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GIOVANNI ANDREA DELL’ANGUILLARA, Le Metamorfosi di Ovidio de Gio. Andrea dell’Anguillara Ridotte in octava rima, e con l’annotationi di M. Gioseppe Horologgi

Et con gl’argomenti nel principio di ciascun libro di M. Francesco Turchi, appresso Carlo Conzatti, Venetia MDCLXIX, libro undecimo, pp. 350-351

 

Fè, ch'à dietro restò Sileno solo.

Lasciò il trionfo andar, fermossi à bere,

E poi co'l fiasco in man diessi à giacere.

 

Non vuol però, che giaccia, e s'addormenti

Fin, ch'alquanto del vin la testa sgrave,

Ma benche d'andar seco si contenti

Più d'un Frigio pastor, che scorto l'have.

Non può far forza à lor modi insolenti

Da gli anni il miser vecchio, e dal vin grave;

E cosi coronato, e trionfante

L'appresentaro al Re Mida davante.

 

Mida, à cui prima il buon poeta Orfeo,

Co'l sacerdote Eumolpo havea mostrato

Le cerimonie sante di Lieo,

E sopra tutto il suo regio apparato;

Conobbe il nutritor di Tioneo,

E l'accettò con volto allegro, e grato;

Lieto il ritenne à far seco soggiorno

Fin che 'l dì novo il Sol passò d'un giorno.

 

L'undecimo Lucifero nel cielo

Comparso era à far noto à l'altre stelle,

Che 'l più chiaro splendor, che nacque in Delo,

Venia per disfar l'ombre oscure, e felle.

E per fuggir s'havean già posto il velo

Dal paragon le men chiare facelle,

Quando il re Mida à Bacco render volle

L'alunno, che dal vin spesso vien folle.

 

Lieto co'l suo trionfo altero, e santo

Già senza havere il suo contento integro,

Vien con Sileno il Re di Frigia intanto,

E trova Bacco in Lidia, e 'l rende allegro.

Come si vide il suo ministro à canto,

Scaccia egli ogni pensier noioso, et egro;

Ringratia il Re, che gli ha colui condutto,

Che fa il trionfo suo lieto del tutto.

 

E per mostrarsi grato al Re, s'offerse

D'ogni don, che chiedea, farlo contento;

Di quante io posso far gratie diverse,

Se n'ami alcuna haver, di il tuo talento,

Allegro Mida allhor le labra aperse,

E per nocivo ben formò l'accento;

Io bramo, che tal don mi si compiaccia,

Che tutto, quel ch'io tocco, oro si faccia.

 

Lo Dio di Thebe grato al Re concesse

L'amato don, ma ben fra se si dolse,

Ch'una gratia dannosa egli s'elesse,

Che l'avaritia ad un mal punto il colse.

Poi che nel corpo suo tal gratia impresse,

Ver le superne parti il volo sciolse.

Allegro il Re di Frigia un' arbor trova,

Che vuol di si gran don veder la prova.

 

D'un'Elce bassa un picciol ramo schianta,

Perde la verga il legno, e l'oro impetra.

Prende di terra un sasso, e l'or l'ammanta,

Tal, che 'l metallo ha in mano, e non la pietra.

Poi toccando una gleba anchor l'incanta,

E la fa splender d'or, dov'era tetra.

Svelle dal campo poi l'arida arista,

Et ella perde il grano, e l'oro acquista.

 

Lieto d'un' arbuscello un pomo prende,

E mentre, che vi tien ben l'occhio inteso,

Di subito si lucido risplende,

Che ne' giardini Hesperidi par preso.

In qual si voglia legno il dito stende,

Fa crescer al troncon la luce, e 'l peso.

La man si lava, e l'onda cangia foggia,

E Danae inganneria con l'aurea pioggia.

 

À pena può capir la sciocca mente

Le folli concepute alte speranze,

Pensa acquistar l'occaso, e l'oriente,

Certo d'haver tant'or, che glie n'avanze,

Come fa poi, che 'l cibo s'appresenta,

Cangiar fa il dito tutte le sembianze.

Subito, che la man s'accosta à l'esca,

Opra, ch'à lei la luce, e 'l peso cresca.

 

Se brama haver del pan per contentarne,

Secondo che solea, l'avida bocca,

Subito che l'ha in man, vede oro farne;

Dapoi con la forcina ogni esca tocca,

Ma i membri de le lepri, e de le starne

Si trasforman in or, come gl'imbocca.

Tutti i suoi cibi fuor d'ogni costume

Acquistano da l'or gravezza, e lume.

 

Poi c' ha il coppier nel lucido cristallo

Posto l'auttor del don, che fa tant'oro,

Vi mesce il fresco, e puro fonte, e dallo

Al Re per dare al sangue il suo ristoro:

Et ecco assembra al più ricco metallo

Il vino, e l'acqua, e 'l cristallin lavoro;

Vien d'oro il vetro, e 'l vin cangia natura,

E pria vien liquido or, dapoi s'indura.

 

Il Re, cui cresce l'oro, e manca il vitto,

E ricco insieme, e povero si vede,

Del novo male attonito, et afflitto

Odia già il don, che 'l buon Lieo gli diede;

E confessando à Bacco il suo delitto,

Perdono à lui con questa voce chiede.

Toglimi ò Dio di Thebe à quello inganno,

Che par, ch'util mi faccia, e mi fa danno.

 

Non può il palato mio render contento

La forza del tant'or, che dà il tuo dono.

Già fame, e sete insopportabil sento,

E per lo troppo haver mendico sono.

Peccai per avaritia, e me ne pento,

E con ogni umiltà chieggo perdono;

Fa, che quel dono in me per sempre muoia,

Che quanto più mi giova, più m'annoia.

 

Dolce Lieo non men del suo liquore,

Poi che l'error, che fece, al Re dispiace,

Volge ver lui benigno il suo favore,

E la seconda gratia gli compiace.

Suona una voce in aria, ove il Signore

Di Frigia in ginocchion chiede al ciel pace.

Contra Pattolo ascendi verso il monte,

Fin che trovi l'origine del fonte.

 

Quivi, dov'esce il fonte à l'aria viva,

Ascondi il corpo ignudo in mezzo à l'acque,

E laverai quella virtù nociva,

Che già d'havere in don da me ti piacque.

Com'ei vi giunge, pose in su la riva

Le spoglie, e nudo entrò, come già nacque,

Nel fiume; e 'l pretioso suo difetto

Dipinse l'onde d'or, le ripe, e 'l letto.

 

Et hor dal seme de l' antica vena

Tien la stessa virtù la terra, e 'l fiume.

Risplende d'or la pretiosa arena,

Stà l'oro in ogni gleba, il peso, e 'l lume.

Dapoi che potè il Re gustar la cena,

Ringratiato il glorioso Nume,

Si diè, de l'or spregiando il ricco lampo,

Ad habitar la selva, il monte, e 'l campo.

 

p. 371

Conviene propriamente la favola di Mida, che chiese a Bacho che gli facesse gratia che tutto quello che toccava divenisse oro; all'avaro al quale il piu delle volte Iddio concede, che tutte le cose gli succedino felicemente intorno l'arricchire, perchè tutti i suoi negotij gli riescono secondo il desiderio suo; onde quanto più arrichisse tanto più cresce il desiderio d'havere venendo poi in cognitione al fine che cosi la sua fame è insatiabile, come ancora la sua sete inestinguibile, si volta a Dio, pregandolo che gli levi quell'ardentissimo desiderio di ricchezze, il quale mosso a pietà gli fa poi meglio conoscere aviandolo a purgarse al fiume Pattolo, che le ricchezze non sono altro che apparenze di bene all'avaro, e che sono labile, e fugaci a simiglianza dell'acque del fiume, onde fastidito de i negotij, e de i travagli, poi ama di stare come purgato dall'avarissimo desiderio d'havere, ne i luoghi solitarij, che non sono altro che le cognitioni di se stessi. Si vede quanto non meno vagamente che diversamente habbi l'Anguillara descritti i giorni in molti luoghi, come si vede quivi ancora la sua ingeniosa elocutione in questa parte, nella stanza, Il Re cui cresce l'oro, e manca il vitto e nella seguente la bellissima conversione che fa Mida e Bacho.