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III sec. a. C.

 

TEOCRITO, Idilli XI, Il Ciclope

 

Non c’è altro rimedio contro l’amore,

O Nicia, né unguento, a me pare, né polvere,

fuor che le Pieridi: rimedio lieve, e dolce, è questo

per i mortali, ma trovarlo non è facile.

Lo conosci bene tu, credo, che sei medico,

e caro oltremodo alle nove Muse.

Così dunque al meglio viveva il nostro Ciclope,

L’antico Polifemo, quando spasimava per Galatea,

e da poco la barba gli spuntava attorno alla bocca e sulle tempie.

Non con pomi o con rose o con riccioli manifestava l’amore,

ma con vere frenesie; e tutto il resto per lui non contava.

Molte volte dal verde pascolo le pecore tornavano sole

all’ovile; ed egli cantando Galatea

si struggeva sul lido algoso

si dall’aurora, tenendo nel cuore la tremenda ferita

che il dardo della possente Cipride gli aveva inferto in petto.

Ma trovò rimedio, e sopra un alta

roccia, lo sguardo verso il mare, cantava così:

"Fulgida Galatea, perché respingi chi t’ama,

tu più candida del latte cagliato, più morbida di un agnello,

più altera di un vitello, più brillante dell’uva acerba?

Qui ti aggiri, quando il dolce sonno mi avvince,

ma subito te ne vai, quando il dolce sonno m’abbandona;

e fuggi, come la pecora che ha visto un grigio lupo.

M’innamorai di te, ragazza, quando sulla montagna

con mia madre venisti a cogliere fiori

di giacinto, e io vi facevo da guida.

Anche dopo ti ho guardata, e non posso smettere

di amarti; ma a te non importa proprio nulla.

Seducente ragazza, comprendo perché fuggi:

è perché un irsuto sopracciglio sull’intera fronte

da un orecchio all’altro si stende, unico e lungo,

e sotto c’è un solo occhio, e largo è il mio naso sopra il labbro.

Ma anche se sono così, mille bestie porto a pascolare

e da esse il miglior latte mungo e bevo,

e il cacio né d’estate mi manca, né d’ autunno,

e neanche nel cuore dell’inverno, ma i graticci sono sempre stracolmi.

E come nessuno dei Ciclopi so suonare la zampogna,

cantando te mio dolce pomo, e insieme me stesso,

sovente fino a notte fonda. Undici cerbiatte allevo per te,

tutte col collare, e quattro orsacchiotti.

Vieni dunque da me, e ci guadagnerai;

lascia che il ceruleo mare si franga mugghiando sulla riva.

Più dolcemente nell’antro da me passerai la notte:

là sono i lauri, là sono gli ondeggianti cipressi,

l’edera scura e la vite dai dolci frutti,

e c’è l’acqua fresca, bevanda divina che per me

fa scendere dalla candida neve l’Etna selvoso.

Chi vorrebbe avere, in cambio di tutto questo, il mare e le onde?

E se ti appaio troppo irsuto,

ho legno di quercia, e sotto la cenere un fuoco inestinguibile;

da te sopporterei che mi bruciassi l’anima,

e l’unico occhio, di cui niente a me è più caro.

Ah, che sfortuna che mia madre non mi abbia generato con le branchie!

Mi tufferei per venire da te, e ti bacerei la mano,

se mi rifiuti la bocca, e gigli bianchi ti porterei,

o teneri papaveri dai rossi petali.

Ma questi fioriscono d’estate, quelli d’inverno,

E così non potrei portateli tutti assieme.

Ora voglio subito imparare a nuotare, ragazza,

se capita qui con la nave un forestiero;

così vedrò che gusto c’è per voi ad abitare nell’abisso.

Oh, se volessi uscire, Galatea, e dimenticare,

come me che sto qui seduto, di tornartene a casa,

e le greggi con me volessi pascolare, e mungere il latte,

e preparare il cacio con il caglio acido!

Mia madre soltanto mi fa torto, e con lei me la prendo,

perché mai una volta ti ha detto una buona parola per me;

eppure vede che giorno dopo giorno mi consumo.

Dirò che nella testa e nei piedi

mi sento battere; così ne sarà afflitta, perché anch’io mi affliggo.

Ciclope, Ciclope, dove te ne sei volato con la mente?

Se piuttosto andassi a intrecciare canestri e a cogliere germogli

da portare alle agnelle, avresti molto più senno.

Mungi quella che ti è vicina; perché insegui chi fugge?

Un’ altra Galatea troverai, forse ancor più bella.

Molte ragazze mi invitano a giocare con loro la notte,

e ridono tutte, quando le ascolto.

E’ chiaro che sulla terra anch’io, a quanto pare, sono qualcuno".

Così Polifemo pasceva il suo amore

cantando, e meglio viveva che se avesse speso dell’oro.