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LUDOVICO DOLCE, Le Trasformazioni, canto ventesimosesto, p. 279:
Donzella fu da molti in vano amata,
Ch’ella tutti fuggia proterva e rea,
E a le Ninfe del mar, cui molto grata
Era, i beffati amor narrar solea.
Un giorno, mentre, che ( com’era usata)
Pettinava le chiome a Galatea,
Tenendo verso lei le luci fisse,
La bella Galatea così le disse.
Le disse sospirando: alta ventura,
E’ nel vero la tua ( se dritto estimi)
Che t’ama gente d’humana natura,
Ne importa, o che l’abbassi, o la sublimi.
Ma io da la più horribile figura,
Che fosse a questa età da gli anni primi,
Amata fui, ne fuggir questo amore
Potei, se non con pianto e con dolore.
Alhor fu da le lagrime impedita,
Ch’asciugò Scilla, e confortando lei,
Rispose; o Ninfa a me cara e gradita,
Molto mi duol de’ tuoi penosi homei:
Ma verso te, ch’am’io, quanto la vita,
Più fedele di me creder non dei.
Onde raccontar puoi sicuramente
L’alta cagion de la turbata mente.
Et ella incominciò. Fu un giovenetto
Detto Aci, d’una bella Ninfa figlio
E d’un bel Fauno, nel cui dolce aspetto
Contender si vedea la rosa e’l giglio.
Era a’ suoi genitor gioia e diletto;
Più caro a me, che l’amoroso artiglio
Tenea nel core, e a lui così piacea,
Ch’egli di me più oltre non vedea.
Io dunque d’Aci mio tutta era ardente,
Di me l’empio Ciclope Polifemo;
Ne so, se quell’amor fu più fervente,
O l’odio, ch’a costui portava estremo.
Fur certo eguali. Amor, quanto possente
Sia la tua forza, a raccontarlo io temo.
Questo Ciclope empio, inhumano, e tale,
Che Giove non volea gli fosse eguale:
Sentì nel petto l’amoroso ardore,
E scordato del Gregge, che tenea,
Tutto in gradire a me rivolse il core:
Onde col rastro pettinar solea
Le dure chiome sue per farsi honore,
Così l’hirsuta barba, che scendea
Infino al petto, racconciava spesso
Con una falce a qualche fonte appresso.
Eran l’acque lo specchio al corpo intero,
Al brutto aspetto, a la terribil fronte.
Cessa il desio di sangue iniquo e fiero,
Onde haveva le mani a uccider pronte.
Et era secur da quell’altiero
Il mar d’intorno, e la capagna e’l monte.
Udì, ch’Ulisse lui privar dovea
D’un occhio sol, ch’in mezo’l frote havea.
Rise il gran Polifemo, e fiero in volto
Al verace indovin disse, Tu menti;
Che la mia Galatea questo m’ha tolto
Con lo splendor de’ begli occhi lucenti.
Così dicendo, a la marina volto
Move i gran passi hor frettolosi, hor lenti;
E vedendovi un colle, quello ascende,
E nel mezo da poi s’adagia e stende.
Il bianco gregge senza guida o scorta
Seguendo il suo Pastor per colle gia,
Egli un gran Pin, che per bastone porta:
(Un Pin, ch’ad ogni antenna atto saria)
Si pon da piedi: indi la mano, accorta
In formar roza e rustica harmonia,
La sampogna pigliò di cento canne;
Risuona il mote, il mare, antri, e capanne.
Io stava alhor del mio bell’Aci in seno
Sotto una rupe a Polifemo ascosa,
E potea le parole udire a pieno,
Che formava la voce spaventosa.
O più bianca ( dicea) ch’in prato ameno
Candido giglio, o che Ligustro, o Rosa,
Più vermiglia, che fior vago, e ridente,
E più chiara, che’l vetro, e più lucente.
Più lasciva, che tenero Capretto,
E via più lieve assai, ch’alga marina,
Più grata, che del Sole il chiaro aspetto,
Quado la terra ha il ghiaccio e la pruina:
Di più conforto e di maggior diletto,
Che l’ombra ad alma stanca e peregrina
A meza State, e vie più cara molto
Di pomo albor levato e colto.
Assai più riguardevole e più bella
D’un platano, e più tenera e più molle,
Che non è piuma candida e novella
Di Cigno, e più gentil, ch’erbetta in colle:
E se non fosti incontro Amor rubella,
Piena d’odio, ch’a me t’invola e tolle,
Più vaga d’un giardin d’ogni verdura,
E via più dolce assai, ch’uva matura.
O più feroce ancora e pertinace
De’ non domati armenti, e più nemica
Di mio ben, di mia gioia, e di mia pace,
Ch’a morbido terren gramigna e ortica.
O de l’onde più lieve e più fallace,
E via più dura assai, che Quercia antica,
Più immobile, che scoglio, e più pungente,
Che’l Tribol; più crudel, ch’Orsa e Serpete.
De’ Pavon più superba, e’n mio tormento,
Più fugace, che Cervo innanzi a i Cani,
E più veloce ancor, che l’aura e’l vento,
Onde son miei desij fallaci e vani.
Ma se ben tu tenessi l’occhio intento
A saper da chi fuggi e t’allontani,
Forse d’offender me ti pentiresti;
E cortese e benigna hor mi saresti.
Il mio palagio ampia spelonca rende
Di vivo sasso, ove mai caldo o gelo
Non fece oltraggio, e dove non offende
In alcun tempo il variar del cielo.
E per me a Primavera ella contende
Di quanti fior hebber mai verde stelo,
E la State e l’Auttun d’uve e di frutti,
Ch’a te sol Galatea conservo tutti.
Tu meco potrai cor sicuramente
Maturi frutti d’ogni eletta sorte
Si, che invidia t’havran comunemente
Di tanto ben tutte le Ninfe accorte.
Questo gregge, che vedi, parimente
E’ mio: quanto felice è la mia sorte.
Ma ql, che pasce hor ne le valli e in bosco,
E’ tal, che d’esso il numer non conosco.
Pover è quel, che le sue gregge puote
Anoverar: le mie son senza fine.
E, s’elle Galatea non ti son note,
Quà vien, che le vedrai tutte vicine.
Mai di latte non son le Capre vote,
Ma pel gran peso van deboli e chine,
E d’ogni tempo ho più Capretti e Agnelli,
Che fiori i prati, e frondi gli arboscelli.
Di latte puro,e come nieve bianco,
Sempre io ve n’ho tutti i gra fiaschi pieni,
E di questo io ne so più cose, & anco
Del cacio: e lo vedrai, se tu ci vieni.
Appresso questo non pensar, che manco
Ti siano tutti i dì lieti e sereni
D’haver e Lepri, e dame, e Daini, e cervi,
Et anco altri animai fieri e protervi.
Due colombi nel nido ho ritrovati
Poco dinanzi tra lor simili tanto,
Quanto se fosser d’un sol parto nati:
E questi ho presi, e te gli servo intanto;
Che son ben io, che ti saranno grati,
E gli terrai nel grembo, o sempre a cato.
Ancora un’Orsachin trovai pur hora;
E dissi, questo havrà, chi m’inamora.
Appresso questo, mi pregava, ch’io
Uscissi fuor de l’onde, e non si tacque
Di dir, Non disprezzar l’aspetto mio,
Che poco diazì io mi specchiai ne l’acque.
( Ne l’acque chiare d’un lucente rio)
E certo la mia forma a me non spiacque.
Vedi, com’io son grande oltra misura,
Tanto, che Giove avanzo di statura.
Vedi, che la mia chioma un bosco pare;
Che quinci e quindi ambe le spalle adobra.
E s’horrido di sete il corpo appare,
Lui non però bruttezza alcuna ingobra.
E questa verità tu puoi stimare
Da gli alberi: che quando il vento sgobra
Nel principio del verno le lor foglie,
Par, ch’ogni honore, ogni beltà ne spoglie.
Brutto è un Cavallo, se no gli orna e vela
Lungo e lucido crine il collo altiero:
La carne a gli augelletti adorna e cela
Piuma di color verde, o giallo, o nero.
Quanto è più ascosa e più coperta de la
Sua Lana Capra, o puro Agno e sincero;
Tanto più cari sono al suo pastore,
E dimostrano ogn’hor beltà ,maggiore.
Così la barba a gli uomini, & ancora
La chioma, e i velli d’ornamento sono.
Ne havere un’occhio sol mi dishonora,
Anzi reputo questo a maggior dono.
Il sol, che tutto’l mondo orna e colora,
E vede, quanto è qui di bello e buono,
Nò ha più, che un sol occhio, o vogli dire
Più ch’un sol cerchio, onde si vede gire.
Aggiungi, ch’io son figlio di Nettuno:
Vedi, se più gran suocero haver puoi.
Senza, c’huomo ne Dio non temo alcuno,
E sprezzo Giove, e tutti i fochi suoi.
Certo, quando avvenisse, che nessuno
Volgesse il fren de’ desiderij tuoi:
Men grave mi saria d’essrti a noia,
E, ch’ogni tuo piacer sia, ch’io ne moia.
Ma tu crudele ami Aci, Aci t’è grato;
Ben s’io lo colgo, imparerà il meschino,
Che chi grande creommi, anco m’ha dato
Ugual forza; o sia fato, o sia destino.
Sappi ch’io gli trarrò del manco lato
Il cuore, e insieme vivo ogni intestino,
Squarcerò le sue membra, e spargerolle
Pe’ campi, e ne le tua bell’acqua molle.
Io ardo, e l’ardor mio crudele è tale,
Quale avessi nel petto un Mongibello;
Ne di me Galatea punto ti cale,
Ma sepre il cuore hai più spietato e fello.
Così dicendo, e sofferendo male
L’amoroso tormento, il mio rubello
Quindi si leva, e per la selva volta
Qual Toro, a cui sia la Giovenca tolta.
In un girar de l’occhio ambi ci vide,
Che stavamo abbracciati in ripa al mare:
Vi veggo, disse con horrende stride,
Et hoggi sian vostre dolcezze amare.
Rompe la voce l’aria, e’l ciel conquide;
Etna tremò; io tosto per campare
Lasciandone Aci mio, nel mar m’ascosi,
Il qual fuggia lungo dei liti algosi.
Deh souviemmi, ei diceva, o Galatea;
Ma’ l Ciclope crudel dietro li corre;
Ch’un tal sasso a due man spiccato havea
Del mote, che atterrato havria una Torre
Ben vede, che fuggir non lo potea
Aci, se qualche Dio non lo soccorre.
Affretta, quanto puo, correndo i passi.
Ma grave a voi non sia; ch’io qui lo lassi.
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Con quella forza, ch’ogni forza passa,
il grave peso Polifemo trasse.
Mentre volado al pia va la gran massa,
Avvenne, ch’una parte Aci arrivasse,
E’l misero garzon tutto fracassa.
Se di me grave duol l’alma assaltasse,
Sasselo Scilla mia, chi prova amore:
I no’ l dirò, che mi si schianta il core.
E quel, che potei far, sei prestamente:
Il sangue, ch’uscia fuor de la gran mole,
Conversi in quel color, che propriamente
Fiume serbar, gonfio di pioggia suole:
Poi surge una gran Canna; e parimente
Più tosto con le mie parole,
Nel cavo sasso percotendo l’onda
Di qua di là, l’asciutto lito inonda.
E fuor si vide uscir fino al bilico
Un giovine con corna e canne in testa.
Et era questi il mio diletto amico,
Cui la primiera effigie in tutto resta,
Senon ch’era maggiore, e parea antico
Più di quel, ch’era, senza gonna o vesta,
E Ceruleo havea il volto oltre il costume:
In fin col nome suo divenne Fiume.
Posto fine a la istoria Galatea,
Notando se n’andò per le sal’onde:
…
Allegoria
In universale dalle soprascritte favole si può comprender, quanto gli humani affetti sono possenti a levar l’huomo meravigliosamente dalle sembianze proprie in forme diversissime, e alla sua natura contrarie.