.
Febo ne l’età mia più verde, e bella
si come piacque al ciel, di me s’accese:
e con facondo, e candida favella
l’interno foco suo mi fe’ palese:
mi disse poi, bellissima donzella,
cui fu di tante gratie il ciel cortese,
poi che m’ha preso il core il tuo bel guardo,
habbi pietà del foco, ond’io tutt’ardo.
E per mostrar, che ’l mio parlar non mente
nel raccontar, quanto io t’ammiri, e ami;
se qualche gran desio t’ange la mente,
fammi saper, qual don più cerchi e brami,
che giuro per quel torbido torrente,
che lega d’indisolubili legami
gli eterni Dei, che, se scopri ’l tuo intento,
ti farò d’ogni gratia il cor contento.
Io che ’l gran giuramento odo, che ’l lega
che d’ogni don, ch’io bramo, a gradir m’habbia
mentre il mio lume il guardo à terra piega,
vede un monton di ben minuta sabbia:
io n’empio il pugno, e mentre ancor mi prega,
al don, ch’io bramo havere, apro le labbia,
tant’anni bramo unito il corpo a l’alma
quanti ho grani di polve in questa palma.
Misera me, non seppi ’l dono usare
del biondo Dio, che ’l tempo ne governa:
che, se saputo havess’io dimandare,
viver fatto m’havria giovane eterna:
ottenni ’l don, né volli contentare
lo Dio de la maggior luce superna.
Et egli, à fin ch’al suo voler mi pieghi
così di novo à me porge i suoi preghi.
Habbi pietà de’ miei noiosi affanni,
che la gratia, c’hai chiesta è breva, e nulla:
ma quando riparar voglia à miei danni,
farò, che tu vivrai sempre fanciulla.
Quando sarai discosta oltr’à cent’anni
dal primo dì, ch’entrassi ne la culla,
se ben la mia promessa io terrò ferma
vecchia vivrai, disutile, et inferma.
Era allhor ne l’età mia più verde, e bella,
passato il terzo lustro havea di poco;
e mi sentia disposta, agile, e snella,
tutta vivacità, tutta era foco:
tal che di Febo il priego, e la favella
sprezzai, né à l’amor suo volli dar loco.
Che l’età, dove allhora io mi trovai,
credea, che non dovesse finir mai.
Così sprezzando il don del biondo Dio,
mi stei senza consorte, e senza amante.
Ma già quel vago, e raro aspetto, ond’io
d’amore accesi l’alme eterne, e sante,
s’è via fuggito; e ’n questo sto rio
mi trovo inferma, debile, e tremante.
E quel, che fa peggior l’empia mia sorte,
e ch’io son molto lunge da la morte.