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2-8 d.C.

PUBLIO OVIDIO NASONE, Le Metamorfosi

Tratto da: Le Metamorfosi di Ovidio, a cura di Rosati G. e Corti R., trad. Faranda Villa G., Bur Rizzoli, Milano 1997, pp. 635-643, vv. 85-145

 

 

Non contento di ciò, Bacco abbandonò anche quelle contrade

e con seguaci più miti si recò nei vigneti del suo Tmolo,

vicino al Pactolo, fiume che a quel tempo non era ancora aurifero

e non era fonte di cupidigia per la sua sabbia preziosa.

Lì si radunò il suo solito séguito di Satiri e Baccanti;

mancava solo Sileno. Barcollante per gli anni e il vino,

l'avevano sorpreso i contadini della Frigia e inghirlandato

l'avevano condotto dal re Mida, che dal tracio Orfeo

e dall'ateniese Eumolpo era stato iniziato ai riti di Bacco.

Riconosciuto il vecchio amico e compagno di culto, Mida,

per la felicità del suo arrivo, aveva indetto una gran festa,

in onore dell'ospite, di dieci giorni e dieci notti.

E già in cielo per l'undicesima volta aveva Lucifero

disperso le stelle, quando, raggiante, nelle campagne di Lidia

giunse il re per riconsegnare Sileno al suo giovane pupillo.

Felice d'aver ritrovato il suo maestro, Bacco invitò Mida

a scegliersi un premio: facoltà lusinghiera, ma pericolosa,

perché il re non se ne avvalse con saggezza, dicendo: «Fa'

che tutto quello che tocco col mio corpo si converta in oro fulvo».

Bacco esaudì il desiderio, sdebitandosi con quel dono, presto

fonte di guai, ma si rammaricò che non avesse scelto meglio.

Lieto, godendo a suo danno, se ne andò via l'eroe di Frigia

e prese a toccare ogni cosa per saggiare la parola data.

Quasi non credendo a se stesso, staccò dal ramo di un basso leccio

una frasca verdeggiante, e quella diventò d'oro.

Da terra raccolse un sasso e anche quello prese il colore dell'oro.

Tocca allora una zolla: al suo magico tocco la zolla diventa

una pepita d'oro; coglie aride spighe di grano:

un raccolto d'oro; stringe un frutto colto da un albero:

lo si direbbe un dono delle Espèridi; se poi accosta

le dita in cima a uno stipite, quello appare tutto sfolgorante.

Persino quando si lava le mani in acqua limpida,

quell'acqua, fluendo dalle sue mani, potrebbe ingannare Dànae.

Immaginando d'oro ogni cosa, non riesce più a nascondere

le sue speranze. E mentre esulta, i servi gli apparecchiano

la tavola, imbandendola di vivande e pane tostato.

Ma, ahimè, ora, come tocca i doni di Cerere

con la mano, quei doni diventano rigidi; se poi

avidamente cerca di lacerare coi denti una vivanda,

appena l'addenta una lamina d'oro ricopre la pietanza;

mischia ad acqua pura il vino del suo benefattore Bacco:

oro liquido gli avresti visto colare in bocca.

Sgomento per quell'inattesa sciagura, ricco e povero insieme,

vuol sottrarsi all'opulenza e odia ciò che aveva un tempo sognato.

Tanta abbondanza non può sedargli la fame, arida di sete

gli arde la gola e, come è giusto, è tormentato dall'odio per l'oro.

E allora, levando al cielo le mani e le braccia brillanti, esclama:

«Perdonami, padre Bacco, ho peccato, ma abbi compassione,

ti scongiuro, liberami da questa fastosa indigenza!».

Mite è il verdetto divino: poiché riconosce d'aver sbagliato,

Bacco lo rende com'era, annullando il dono concesso per obbligo.

E gli dice: «Perché tu non rimanga invischiato nell'oro

mal desiderato, rècati al fiume vicino alla grande Sardi

e cammina in senso contrario alla corrente, verso i gioghi

del monte, finché tu non giunga alla sorgente, e lì,

dove sgorga più intensa, poni il capo sotto gli zampilli

della fonte e lava insieme al corpo la colpa».

Il re ubbidì andando sotto l'acqua: l'aurifera facoltà

colorò la corrente e dal corpo umano passò al fiume.

Ancor oggi le rive, assorbito il germe di quell'antica vena,

si ergono dure e pallide con le loro zolle impregnate d'oro.