Galfc13

160 – 249 d. C.

 

FILOSTRATO, Immagini, II, 18, 165

 

Questi uomini che mietono le messi e che vendemmiano le viti, ragazzo mio, non hanno né creato né piantato; la terra produce spontaneamente per loro tutte queste cose. Si tratta infatti dei Ciclopi per i quali, non so per quale motivo, i poeti vogliono che la terra produca i suoi frutti spontaneamente. La terra ha dunque fatto di loro dei pastori, nutrendo le loro greggi, il cui latte considerano al tempo stesso bevanda e cibo. Non conoscono né una piazza, né un luogo per deliberare, né una casa, ma abitano le cavità della montagna senza parlare degli altri, abita qui il più selvaggio tra loro, Polifemo, figlio di Poseidone, il cui unico sopracciglio si distende sul suo unico occhio e il suo naso appiattito giunge fin sul labbro, si ciba di uomini alla maniera di un leone feroce. In questo momento però si tiene lontano da un simile pasto, non volendo apparire né vorace né odioso; infatti è innamorato di Galatea che gioca in questo mare, e lui la contempla dall’alto della montagna. La zampogna è ancora sotto il suo braccio, silenziosa, ma lui vuole cantarle un canto pastorale in cui dice che Galatea è bianca e fiera e più dolce dell’uva acerba, e che per Galatea lui alleva cerbiatti e orsacchiotti. Canta queste cose sotto un elce, e durante questo tempo, non sa né dove pascolano le sue pecore, né quante siano, né dove sia la terra. E’ stato dipinto come un montanaro dall’aspetto terribile, scuote una capigliatura spessa e irta come la chioma di un pino, mostrando denti aguzzi che spuntano dalle sue mascelle voraci; il suo petto, il suo ventre, tutto il corpo, fino alle unghie dei piedi, è ricoperto di peli. Siccome è innamorato, crede di assumere un espressione tenera, ma il suo sguardo ha ancora qualcosa di selvaggio e di subdolo, come le bestie feroci quando sono costrette dalla necessità. Galatea, dal canto suo, gioca sul mare tranquillo, conducendo un attacco di quattro delfini aggiogati insieme e che vanno all’unisono; a reggere le briglie sono le vergini figlie di Tritone, ancelle di Galatea, che li frenano qualora dovessero avere qualche scarto o fare qualcosa di contrario alla guida. Sulla sua testa dispiega al soffio di Zefiro una stoffa leggera color porpora che procura ombra a lei, fa da vela al carro e da cui una sorta di luce s’irradia sulla fronte e sulla testa, e comunque non più incantevole dell’incarnato delle sue guance; i capelli non ondeggiano in balia di Zefiro, essendo infatti zuppi di acqua, sono più forti del vento. Il gomito destro è sporgente, mentre ripiega il candido avambraccio e poggia le dita sulla sua spalla delicata, le sue braccia si muovono con delicatezza, il seno è turgido e neppure il ginocchio è privo di grazia. Il piede, con la grazia che in esso termina, ragazzo mio, è raffigurato mentre si poggia sul mare, quasi dovesse guidare il carro. Gli occhi sono una meraviglia: il loro sguardo si perde lontano, quasi volesse percorrere tutta la superficie del mare.