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OVIDE MORALISE EN PROSE, Il gigante Polifemo, libro XI, p. 340 – 341.
Come il gigante Polifemo corteggiò la bella Galatea per convincerla ad amarlo. E come Galatea le raccontò la sua storia.
In occasione degli avvenimenti che si verificarono ai tempi di Scilla la Folle che si glorificava dicendo di mandare a spasso i bighelloni che la desideravano arsi da folle amore, un’altra bella ninfa di nome Galatea le parlò e le disse quanto segue: "Scilla, bella amica, mi meraviglio molto di come tu osi così sfrontatamente rifiutare tutti coloro i quali ti chiedono per amore. E ciò che è peggio, tu te ne vanti e li prendi in giro chiamandoli bighelloni. Non potrai continuare a lungo con tali rifiuti e prese in giro, per quanto io possa immaginare, senza che alla fine non te ne venga un danno. E se tu mi domandassi chi mi spinge a credere in tal modo, io ti risponderei che l’ho sperimentato su me stessa. Poiché io, che sono di alto lignaggio in quanto figlia del dio del mare e ho un gran numero di sorelle, non ho potuto rifiutare senza gran danno per me il mostruoso gigante sgradevole, dal corpo selvaggio che si chiama Polifemo, che non ha che un occhio solo e che mi ha voluto amare. E tu, che sei una povera ragazza di bassa condizione, come potrai senza grande danno rifiutare i giovanotti di grande coraggio?" E siccome Galatea, dicendole le suddette parole, piangeva, allora Scilla si mise ad asciugarle gli occhi e a confortarla pregandola di confidarle come un privilegio il motivo per cui piangeva. Galatea continuò ancora, come segue: "Non c’è da meravigliarsi se piango, poiché ci fu una volta in cui ero profondamente innamorata di un giovane, bello e gentile, che si chiamava Aci, di circa sedici anni. Ma il suddetto gigante che cercava di conquistare il mio amore, lo colpì per ucciderlo, infliggendomi un dolore atroce. Il predetto mostro villano continuò ad insistere nel volere il mio amore. E per quanto il mio coraggio non volesse acconsentire né convertirsi al suo amore, nondimeno egli cominciò ad imbellettare la sua laida faccia, a pettinarsi e a gallonare la sua testa con un erpice invece che con altro pettine e curare la sua lunga barba. E mentre faceva ciò si rimirava nell’acqua del mare. Per quanto egli fosse uno dei pericoli del mare, che i marinai dovevano sopportare, tuttavia per un po’ di tempo a causa del mio amore si distrasse. E fu per questo che Enea poté navigare senza pericoli in quel tratto di mare. Durante il periodo in cui mi amava, venne dal mare un grande indovino, chiamato Telemo, che conosceva e capiva tutti i linguaggi degli uccelli, il quale predisse al suddetto gigante che prima o poi Ulisse gli avrebbe accecato l’occhio. Ma lui non gli diede retta e dopo averlo deriso si addormentò sopra una roccia sul mare, la stessa da cui spesso mi guardava. Spesso si metteva a suonare il flauto e a cantare a voce alta il suo amore per me. Quando io lo udivo, mi allontanavo e mi nascondevo in una roccia da cui sentivo il suono del suo flauto e le canzoni con le quali mi implorava di convincermi e mi prometteva molte cose di cui non mi curavo se non di quella che minacciava di uccidere il mio Aci non appena si fosse presentata l’occasione. E tanto fece che un giorno ci vide insieme mentre ci baciavamo e ci abbracciavamo dentro la roccia: si avventò su di noi, ma io riuscii a nascondermi dietro uno scoglio mentre il mio amico Aci, nel tentativo di scappare, fu ucciso. E dopo la sua morte fu mutato in acqua che prese il suo nome, acis (attica)". Stando all’insegnamento allegorico di questa favola possiamo dedurre che Gesù Cristo, divina sapienza, si compiacque così tanto della povera natura umana che nel diventare uomo rivestì la Sua divinità. L’orribile ed abominevole gigante degli inferi, padre dell’orgoglio, dell’ira e degli altri peccati mortali rappresenta le tentazioni dei peccati ai quali nostro Signore Gesù Cristo non si è voluto giammai sottomettere. E per questo il suddetto gigante procurò la morte del nostro caro Aci, ossia di nostro Signore Gesù Cristo.