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I sec. a. C.

 

OVIDIO, Metamorfosi, libro XIII, vv. 738- 897

 

A lei una volta Galatea, mentre si faceva pettinare i capelli, rivolse, tra molti sospiri, queste parole: "Quelli che aspirano alla tua mano, fanciulla, sono uomini di una razza civile, a cui puoi tranquillamente opporre un rifiuto, come appunto fai. Io invece, per quanto abbia come padre Nereo e come madre la cerulea Doride e abbia anche una schiera di sorelle che mi difendono, solo a prezzo di molto pianto sono riuscita a sfuggire alla persecuzione amorosa del Ciclope".

Le lacrime le impedirono di proseguire; Scilla gliele asciugò con le sue candide dita e consolandola la invitò a continuare: "Raccontami tutto, carissima, e non nascondermi la causa della tua angoscia: lo sai che ti sono tanto amica!". La Nereide assecondò la richiesta della figlia di Crateide.

"Figlio di un Fauno e di una ninfa del Simeto, Aci era la gioia di suo padre e di sua madre e ancor di più la mia: esclusivamente a me si era legato. Era bello, aveva compiuto sedici anni e aveva le tenere guance appena coperte da un’incerta peluria. Io non desideravo che lui e il Ciclope invece perseguitava me. Se mi chiedessi se in me fosse più grande l’odio per il Ciclope o l’amore per Aci, non saprei dirtelo: erano due sentimenti ugualmente forti. Come è grande la tua potenza, o alma Venere! Quel mostro feroce, che faceva ribrezzo perfino alle selve, che nessun ospite aveva visitato se non a caro prezzo, che disprezzava l’Olimpo con tutti gli dei, conobbe l’amore: e ardeva tutto, preso dalla passione per me, senza più ricordarsi delle sue pecore e della sua spelonca. Ed ecco, Polifemo, che cominci a pensare al tuo aspetto, ti preoccupi di piacere, ti pettini col rastrello gli ispidi capelli, ti tagli con la falce gli irti peli della barba, ti metti a rimirare in uno specchio d’acqua il tuo volto feroce e ad atteggiarlo studiatamente. Ti disinteressi di colpo delle stragi crudeli, ti passa la sete insaziabile di sangue: le navi vanno e vengono senza pericolo. In quel tempo Telemo, che era sbarcato in Sicilia nella zona dell’Etna, Telemo figlio di Eurimo che mai si era sbagliato nell’interpretare gli auspici, si recò dal tremendo Polifemo e gli predisse: "Quell’unico occhio che ti porti in mezzo alla fronte, Ulisse te lo porterà via!". Rise il Ciclope e rispose: "Ti sbagli, stoltissimo fra gli indovini, c’è già un’ altra che me l’ha preso!". Così non tenne in alcun conto chi invano gli prediceva il vero: e continuava a misurare a grandi passi il lido o ritornava stanco all’ombra della sua spelonca. Vi è un altura che si protende sul mare e vi si incunea profondamente con uno sperone, tutto intorno al quale battono le onde. Vi salì il feroce Ciclope e vi si sedette nel mezzo, seguito dalle sue pecore lanose, che pur non si preoccupava di guidare. Depose ai suoi piedi il pino che gli serviva da bastone, un albero che avrebbe potuto sostenere dei pennoni, e prese in mano la zampogna fatta di mille canne collegate: tutti i monti risonarono allora dei sibili della melodia pastorale e ne risonarono le onde. Io che stavo nascosta dietro una rupe, seduta in grembo al mio Aci, colsi da lontano le parole che giungevano al mio orecchio e ancora le ricordo.

Tale era il canto: "O Galatea, più candida dei petali del niveo ligustro, più fiorente dei prati, più slanciata di un esile ontano, più splendente del cristallo, più vivace di un tenero capretto, più liscia delle conchiglie levigate dal continuo moto delle onde, più gradita del sole in inverno e dell’ombra d’estate, più eccellente della frutta, più maestosa di un alto platano, più trasparente del ghiaccio, più dolce dell’uva matura, più morbida delle piume del cigno e del latte cagliato e più bella di un giardino irrigato, se non mi fuggissi! Ma tu, la stessa Galatea, sei anche più crudele dei giovenchi selvaggi, più dura di una vecchia quercia, più ingannevole delle onde, più sfuggente delle verghe del salice e della vitalba, più irremovibile di questi scogli, più violenta della corrente dei fiumi, più superba del pavone tanto ammirato, più pungente della fiamma, più aspra di un roveto, più aggressiva di un orsa che ha appena partorito, più indifferente del mare, più crudele di un serpente calpestato, e inoltre, e questa è la caratteristica che vorrei soprattutto poterti togliere, più veloce nella fuga non solo di un cervo incalzato da sonanti latrati, ma anche dei venti e della brezza alata.

Ah! Ma se tu mi conoscessi bene, ti pentiresti di essere sempre fuggita e tu stessa condanneresti i tuoi indugi e tenteresti di trattenermi. Posseggo una caverna, una parte della montagna, scavata nella roccia viva, in cui in piena estate non si sente la calura né d’inverno il freddo; ho tanta frutta da far piegare i rami degli alberi; ho interi filari di uva dorata e di uva porporina: è tutto per te. Potrai cogliere con le tue mani le morbide fragole spuntate sotto i cespugli e d’autunno le corniole e le prugne, sia quelle comuni, piene di nero succo, sia quelle più pregiate che sembrano fatte di cera fresca. Se mi sposerai, non ti mancheranno le castagne né i frutti del corbezzolo: tutti gli alberi saranno al tuo servizio. Queste pecore che vedi sono tutte mie, ma ne ho molte altre che pascolano nelle valli, molte che si rintanano nelle selve o nelle grotte: anche se me lo chiedessi, non saprei dirti quanto siano. Solo chi è povero conta le sue pecore! Se io mi mettessi a esaltare le qualità della mie, non mi crederesti: ma se vorrai potrai constatare di persona come facciano fatica a camminare, tanto sono gonfie le loro poppe. E poi ci sono i piccoli: al caldo in un ovile gli agnelli, in altri i capretti della stessa età. Non mi manca mai il candido latte: parte lo riservo per bere, parte invece lo solidifico, sciogliendovi dentro del caglio. E non avrai solo doni banali che sono alla portata di tutti, come daini, lepri, un capro, un paio di colombe, un nido strappato alla cima di un albero! No: ho trovato in vetta ai monti due cuccioli di un orsa irsuta, con cui potrai giocare, tanto simili tra loro che stenterai a distinguerli. Appena li ho trovati mi son detto: "Questi li terrò da parte per la mia signora!". Orsù, sbuca fuori dal mare azzurro col tuo capo splendente! Vieni, Galatea, e non disprezzar i doni che ti offro! Io mi conosco bene, sai! Mi sono appena specchiato nell’acqua trasparente e il mio aspetto non mi è dispiaciuto affatto. Guarda come sono grande! Nemmeno Giove su nel cielo vanta un corpo come il mio (quel tal Giove che secondo voi regna su tutti); ho una chioma abbondante che mi scende fin sul volto corrucciato e mi adombra le spalle come una selva. E non pensare che sia un difetto che il mio corpo è tutto coperto di un irto e folto pelame: anche l’albero è brutto senza le fronde, anche il cavallo sta male se non ha una criniera bionda che gli scenda sul collo; le piume coprono gli uccelli; alle pecore dona la lana. Allo stesso modo a un uomo donano la barba e dei bei peli ispidi sul corpo. Ho un occhio solo in mezzo alla fronte, è vero, ma sembra un immenso scudo. Il grande sole non vede forse dal cielo tutte le cose di questo mondo? Eppure ha un solo occhio. Vuoi di più? Mio padre è colui che regna sul vostro mare. Ti offro lui come suocero. Abbi soltanto pietà e ascolta le preghiere di chi ti supplica! Sei l’unica davanti a cui mi piego; io, che spregio Giove con tutto il cielo e col suo fulmine penetrante, adoro te, i Nereide! Per me la tua ira è più crudele del fulmine: e ancora io la sopporterei insieme al tuo disprezzo, se tu rifiutassi tutti. Me perché respingi il Ciclope e poi ami Aci e preferisci ai miei i suoi amplessi? Continui pure a compiacersi di sé, costui, e a piacerti ( cosa che non vorrei), ma badi di non capitarmi a tiro, perché allora si accorgerà che la mia forza è pari alle dimensioni del mio corpo! Lo sbranerò vivo e disseminerò i brandelli delle sue membra per i campi e in mezzo alle tue onde: e sia questo il solo modo per unirsi a te! Io brucio, sai, e questo fuoco, proprio perché si tenta di soffocarlo, divampa più tremendo, tanto che mi sembra di portare dentro il petto l’Etna con tutta la sua foga. E tu, Galatea, resti impassibile!".

Dopo aver posto fine a questi vani lamenti, il Ciclope si alzò (dal mio posto io potevo vedere tutto) e come un toro furente per la perdita della sua compagna non riusciva a star fermo ma si aggirava per i boschi e per i pascoli ben noti; e a un tratto il mostro scorse me e Aci che non aspettavamo né temevamo una simile sorpresa. "Vi vedo!" urlò "E farò in modo che questo sia l’ultimo dei vostri incontri d’amore!" Gridò quella minaccia con una voce così tonante quanta si conveniva a un Ciclope infuriato: e ne rabbrividì l’Etna. Io, atterrita, mi tuffai nel mare che era lì a pochi passi, mentre il nipote del Simeto voltò precipitosamente le spalle e si mise a fuggire gridando: "Aiutami, ti prego, Galatea! Aiutatemi, genitori miei, e accoglietemi nel vostro regno, perché sto per morire!".

Il Ciclope lo inseguiva: svelse una parte di monte e gliela scagliò contro, e per quanto solo un piccolo frammento del macigno raggiungesse Aci, tuttavia lo seppellì completamente. Noi facemmo allora quell’unica cosa che i fati ci consentivano: demmo ad Aci la possibilità di assumere la natura del suo avo. Dal masso colava un sangue cupo: ma in breve tempo quel colore cominciò a svanire e a mutarsi in quello di un fiume turbato dal sopraggiungere della tempesta e poi gradualmente si schiarì ancor di più. Allora il masso che il liquido lambiva si spaccò e dalle fessure balzarono su alte fresche canne, mentre la gola della roccia era tutta un gorgogliare sonoro d’acqua. Miracolo! Ne emerse fino alla cintola un giovane, con le corna appena spuntate incoronate da canne intrecciate , ed era Aci, ma più grande e tutto azzurro nell’aspetto. Si, era proprio Aci, mutato in un fiume che conservò il suo nome".