22: Venere e Adone

Titolo dell’opera: Venere e Adone

Autore: Tiziano Vecellio (1480-1576)

Datazione: 1553-1554

Collocazione: Madrid, museo del Prado

Committenza: Filippo II d’Asburgo

Tipologia: dipinto

Tecnica: olio su tela (186 x 207 cm)

Soggetto principale: partenza di Adone per la caccia

Soggetto secondario: 

Personaggi: Venere, Adone, Amore, figura in cielo   

Attributi: frecce, faretra, arco (Amore); asta, corno da caccia, cani (Adone)

Contesto: paesaggio boschivo

Precedenti:

Derivazioni: Venere e Adone, Londra, National Gallery, 1555 ca. (Cfr. scheda opera 24); Venere e Adone, Roma, Galleria Nazionale d’Arte Antica Palazzo Barberini (http://www.wga.hu/frames-e.html?/html/t/tiziano/mytholo2/venus_ad.html); Venere e Adone, Los Angeles, Paul Getty Museum, 1555-1560 (http://www.getty.edu/art/gettyguide/artObjectDetails?artobj=1030&handle=li)

Immagini: http://www.wga.hu/frames-e.html?/html/t/tiziano/mytholo2/venus_ad.html

Bibliografia: Panofsky E., Tiziano. Problemi di iconologia, Marsilio, Venezia 1969, pp. 151-174; Rosand D., Titian and the “bed of Polyclitus”, in “The Burligton Magazine”, 117, n. 865, 1972, pp. 242-245; Rosand D., Tiziano. “L’arte più potente della natura”, Electa Gallimard, Milano 1975, pp. 103-105; Gentili A., Da Tiziano a Tiziano: mito e allegoria nella cultura veneziana del Cinquecento, Feltrinelli, Milano 1980, pp. 110-117; Fehl P., Beauty and the historian of art: reflections on Titian’s Venus and Adonis, in Problemi di metodo: condizioni di esistenza di una storia dell’arte, a cura di Vayer L., Editrice Clueb, Bologna 1982, pp. 185-195; Brock M., Titian et Veronese: Adonis à l’epreuve de Venus, in Andromede ou le heros a l’epreuve de la beautè, a cura di Siguret F., Laframboise A., Klincksiek, Parigi 1996, pp. 223-253; Sutherland B.D., A subtle allusion in Titian’s “Venus and Adonis” paintings, in “Venezia Cinquecento”, 9, 1999, n. 17, pp. 37-52; Hosono K., Venere e Adone di Tiziano: la scelta del soggetto e le sue fonti, in “Venezia Cinquecento”, 13, 2003, n. 26, pp. 111-162

Annotazioni redazionali: La critica divide le numerose versioni di questa opera in due gruppi, A e B (Panofsky 1969), tipo Prado e tipo Farnese (Brock 1996; Sutherland 1999). Al primo appartiene questa “poesia”, come Tiziano stesso definisce i sui dipinti a carattere mitologico, identificata con il dipinto menzionato nelle lettere scambiate tra Filippo II, committente dell’opera, e Tiziano fra il settembre 1554 e il maggio 1556. Un preciso riscontro è costituito da una piega trasversale presente sulla tela di cui ebbe a lamentarsi lo stesso Filippo II nella già citata corrispondenza. L’episodio è ripreso a grandi linee dalle Metamorfosi di Ovidio (Adofc04), ma Tiziano, nel tentativo di accentuare il significato allegorico della caccia, crea questa fuga-commiato di Adone. La scena si collocherebbe nel momento successivo agli ammonimenti di Venere, quando la dea prega l’amato di cacciare solo animali che fuggono il cacciatore, e dunque come sottolinea Philipp Fehl (1982) dopo il racconto dell’episodio di Atalanta e Ippomene. L’accento è posto da un lato sulla decisione di partire per la caccia, dall’altro sul tentativo consequenziale di Venere di trattenere l’amato (Brock 1996); essendo la caccia un’attività umana soggetta al fato, la tragica conclusione non è presente nel dipinto perché implicita e determinata dalla scelta (Gentili). Si tratta quindi di una totale riscrittura del mito, che guarda ad una sensualità conscia della sottomissione totale dell’umanità al destino: non più la partenza di Venere ma la fuga di Adone (Panofsky). Si deve inoltre ricordare che Raffaele Borghini nel suo “Il Riposo” criticò Tiziano per tale licenza. Tuttavia questo episodio ha precisi riscontri nella produzione antica, in particolare su bassorilievi, come quello conservato al Casino Rospigliosi a Roma (Hosono 2003). Nel dipinto in primo piano è Venere nuda, di schiena, seduta, che con un abbraccio tenta di trattenere il giovane pronto per la caccia. Secondo una consolidata tradizione critica, iniziata con Panofsky (1969), la posa di entrambe le figure, della dea in particolare, sarebbe citazione dal rilievo conosciuto con il nome di “Letto di Policleto”; citazione che va al di là del gusto antiquario. I gesti infatti comportano e conservano i significati originali e quelli sedimentati nella tradizione successiva. Lo sguardo impedito tra i due amanti, nell’originale classico dovuto al fatto che Amore è assopito, nella versione tizianesca in quanto il giovane sembra guardare senza guardare, preso com’è dall’atto della partenza, si carica così di maggior erotismo (Brock, 1996). Un’eco del braccio cadente per il torpore nel rilievo, riconducibile ad una tradizione che vede la morte di Amore associata alla morte di Cristo, è riscontrabile nel braccio del giovane nella tela tizianesca. Tiziano si è avvalso di questa tradizione per alludere alla tragica fine che attende il cacciatore (Rosand 1975). La scena di congedo si pone quindi in una realtà di erotismo frustrato, non consumato o quanto meno interrotto. A sottolinearlo è l’anfora rovesciata in terra ai piedi della dea, segno della voluptas e dell’inerzia di Amore che, addormentato sotto gli alberi che sono stati alcova degli amanti, reca ancora in mano la freccia con la quale ha destato la passione della madre per il mortale (Gentili). Tra gli attributi che caratterizzano Adone, come il corno da caccia a tracolla o la muta dei cani legata al braccio, riscontrabile in Dolce (Adofr03), è visibile l’asta tenuta nella mano sinistra, posta in corrispondenza della faretra piene di frecce e dell’arco, entrambi appesi ad un albero prossimo alla coppia. L’arco e la faretra, alluderebbero sia al cacciatore Adone, che all’accidentale infatuazione di Venere procurata da Amore, in quanto strumenti di quest’ultimo. È presente dunque una corrispondenza tra Amore e Adone riscontrabile nelle ottave di Lodovico Dolce (Adofr03), e negli stivali indossati dalla divinità simili a quelli del giovane (Fehl, 1982). Il paesaggio in cui si svolge la scena è costituito da un boschetto, luogo dell’amore e dell’intimità consumata per la presenza di Amore sopito, contrapposto ad un spazio aperto, luogo tributato alla caccia verso cui si dirige Adone (Brock 1996); in cielo sulla destra si può notare una forte luce provocata da una presenza divina. La spiegazione maggiormente plausibile vorrebbe riconoscervi Venere in cielo sul suo carro, seguendo quindi la narrazione di Ovidio (Adofc04). Ciononostante la presenza della dea, la specificità dell’episodio che si discosta dal testo antico, la mancante scena dello scontro con il cinghiale, contemporanea alla salita della stessa in cielo fanno supporre che si tratti della personificazione dell’Aurora. Tale presenza si giustificherebbe con la tradizione di un topos antico che vede il congedo tra amanti svolgersi durante le ore mattutine (Rosand, 1975). Un recente studio (Hosono, 2003) ha posto l’attenzione nuovamente sul carteggio tra Filippo II e Tiziano cercando di ritrovare nella scelta iconografica una motivazione legata alla committenza: Venere e Adone come tematica legata all’amore coniugale in omaggio alle nozze tra Filippo d’Asburgo e Maria Tudor del 25 luglio 1554. Questa ipotesi si baserebbe sulla lettura di testi quali Le Siracusane di Teocrito (Adofc02), l’Epitafio di Adone di Bione (Adofc03) e Le Genealogie deorum gentilium  di Boccaccio (Adofm09), in cui il giovane viene appellato come marito della dea. Ancora alla metà del Cinquecento esistevano precise corrispondenze tra la visione della caccia quale battaglia, quindi assimilabile alla guerra; il monito di Venere sarebbe dunque legato al tentativo di evitare la guerra e la conseguente perdita della pace letta in chiave di armonia coniugale.

Giorgio Fichera