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GIOVANNI ANDREA DELL’ANGUILLARA, Le Metamorfosi di Ovidio, libro terzo decimo, p. 230:
Fra tante di Nereo figlie, e di Dori
A’ cui solea la tanto amata Scilla
Cantar gli altrui mal collocati amori
Di quei, ch’accesi havea la sua pupilla;
Un giorno à Galathea, che in grembo à fiori
S’ornava il biondo crin, piacque d’udilla
E poi ch’ella fini, con mesto lamento
Beata te, cui sol gentili spirti
Per la tuà gran beltà volt’hanno il core.
Ch’à piacer tuo da lor puoi dipartirti,
Senza haverne à temer danno, ò disnore.
Misera me, c’huomini alpestri & hirti
Pieni d’ogni schifezza, e d’ogni orrore
Il più fervente in me locar desio
Per far d’eterno duol colmo il cor mio.
E se ben le fatali eteree stelle
Fer la Nereide mia formar figura
Da Nereo, e Dori, e tante hebbi sorelle,
Ch’esser da i danni altrui dovea sicura:
Fuggir però da l’amorose, e delle
Voglie d’un mostro horrendo di Natura
Non potei senza un danno estremo, e intanto
Le tolse la favella il troppo pianto
Scilla, che gli occhi à lei scorge due fiumi,
Con le candide sue parole, e dita
Le dà conforto, e le rasciuga i lumi,
E soccorre il suo mal di qualche aita
Deh non lasciar, che’l duol piu ti consumi,
Ma scopri il mal, ch’à lagrimar t’invita,
Che da l’amor, ch’io t’ho portato, e porto,
Havrai fido consiglio, e più conforto.
Poi ch’elle à Galathea sciugò le ciglia,
E placò in parte il duol, che la trafisse:
La dea del mare alzò verso la figlia
Di Forco, e di Crateide il guardo, e disse.
Prender punto non dei di maraviglia,
che in lagrime il mio duol si convertisse;
Che quando la cagion n’havrai ben scorta,
Ti maraviglierai, ch’io no sia morta.
Simetide arrichì d’un figlio il mondo
Pur dianzi, che d’un Fauno havea acquistato,
Bello, leggiadro, amabile, e giocondo,
Fra i più lodati spirti il più lodato.
Questi à me sola il cor diede, secondo,
Piacque al mio buono su’l principio fato
E co’l suo dolce, e gratioso modo
Al fin mi strinse à l’amoroso nodo.
Aci il nomaro, e dal suo nascimento
L’Eclittica havea corsa il Re di Delo
Sedice volte, e’l suo lascivo mento
Cominciava à fiorir del primo pelo.
Non si potea trovar gioia, e contento
Maggior nel centro immobile del cielo.
Del pari era l’amor, del par l’etate,
E’ ver, ch’ei possedea maggior beltade.
Mentre io godea si dolce stato, occorse
Per sempiterno mio pianto, e sciagura,
Ch’un fier Ciclopo à caso un dì mi scorse.
E preso fu da l’amorosa cura.
Io ti so dir ( s’udito non hai forse
De la deforme lor parlar figura)
Che quella, che vid’io di Polifemo,
Fu tal, ch’à dirlo sol pavento, e tremo.
Era grande il sellone à par d’un monte,
Non che le braccia, i diti parean travi.
I peli de la barba, e del’inconte
Chiome, pareano gommone di navi.
Un occhio sol nel mezzo havea la fronte
Pur se ben membra havea si immense, e gravi,
Si lunge ne l’andare il piè stendea,
Ch’i cervi il tardo suo passo giungea.
Questi bramò di me farsi consorte,
Per gravare il mio cor d’eterni guai.
Io l’hebbi in odio in ver più che la morte,
Ma per lo gran timor no’l dimostrai.
Hor se da me saper brami per sorte
Da l’odio, e de l’amor, ch’à due portai,
Qual fu di più poter dentro al mio core,
Sappi, ch’andò del par l’odio, e l’amore.
O quanto è il tuo potere alto, e stupendo
Amor, (chi’l crederebbe?) un huom tant’epio,
Che fa d’ogni mortal l’ultimo scempio,
Che sprezza il ciel co’l suo poter tremendo,
Te sente, Amor, con disusato esempio.
E per servire à la tua santa legge, (gregge)
Gli antri abbandona, è l proprio officio.
E per mostrarsi gratioso, e bello
Co’l rastro, con la forca, e co’l tridente,
Pettina, & orna il suo rozzo capello,
E netta con la vange il crudo dente.
Recide con la falce al mento il vello,
Poi corre à l’acqua chiara, e trasparente.
E sta quivi à specchiarsi intento, e fiso,
Per comparsi la barba, il crine, e’l viso.
Del sangue, e de la morte empia la sete
Non li vede albergar più nel suo petto.
Le navi passan via sicure, e liete
Senza aver più da lui noia, ò sospetto.
Hor mentre preso à l’amorosa rete,
Pensa à quel, che da me brama diletto,
Telemo à lui predice il suo destino,
Ch’illustre fra i Ciclopi era indovino.
Questo saggio indovin, dotto, & esperto
Che mai d’augello alcun non fu ingannato,
Disse: Ho veduto, ò Polifemo, aperto
Quel, c’ha de l’esser tuo disposto il fato
Guardati pur, ch’io ti so dir per certo,
Ch’un cavalier nel regno Itaco nato,
Giungendo à caso à te dal lido Greco
De l’occhio, solo hai , ti farà cieco.
Ben tu sei quello, (il mostro al mago disse)
Che più ne l’arte tua non vedi lume,
Sia pur quel cavalier d’Itaca Ulisse,
E per cercarmi in mar botta le piume;
Che quando in questo punto anchor venisse
Un’altra innanzi à lui m’ha tolto il lume.
Hor come vuoi, ch’io tema di costui
Se m’ha cecato un’altra innanzi à lui?
Schernisce l’indovino, e’l grave passo
Movendo và per la marina arena,
E discorrendo và co’l capo basso
Qualche rimedio à l’amorosa pena.
Tal’hor si torna al suo cavato sasso
A’ dar riposo à l’affannata lena;
E fagli, ovunque và, l’amor, che’l coce
Sempre haver me ne’l core, e ne la voce.
Un monte lunge in mar tanto si stende,
che quasi l’onda il cinge d’ogni intorno.
Il fiero innamorato un dì v’ascende,
Per volervi passar parte del giorno.
Il gregge, se ben cura ei non ne prende,
Va seco, e presso al suo pasce soggiorno.
E giunge mentre ne la costa ei siede
Quasi al giogo co’l crin, co’l piede al piede.
Posato il pin, che suol guidar l’armento,
Ch’arbor farebbe ad ogni grossa nave,
Comincia à far sonar quello stormento,
Che à lato havea di perforatrave;
La fistola dà fuor l’usato accento,
Più tosto strepitoso, che soave;
E da lo strae d’Amor piagato, e punto,
Col canto al dolce suon fa contrapunto.
Fu l’aspro canto suo tanto sonoro,
ch’udì ciascun, che volle il suo concetto.
E Lilibeo, Pachino, Etna, e Peloro
Quel canto udì, ch’al mostro uscì dal petto.
Et io, ch’in grembo al mio caro thesoro
Il volto havea con mio sommo diletto,
L’orecchie al suo parlar con gli altri tesi,
E queste fur’le note, ch’ion’intesi.
Lo splendor de le rose, e de’ligustri,
Mentre si stan nel più felice stato,
Possan le guance tue vaghe, & illustri
Co’l ben misto color lucente, e grato.
La tua fiorita età, sol di trilustri,
Sembra d’April quando è su’l fiore un prato.
Quando di ben fra noi può dare il mondo,
Tanto n’appar nel tuo viso giocondo.
Promette altrui la tua benigna fronte,
Che tu seid’ogni ben larga, e leale,
Non men di quel, che suole essere il Fonte,
D’ogni suo don cortese, e liberale.
Le vaghe luci tue non son men pronte
Con lo splendor, ch’è in lor vivo, e immortale,
A promettere altrui gioia, e mercede,
Riposo, humanità, concordia e fede.
Ma ricercando poi le parte ascose,
Ch’albergan Galatea ne la tua mente;
Invece de i ligustri, e de le rose,
Ogni herba, vi si trova aspra, e pungente,
Ortiche, Spine, e herbe velenose.
E se promette il volto essere clemente,
Ne porse il rio pensier, c’hai dentro al core,
Noia, pianto, discordia, e finto amore.
Deh fa, che in te pietà regni, e risponde
A l’altre parto tue gradite, e belle.
E poi che d’ogni gratia il viso abonda,
Scaccia dal cor le parti inique.
E non fuggir da me ne la salsa onda,
A’ ritrovar tua madre, e tue sorelle,
C’haver sol per amore io ti vorrei,
Ne contra il tuo voler mai gir potrei.
Io credo ben, se tu de l’esser mio
Sapevi in parte almen, se non in tutto,
che non avresti il coruer me si rio,
Net’ andresti à gittar nel marin flutto.
Ne sol faresti il cor benigno, e pio,
E ti dorria del mio lamento, e lutto;
Ma brameresti sopra ogni altra cosa
Di farti à Polifemo amica, ò sposa.
Gli antri capaci miei né sabi vivi,
Han si ben posto il lor ricetto interno,
Che non hanno à temer gli ardori estivi,
Ne men posson sentire l’horror del verno.
Forse che i campi miei son scarsi, e privi
Dè frutti, ch’à l’human servon governo?
N’han tanti, e si maturi, e si soavi,
Che i rami romper fan, tanto son gravi.
In copia attendon te l’uve mature,
Del bello aureo color liete, e gioconde.
Mostra de haltre uve anchor le scorze oscure,
Ch’è maturo il liquor, ch’entro s’asconde,
Potrai veder tra l’humili verdure
Le fraghe rosseggiar fra verdi fronde.
E per serbarle à la tua bianca mano,
Io so guardarle, e starne ognun lontano.
Se ben la siepe v’han fondata, e forte,
Ogni horto ha il suo custode, e’l suo mastino,
Di peri, e pomi, e frutti d’ogni sorte
Abonda ogni mio campo, ogni giardino.
Tommi pur per amante, ò per consorte,
E togni ogni mio bene in tuo domino.
Ogni arbore, ogni frutto, che vi pende,
La tua candida man brama, & attende.
Se vuoi veder, ch’io più posso in effetto,
Di quel, che detto t’han le mie proposte,
Pon mente à queste gregge, à cui permetto,
Che pascan queste valli, e queste case.
Quante n’ho anchor, che per vario rispetto,
Per gli antri, e per le selve stan nascoste.
Ne il numero saprei mai dirne intero,
Quando bramasse alcun saperne il vero.
E’ da persona povera, e mendica
Le capre haver per numero, e l’agnelle.
Vieni à veder da te senza ch’io ‘l dica,
Quanto siano grosse, ben formate, e belle.
Che par che portar possano à fatica
Le copiose, e tumide mammelle.
I parti lor più teneri, e gentili,
Si stanno anchor ne’lor tepidi ovili.
Fra i molli latticinij io mi confondo,
Tanti, e si freschi n’ho di giorno in giorno.
Se del latte indurato in copia abondo,
Ne fan le gregge, c’ho qui d’intorno.
Deh lieva il viso homai grato, e giocondo
Fuor del paterno tuo marin soggiorno,
E vienne à me, che di buon cor ti chiamo,
E d’honorarti sol discorro, e bramo.
Forse sol doni havrai da me vulgari,
O’ lepri, ò caprij, ò pargoletti augelli
Di presenti comuni, & ordinari:
Ben vorrò, ch’ogni dì n’habbi novelli.
Ma vorrò anchor i doni illustri, e rari
Contentar gli occhi tuoi lucenti, e belli
Cacciare à questi giorni un’orsa io volsi,
E con la vita à lei due figli tolsi
Fatta la madre lor l’alma priva,
E visti, e presi i suoi teneri figli,
Dissi, vò serbar questi à la mia diva,
E pregar lei, che in don da me gli pigli.
La loro età tant’altre non arriva,
Che nuocano ò co’ denti,ò con gli artigli.
Ne di scherzar si veggon mai satolli,
Tanto son dolci e buffoncini, e falli.
Deh quel volto gentil, che’l mar m’asconde,
Discopri alquanto al mio cupido sguardo:
E con le voglie al mio voler seconde,
Il buon amore accetta, and’io tutt’ardo.
Pur l’altro di mi riguardai ne l’onde,
Ne mi trovai men bello, che gagliardo.
Mi rallegrai mirandomi ne l’acque,
Tanto del corpo mio l’ombra mi piacque.
Riguarda quanto io sia robusto, e quanto
Sia grande à paragon de gli altri vivi.
Nel regno, che chiamate eterno, e Santo,
Non so se Giove à tanta altezza arrivi.
Voi dite pur, che porta il regio manto,
Non so che Giove in ciel fra gli altri Divi.
Riguarda il crine, e’l mento hirsuto, e folto,
Quanta don gratia al capo, al tergo, e al volto.
Ne ti pensar, che’l duro, e spesso vello,
Che copre il corpo mio tutto d’intorno,
Mi renda men spettabile, e men bello,
Anzi mi fa più nobile, e più adorno.
Deforme senza piume appar l’augello,
E quando il sol viene à far breve il giorno,
Ogni arbor secco appar, ch’l verno crudo
Restar de le sue foglie il face ignudo.
D’un’occhio, come vedi, io mi contento,
Ch’à par d’un terso scudo arde, e risplende.
E ben, che solo sia, mi val per cento,
Tanto il suo giro, e sguardo oltre si stende.
E lo Dio, ch’ogni cielo, ogni elemento
Vede, e co’l lume suo lucido il rende,
Discerne pur da l’uno à l’altro polo
Co’l lume, ond’egli aggiorna, unico, e solo.
Aggiungi à tanto ben, che’l padre mio
Del vostro immenso mar possiede il regno:
E vedi ben, se cedi al mio desio,
Quanto il suocero havrai superbo, e degno.
Deh mostra il cor ver me benigno, e pio,
Per me, ch’anchor del ciel sprezzo lo sdegno.
Io pur son quel, ch’à te sola m’inchino,
E sprezzo Giove, il folgore, e’ l destino.
Certo io non ti sarei tanto importuno,
Vedrei di raffrenare il troppo affetto,
Se tu spregiavi parimenti ogn’uno,
Quand’altro amor non t’infiammasse il petto:
Ma, perché scacci il figlio di Nettuno,
Et Aci inviti al coniugal diletto?
Perché, s’io vengo a te, mi fuggi, e sprezzi?
Et Aci chiami dopo, Aci accarezzi?
Hor goda Aci di te, solo à te piaccia,
Ch’io vò (se ben per tuo canto mi spiace)
Che vegga, che’l valor de le mie braccia
A’la grandezza mia ben si confaca.
S’avien, ch’io trovi mai, ch’ei ti compiaceva
Per tormi ogni mio bene, ogni mia pace.
Vòtrargli il cor, vò mille pezzi farne,
E à questi campi, e al mar dar la sua carne.
Deh motivi à pietà, mia diva, un poco,
Ahi, che di tanto ardore il petto ho pieno,
Che par, che’l monte Etneo con tutto il foco
Sia stato trasportato entro al mio seno.
Deh lascia il mar ceruleo, e’l patrio loco,
E mostra il volto al ciel chiaro, e sereno.
Ma tu con Aci tuo forse stai,
Ne del mio amor ti cal, ne dei miei guai.
Irato in questo altrove il camin prende,
E la voce, e i sospiri alza di sorte,
Che’l mondo di qua giù non solo offende,
Ma quello anchor de la celeste corte.
Tal se’l toro talhor vinto si rende,
E cede la giovenca al bue più forte,
Se’n và in disparte, e mentre se’n ricorda,
Il mondo co’l mugghiare,e’l cielo assorda.
Mentre il Ciclopo rio scorre la costa,
Dal’ira spinto, e de la pena acerba,
Ver dove io mi giacea molto discosta,
Viene à girar la luce empia, e superba,
E vede me , ch’essere credea nascosta,
In grembo ad Aci mio, fra fiori, e l’herba.
Ben, la sua voce allhor cruda, & altera
Pabò per quel, ch’udìj, la nona sfera.
Tremò per troppo horrore Etna, e Tifeo
Fece maggior la fiamma uscir del monte
E Pachino, e Peloro, e Lilibeo
Quasi attuffar nel mar l’altera fronte:
Cadde il morte e di man nel monte Etneo
Al Re di Lenno, à Sterpe, & à Bronte.
Fuggir fiere, & augei del lo ricetto,
E si strinse ogni madre il figlio al petto.
Vi veggo, risonò con mesto accento,
L’irato, horrendo, & orgoglioso grido:
Ma vò, che questo l’ultimo contento
Sia, che vi doni Venere, e Cupido.
Io, che l’altere sue minaccie sento,
Fuggo, e m’attuffo entro al paterno nido:
Aci, ch’al mio fuggir volge lo sguardo,
Fugge, anch’ei verso il mar, vien più tardo.
Datemi ( egli dicea) datemi aiuto,
Voi miei parenti, e tu fida compagna,
Sich’à dar venga anch’io censo, e tributo
A’ la cerulea, e liquida compagna.
Presa intanto il crudel per darlo à Pluto
La cima in bracio havea d’una montagna,
E tutto à l’ira, e à la vendetta inteso
Scagliò ver l’amor mio l’horribil peso.
Ben ch’un angulo sol del grave scoglio
Ferisse l’infelice innamorato;
Fu per eterno mio pianto, e cordoglio
Tutto in un tempo morto, e sotterrato.
Io, ch’aiutarlo in quel, ch’io posso, voglio,
Fo cò miei preghi, e co’l favor del Fato
A’ la coperta sua sanguinosa scorza
Prender de l’avo suo la viva forza.
Purpureo il sangue uscir de la gran pietra
Si vede, e larga ogni hor crescer la vena.
Indi si cangia, e quel colore impetra,
Che’l torbido torrente ha per la piena
Lascia poi d’esser acqua infame, e tetra,
E divien bella, lucida, e serena.
Quella pietra io percossi, ella s’asperse,
E l’acque in maggior copia al mondo offerse.
Nel mezzo de la bocca il fonte bolle,
E intorno tuttavia cresce, e s’allaga.
La canna intanto, e’l giunco il capo estolle
E fa la sponda sua più illustre, e vaga.
Poi dove à l’onda par l’orlo più molle,
L’opre, e per gire al mars’aggira, e vaga;
E corre mormorando ogni hora al chino
Per far con l’avo homaggio al Re marino.
Un bel giovane intanto in mezzo al fonte
Io veggio infino al petto apparir fuore,
Ch’ornata di due corna havea la fronte,
Di maestà ripiena, e di splendore.
Aci, se non che molto era maggiore.
Lucide havea le carni, e cristalline,
E di corona, e canne ornato il crine.