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LODOVICO DOLCE, Le Trasformationi, Venezia, p. 276 (f. sii v.)

E chiamandola dea, disse, che ancora

le farebbe inalzar tempi & altari.

Troppo (ella disse) il tuo parlar m’honora:

dea non son’io; ne don merto si rari.

Ma ben sarei di questa legge fuora,

che ci da nel poter de glianni avari,

et eterna e immortal sempre vivuta,

se ad Apollo benigna io fossi suta.

 

Se mia virginità gli concedea,

che fatto era di me fervido amante:

pur, quando egli col tempo mi credea

intenerir, se non poteva inante,

disse, chiedessi a lui, quanto io volea,

chavrei, piu ch’altra mai donna si vante.

A le proferte io d’allegrezza piena

subito ambe le man m’empio d’arena.

 

E chieggio, che tant’anni a la mia vita

donasse, quanti in quella erano grani;

e sciocca fui, che s’una età fiorita

chiedeva, i miei disij non eran vani.

Ma se la voglia sua facea compita

(si come i miei pensier furon lontani)

certo goduto havrei con la beltade,

giovane e fresca una perpetua etade.

 

Ma non volendo piu di quanto lice

a casta donna, in tal voler stei ferma.

Hora è passata quella età felice,

e la vecchiezza vien debole e inferma,

d’ogni dolce riposo invocatrice;

ch’è, quasi secca piaggia ignuda & erma:

anzi è venuta pur con pie’ tremante,

e ancor lungo camin mi resta avante.

 

Però, che sette secoli ho forniti,

e per equar il numero, ch’ho detto,

ancora trecent’anni appresso i giti

conven ch’io viva, e d’adempirli aspetto:

e tempo fia, ch’in questi corvi liti

diverrà tal questo mio vecchio aspetto,

che non sarò da febo conosciuta;

e dirà non havermi unqua veduta.

 

Tanto da quel, ch’io fui, sarò cangiata

ne fia, che piu mi veggia occhio mortale,

ma voce rimarrò benché celata,

conosciuta però sembre per tale […]