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LODOVICO DOLCE, Le Trasformazioni, in Venetia, appresso Gabriel Gioito de Ferrari e fratelli, Canto XXI, pp. 229-230; 232-233

 

Con l’odorate lagrime, che stilla

La propria madre, l’hebbero lavato.

Or si rara bellezza in lui sfavilla;

Che corpo non fu mai meglio formato;

In modo, che l’invidia, che favilla

Non ha d’effetto san, l’havria lodato.

Tal è Cupido, se a Cupido togli

Gli strali; o l’un ne vesti, e l’altro spogli.

 

Ma non volan così dardi e quadrella,

Come rapido il tempo, e i dì sen vanno.

Già quel, ch’era figliuol de la sorella

E de l’avo (merce del sozzo inganno)

Era cresciuto a quell’età sì bella,

Che più prezzan le donne, e più cara hanno;

Ne pur vincea ciascun del nostro sesso

M’avanzava in bellezza anco se stesso.

 

In somma era sì bello il giovinetto,

che Venere s’accese del suo amore:

Che un dì Cupido il suo bel collo stretto

Tenendo non so come per errore

Con un de’ suoi strai ferille il petto:

E fu la piaga in Venere maggiore

Di quel, che parve in vista primamente:

Così tutta di lui divenne ardente.

 

Onde lasciando il bel Cithereo e Cnido,

E Pafo, Et Amatunta, e ‘l ciel insieme,

è seco in prato, in poggio, e in vago lido,

Ch’altro diletto, ne pensier la preme.

Seco con più d’un cane amico e fido

Giva cacciando: e, perché sempre teme,

che qualche fera non l’offenda, solo

seguir soleva il più fugace stuolo.

 

Seguia le Damme, i Cervi, e i Lepri umili,

Lasciando di lontan girsi i leone,

I Lupi predator de’ pieni ovili,

E gli Orsi armati di pungenti unghioni.

Tenendo adunque così fatti stili,

Lui spesso con piacevoli sermoni

Confortava a dover sempre fuggire

Quegli Animai, ch’hanno arme da ferire.

 

Sia pur (dicea) co’ fuggitivi audace,

Con gli audaci l’ardir non è sicuro:

E la beltà, ch’a me cotanto piace,

Non può haver luogo in petto così duro:

Hanno i Cinghiai quasi un’ardente face

Ne’ denti, che potrian fendere un muro:

e de’ Leoni a l’impeto non basta

Al fuggir piede, o forza a chi contrasta.

 

Ma (quel, che più mi turba) ogni Leone

A me port’odio oltre ogni stima ardente.

Hebbe desio d’intender la cagione

Adone; e ne la chiese humilemente:

(Che ‘l bel garzon s’addimandava Adone,

Ch’amato era da lei sì caldamente)

Et ella, io ti dirò cosa stupenda:

Ma pria sia ben, ch’io qui m’adagi e sieda.

 

E là, dove più folta l’herba vede,

Fermò Venere a l’ombra di un bel Pino,

(Che stanca era di cacciare) il vago piede,

e si corcò col gioven pellegrino.

Fe del fianco al suo capo appoggio e sede,

baciando lui, che stava intento e chino.

Poscia incomincia, ma sovente suole

Interromper con baci le parole.

 

Io credo, che per favola si conti

De la bella Atalanta; che solea

I piedi aver così spediti e pronti,

che i più veloci gioveni vincea.

E forse, ch’anco tu fra questi monti

L’intendesti per favola (dicea)

Ma serbati mio Adon ne la memoria,

Che favola non fu, ma vera istoria.

 

Sappi mio caro Adon, che fama vera

Questo bel fatto a le tue orecchie apporta;

 

STORIA di ATALANTA e IPPOMENE

(…)

 

 

E insieme ogni Animal, ch’audacia prenda

D’assaltar l’huom con orgoglioso petto;

Accio, che ‘l tuo valor poi non offenda

Ambi con qualche a noi sinistro effetto.

Così; che ‘l bello Adon mai non contenda

Con fere brave e di feroce aspetto

La Dea gl’insegna, e l’ammonisce forte;

Ma contraria a sue voglie era la sorte.

Ch’a pena si levò poggiando in alto

La santa Dea per ritornarsi in cielo,

Che i Cani del garzon fecero assalto

A un gran Cinghial, con rabbuffato pelo

Quel di spume tingea l’herboso smalto:

E, come vento, o un’aventato telo,

Correndo, usciva fuor de la foresta,

Ne la furia de’ Can punto s’arresta.

 

Si ferma Adone, e sua aventura volle

Che ‘l dardo, che vibrò, la bestia colse.

Ferì, ne però lei dal corso tolle,

Anzi ella verso di lui frittosi volse.

Con quel furor, che scende giù d’un colle

Precipitoso fiume, che disciolse

Da densa neve il ritornar del Sole,

quando adornar di fiori i prati suole.

 

Il Cinghial, com’io dico, non fuggio,

ma corse verso Adon sdegnoso, e fiero;

Il qual temendo d’accidente rio,

fuggir volea nel più chiuso sentiero:

E ‘l manco fianco infino al petto aprio,

Tal ch’occider lo potè di leggiero.

Cadde il garzone, e de la piaga acerba,

Uscendo il sangue, andò a bagnare l’herba.

 

La Dea non era pervenuta ancora

Col suo bel Carro, e i bianchi cigni a volo,

Al suo diletto e caro Cipro, allora

Ch’udì ‘l gemito lungi, e n’hebbe duolo:

però, che d’alto vide Adone, che fuora

versava ‘l sangue in su l’herboso suolo

discese in terra, e con dolente aspetto

Squarciassi i crini, e si percosse il petto.

 

Molto si lamentò de l’empia sorte,

Del destin fiero, e dell’iniquo fato,

che in si giovane età condotto a morte

garzone avesse da lei tanto amato;

E si tutte al dolore aprì le porte,

che più volte bramò cangiare istato;

e per la grave sua pena infinita

poter col morto Adon finir la vita.

 

Piangean d’intorno a lei tutti gli Amori,

Ricoprendo con man gli occhi lucenti,

Chi spezza l’arco, onde saetta i cori:

Chi mesto estingue le sue faci ardenti.

Sonano i boschi e i solitari orrori

Di rochi gridi intorno e di lamenti.

Eco, ch’intende il pianto e la cagine,

Risonava per tutto, Adone, Adone.

 

Disse Venere al fine; Ahi cielo avaro,

poi che contra il destin le forze ho corte,

Col volto del mio Adone a me si caro

Non spegnerà tutte le parti Morte.

Vo del mio duol, del mio cordoglio amaro,

Che cresce in me sempre più crudo e forte,

Fin che si giri il Sol di segno in segno,

Resti per tutti i tempi eterno pegno.

 

Se già rapita ne l’inferno oscuro

Proserpina, e la giù lieta e contenta,

La bella Donna in casoassai men duro

Potè cangiare in odorata Menta:

A me, che reggo ciel lucente e puro,

Chi fia, che tanta gratia non consenta,

Che del mio Ado degno d’ogni alto honore

Non cangi il sangue in vermiglio fiore?

 

Così disse: e poi lui dal sacro vaso

D’odorifera Ambrosia tutto Asperse.

Lo sparso sangue alhor (mirabil caso)

Quasi in lucida Perla si converse.

In fine il primo suo color rimaso,

Simile a quello un bel fioretto aperse,

E simile a quel gran, ch’in sete ardente

Gustò la Dea de la perduta gente.

 

Ma l’uso d’esso è momentaneo e lieve,

Perché caduche son tutte sue foglie.

E ‘l vento, al cui spirar vita riceve

Ogni sementa, che la terra accoglie,

Lo fa languir in un momento breve,

e in un momento lo consuma e toglie.

Così diceva Orfeo con dolce canto,

Empiendo il monte e ‘l bosco in ogni canto.

 

ALLEGORIA:

Per Venere che ama Adone puossi, secondo il Pontano, intender la Terra, che amando il Sole, si duole, che da lei allontanandosi vada al sottoposto Hemispero, di donde viene il verno, che a guisa di Cinghiale horrido e pieno di di scontentezza, occide il suo Adone, cioè le sue amate bellezze. Il qale nel fine è converso in fiore, cioè al ritorno del Sole, ritornano i suoi ornamenti, che apporta la Primavera.