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2-8 d.C.

PUBLIO OVIDIO NASONE, Metamorfosi, X, 525-560; 708-739 (561-707 storia di Atalanta e Ippomene)

Testo tratto da: Publio Ovidio Nasone, Metamorfosi, traduzione a cura di Bernardini Marzolla P., Einaudi, Torino 1994

 

vv. 525-560

E infatti un giorno il fanciullo (quello con la faretra) dava dei baci a Venere sua madre, quando senza volere le scalfì il pet­to con una freccia che sporgeva. Sentendosi pungere, la dea scostò con la mano il figlio, ma la ferita era profonda, anche se non pareva e anche se dapprima lei nemmeno la notò. Incantata dal­la bellezza di Adone, non le importa più niente delle spiagge di Citèra, non visita più Pafo cinta dal profondo mare, né Cnido pescosa né Amatunte gravida di metalli. Neppure sta più in cie­lo: al cielo preferisce Adone. Non si stacca da lui, non va che con lui, e lei che sempre è stata avvezza a starsene comodamen­te all'ombra, a curare la propria bellezza e accrescerla ancora, ora gira per colli, per selve, tra rocce e cespugli spinosi, con la veste tirata su sopra il ginocchio alla maniera di Diana, e aizza i cani inseguendo animali non pericolosi a cacciare: o lepri che corron via a tuffo, o un cervo dalle alte corna, oppure caprioli. Si guarda invece dai forti cinghiali, ed evita i lupi predoni e gli orsi armati di unghioni, e i leoni che per saziarsi fanno strage di armenti. E invita anche te a temerli, o Adone, sperando che tu dia ascolto ai suoi ammonimenti, e ti dice: "Sii prode con le bestie che scappano! Il coraggio, con quelle coraggiose, è perico­loso. Non essere azzardoso con rischio anche mio, o giovane; non sfidare le belve a cui natura ha dato delle armi, ché la tua gloria non mi costi cara! La giovinezza e la bellezza e tutte le cose con cui hai incantato perfino me, Venere, non commuovono i leoni e i cinghiali villosi, non toccano gli occhi e il cuore delle belve. I cinghiali cattivi hanno il fulmine nelle zanne ricurve; e violenta e selvaggia è l'ira dei fulvi leoni: una razza che proprio detesto". Lui le chiede perché, ed essa risponde: "Te lo dirò: si tratta di un'antica colpa che fu punita con un gran prodigio. Questa insolita fatica, però, mi ha già stancato, e vedi, proprio a proposito un pioppo qui ci invita con la sua ombra e l'erba ci of­fre un giaciglio. Ho voglia di riposarmi qui con te". E si adagia per terra, premendo l'erba e stringendosi al giovane, che si è di­ steso supino, e col capo poggiato sul petto di lui cosi dice, inse­rendo ogni tanto baci tra le parole:

 

vv. 561-707 Venere racconta la storia di Atalanta e Ippomene

"Avrai forse sentito parlare di una che vinceva nelle gare di corsa gli uomini più veloci. Non era una frottola, quella voce: li vinceva davvero. E non avresti saputo dire se fosse più da ammirarsi per merito dei piedi o per la bellezza del corpo. A co­stei, che lo consultava a proposito del matrimonio, l'oracolo ri­spose: 'Tu non hai nessun bisogno di un marito, Atalanta. Evi­ta l'esperienza coniugale. E tuttavia non vi sfuggirai e, viva, non sarai più te!' Atterrita da quel responso, essa va a vivere nei bo­schi bui, senza sposarsi, e per sbarazzarsi dello stuolo petulante dei suoi pretendenti pone loro, crudele, questa condizione: 'Nessuno potrà avermi se prima non mi vincerà nella corsa. Mi­suratevi con me: chi sarà veloce abbastanza, avrà in premio me come sposa; i lenti pagheranno con la morte. Questa è la regola della gara'. Cattiva proprio; ma, tanta è la potenza della bellez­za, quei temerari di pretendenti accettano e si presentano in fol­la. Rischiosissima corsa! Seduto tra gli spettatori c'era Ippò­mene, il quale aveva detto: 'Possibile rischiare tanto per avere una moglie?', e aveva biasimato il fanatismo dei giovani spasi­manti. Ma quando lei si sfilò, i veli e mostrò il suo corpo splen­dido (come il mio, o come il tuo se tu divenissi femmina), rima­se sbalordito e alzando le braccia esclamò: 'Perdonatemi, voi che un istante fa rimproveravo! Ancora non sapevo a quale pre­mio aspiravate!' E mentre la ammira, s'infiamma, e si augura che nessuno sia più veloce di lei, e teme, preso dall'invidia. 'Ma per­ché non tento la fortuna e non partecipo anch'io? - dice. - La divinità aiuta gli audaci'. Mentre il giovane dell'Aònia cosi ra­giona fra sé, la vergine corre come avesse le ali. E lui, per quan­to stupito al vederla filare come una freccia degli Sciti, ancor di più è stupito della sua bellezza, ché quella corsa la fa ancor più bella. Porta, sollevata dai piedi veloci, sandali d'oro; i capelli svolazzano sulle spalle d'avorio, come svolazzano le fasce, dai bordi ricamati, che ha alle ginocchia; e il candore verginale del suo corpo si è soffuso di rosa: cosi una tenda di porpora, in un atrio marmoreo, trasmette al bianco come un velo d'ombra. Il forestiero sta ancora osservando queste cose, che ecco, si taglia il traguardo e Atalanta, vincitrice, viene ricinta di corona festo­sa. Mandano un gemito gli sconfitti, e pagano con la vita, come pattuito. Ippòmene non si lascia però spaventare dalla loro sor­te; si fa avanti e fissando la vergine dice: 'Perché cerchi facile gloria vincendo gente incapace? Gareggia con me, e se la fortu­na mi assisterà, non ti lamenterai di essere stata vinta da uno come me! Mio padre infatti è Megareo di Onchesto, e suo non­no è Nettuno: sicché io sono pronipote del re delle acque, e il mio valore non smentisce questa origine. Se poi sarò sconfitto, il fatto di aver vinto Ippòmene ti procurerà fama grande e impe­ritura!' Cosi dice, e intanto la figlia di Schenèo lo guarda con oc­chi dolci, e non sa se preferire di essere vinta o di vincere, e pensa: "Quale dio, cattivo con chi è bello, vuol perdere costui spingendolo ad aspirare alla mia mano e a mettere a repentaglio la sua cara vita? A mio giudizio, non valgo poi tanto! E non è la sua bellezza a commuovermi (anche se ben potrebbe commuo­vermi), ma il fatto che è ancora un fanciullo. Non lui mi turba, ma la sua età. Ma poi, è tanto prode e non trema al pensiero della morte! Ma poi, è in linea il quarto della stirpe del re del mare! Ma poi, mi ama e ci tiene tanto a sposarmi, da morire se una sorte cattiva dovesse negarmi a lui! Vattene, forestiero, fin­ché puoi, e rinuncia a queste nozze sanguinarie. Matrimonio cru­dele è il mio. Nessuna rifiuterà di sposarti, e troverai certamente una fanciulla saggia che ti desideri. Ma perché mi preoccupo di te dopo averne mandati a morte già tanti? Mah! veda lui! Che muoia, visto che non l'ha spaventato la strage di pretendenti e che è stanco di vivere. Ma allora costui perirà perché voleva vi­vere con me, e in cambio dell'amore subirà, ingiusta ricompen­sa, la morte? Se vincerò, non sarà una vittoria invidiabile. Però non è colpa mia. Oh, perché non rinunci? Ma se sei cosi pazzo, oh fossi tu più veloce di me! Però, che sguardo virgineo su quel viso di fanciullo! Ah, povero Ippòmene, come vorrei che tu non mi avessi mai visto! Tu meritavi di vivere, e se io ero più for­tunata, se un destino disgraziato non mi proibiva di sposarmi, eri l'unico con cui avrei voluto condividere il letto'. "Cosi ragiona, e inesperta, toccata per la prima volta da Cu­pido, non sapendo che sia, ama e non si rende conto di amare. Già il popolo e il padre di lei reclamano la solita gara, quando Ippòmene, discendente di Nettuno, con voce concitata m'invo­ca dicendo: 'Che la dea di Citèra mi assista nella prova e favo­risca la passione che mi ha infuso'. Il vento benigno portò fino a me quella gentile preghiera, e io mi commossi, lo confesso, e non c'era tempo da perdere. C'è un campo (la gente del posto lo chiama campo di Tàmaso), che è la parte più bella dell'isola e che è stato consacrato a me dagli antichi, i quali ne fecero do­nazione al mio tempio. In mezzo a questo campo risplende un albero dalla chioma fulva, dai rami crepitanti di fulvo oro. Per caso io me ne stavo tornando di li e portavo in mano tre mele d'oro che avevo colto. Invisibile a tutti tranne che a lui, mi avvi­cinai a Ippòmene e gli spiegai che uso doveva fare di quei pomi. Ecco che squilli di tromba dànno il via: dalla linea di partenza l'uno e l'altra scattano tutti curvi in avanti, e i loro piedi veloci sfiorano appena la sabbia. Diresti che potrebbero radere il ma­re senza bagnarsi le piante, correre su un campo giallo di grano senza piegare le spighe. Urla e applausi incoraggiano il giova­ne, e qualcuno gli grida: 'Forza, forza, questo è il momento di buttarsi, Ippòmene! Corri! Mettici tutte le tue energie! Presto, ché vinci!' Non si sa se queste parole facciano più piacere all'eroe figlio di Megareo o alla vergine figlia di Schenèo. Oh, quante volte lei, quando già poteva sorpassarlo, rallentò e, con­templato a lungo il suo viso, a malincuore se lo lasciò indietro! Dalla bocca affannata usciva secco respiro, e il traguardo era an­cora lontano. Allora il discendente di Nettuno si decise a lasciar cadere uno dei tre frutti. Si stupì, la vergine, e incantata dal po­mo luccicante deviò e raccolse la sfera d'oro che rotolava. lp­pòmene la sorpassa; dalle tribune uno scroscio di applausi. Lei recupera con corsa veloce il tempo perduto, e di nuovo si lascia il giovane alle spalle. Rimasta indietro un'altra volta al lancio del secondo pomo, un'altra volta lo insegue e lo supera. Ormai c'era da correre solo l'ultimo tratto. 'Ora assistimi, - disse lui, - o dea che mi hai fatto il dono!' e con vigore lanciò l'oro splendente in linea obliqua verso il bordo della pista, perché essa ci mettesse più tempo a tornare. La vergine parve incerta se andarlo a pren­dere o no. Io la costrinsi a raccoglierlo, e quando lo ebbe preso ne accrebbi il peso e casi la ostacolai anche col carico, oltre che con la sosta. Perché il mio racconto non sia più lungo della cor­sa stessa: la vergine fu sorpassata: il vincitore se la prese, in premio, in moglie. “Non meritavo, o Adone, che lui mi ringraziasse, che mi onorasse con incenso? Dimenticatosi di me, né mi ringraziò né mi offri incenso. Mi piglia allora un accesso d'ira, e imperma­lita per quello spregio, per non farmi spregiare da altri in avve­nire, provvedo a dare un esempio, istigando me stessa contro tutti e due. Essi passavano davanti al tempio che un giorno il nobile Echione, per sciogliere un voto, aveva eretto alla Madre degli dèi, tempio nascosto nel folto di una foresta; il lungo cammino li invogliò a riposarsi. Lì Ippòmene vien preso da una improvvisa quanto inopportuna brama di accoppiarsi, suscitata dal mio divino potere. C'era, vicino al tempio, una cella dove la luce filtrava appena, simile a una grotta, con una volta naturale di pomice e sacra da tempo immemorabile; il sacerdote vi aveva radunato molte statue di legno di antichi dèi. Ippòmene vi entra e profana il luogo santo con l'atto proibito. Le sacre immagini voltarono gli occhi per non vedere, e la Madre dal capo incoro­nato di torri fu incerta se affogare i colpevoli nell'onda dello Stige. La pena le parve leggera. E cosi, ecco che invece fulve cri­niere velano i colli poco prima lisci, le dita s'incurvano in arti­gli, le spalle diventano attaccature di zampe, tutto il peso si spo­sta in avanti, nel petto, e con la coda spazzano la sabbia. La fac­cia si corruccia, invece di parole emettono brontolii, invece che in case vivono e si accoppiano nelle foreste, e, temibili per gli altri, serrano tra i denti il morso, aggiogati al carro di Cibèle, leoni. “Tu, mio caro, evita queste belve, e con loro tutte le altre specie di animali che invece di voltare le spalle per scappare of­frono il petto per combattere, perché il tuo ardimento non abbia a nuocere a te ed a me".

 

vv. 708-739

La dea dunque aveva ammonito Adone, e aggiogati i cigni era ripartita per l'aria. Ma l'ardimento non vuoI saperne di ammonimenti. Per caso i cani, seguendo con fiuto sicuro una traccia, stanarono un cinghiale, e questo si apprestava a uscire dalla foresta, ma il figlio di Cinira lo trafisse con un colpo di sbieco. Fulmineo, il truce cinghiale si strappò di dosso col ricurvo gru­gno la picca intrisa del proprio sangue, insegui il giovane che affannosamente correva a mettersi in salvo, e tutte gli cacciò nell'inguine le zanne, facendolo stramazzare moribondo sulla fulva sabbia. Portata per il cielo, sul suo cocchio leggero, dalle ali dei cigni, Venere non era ancora giunta a Cipro: da lontano riconobbe il gemito del morente e inverti il volo dei bianchi uccelli. E come dall'alto vide il corpo esanime che si torceva nel suo stesso sangue, balzò giù e si stracciò la veste, si stracciò i capelli, si percosse il petto con le mani che mai avrebbero dovuto osare una cosa simile. E lamentandosi col destino disse: “Non però di ogni cosa il destino potrà disporre. Un ricordo del mio lutto, o Adone, rimarrà in eterno: ogni anno si ripeterà la scena della tua morte, a imitazione del mio cordoglio. E il sangue sarà mutato in un fiore. Se un giorno a te fu permesso, o Persèfone, di trasformare il corpo di una donna in una pianta di menta profumata, perché io dovrei essere rimproverata se trasformo il filgio di Cinira?" Detto questo, versò nèttare odoroso sul sangue, e il sangue al contatto cominciò a fermentare, così come nel fango si formano, sotto la pioggia, bolle iridescenti. E un'ora intera non era passata: dal sangue spuntò un fiore dello stesso colore, un fiore come quello del melagrana i cui frutti celano tanti granelli sotto la duttile buccia. È un fiore, tuttavia, che du­ra poco. Fissato male, e fragile per troppa leggerezza, deve il suo nome al vento, e proprio il vento ne disperde i petali.