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LODOVICO DOLCE, Le Trasformationi, Gabriele Giolito, Venezia 1553, XX canto

 

Cio fe, perche da lor tenuta a vile,

Era la bella Dea madre d’ Amore.

Il costor dishonesto infame stile

Turbò Pigmalion, saggio scultore;

E da’ vity, ch’al sesso femminile

Molti natura diede, offeso il core,

Tutto lontan da l’amorosa corte.

Celibe si vivea senza consorte.

 

Formò intanto d’Avorio una figura

Cosi perfetta, e d’artificio tale,

Che giamai cosi bella creatura

Non vide in tutto ‘l mondo occhio mortale.

E ben vi pose ogni suo studio e cura,

Ch’a lei  null’altra si trovasse uguale.

Questa teneva effigie di Donzella,

E sol mancava a lei spirto e favella.

 

Era la bella sua figura ignuda

E parea in viso riverente e schiva:

Non, ch’aria havesse disdegnosa e cruda,

Ma in tutti i gesti alma honestà scopriva.

E perche in somma il tutto io vi conchiuda,

Era sopra le belle, e parea viva.

E che si fosse mossa ogn’un credea,

Se virginal pudor non la tenea.

 

Egli piu, ch’altri la bell’opra honora,

Et ammira il valor de le sue mani

Tal, ch’al fin de la statua s’inamora,

Com’ella havesse sentimenti humani.

La vagheggia e la palpa adhora adhora

Per saper, s’è di carne: e mille vani

Baci le porge; e parli anco sovente,

Che avorio no, ma sia donna vivente.

 

E se leva le mani, è, perchè teme

Macchiar d’alcun liquor la candidezza.

Hor le fa vezzi; hora sospira, e geme,

E, quanto puo, la inchina e l’accarezza.

Mille vaghetti don l’arreca insieme,

Di che sa, che le giovani han vaghezza:

Marine conche, e vari fior novelli

Di piu colori, e pargoletti Augelli.

 

Lei spesso fa di ricchi panni adorna,

Et al collo le pon vaghi monili,

Robin ne i diti, e d’or la testa adorna;

Lega a gliorecchi poi perle gentili.

Quando parte da lei, tosto ritorna,

E le forma parole e detti humili.

Or vestita e ignuda l’ama tanto,

C’huom vera Donna non amò altretanto.

 

Di molli piume un bel purpureo letto

Fatto le haveva, ov’ella il dì giacea:

La notte poi con molto suo diletto

A lato, o in braccio ogn’hor la si tenea;

E viso a viso, e ‘nsieme petto a petto

L’inamorato artefice giungea:

E quei costumi suoi di foco accesi

Continuò per molti giorni e mesi.

 

Era venuto il dì sacro e festoso

In tutto Cipro, a l’alma Citherea:

Ond’era il Tempio suo ricco e pomposo

Di quanto al  nom suo si richiedea.

E di occise Giuvenche sanguinoso

Era l’altar de l’amorosa Dea.

Ogn’un l’adora; e tra la turba molta

Quivi Pighmaleone il piede volta;

 

E stando riverente inanzi a lei;

Pigmalion pregolla in cotal modo.

S’è ver, che tutto voi possiate o Dei,

Come si vede, e com’io credo e odo;

Gradisci, alma Ciprigna, i voti miei.

Dammi ( che d’altro io non m’appago, o godo)

A la mia eburnea Imagine una sposa

Simile; che la stessa dir non osa.

 

Tre volte avampa il foco; e dritto ascese

In verso il cielo, il ch’era augurio buono,

Onde Pigmalion lieto comprese,

Ch’egli otterrebbe il desiato dono.

Ritorna a casa; e tra le braccia prese

L’Imagin bella; e in men ch’io non ragiono

Baciandola e toccandola, trovolle

Il petto caldo, e poi carnoso e molle.

 

Come tra i diti suol trattata cera

Intenerirsi, e varie forme prende:

Pigmalione in un dubita, e spera,

Ne gli par, che sia ver quel, che comprende.

Tocca e ritocca: al fin ne la maniera,

Che s’apre rosa, ell’apre gliocchi e stende

Le braccia: e vergognosa indi, e tremante

Vide la luce, e ‘l suo bramoso Amante.

 

Egli ringraziando humilemente

Venere con le parole, e piu col core,

Hor bacia la sua Donna, hor veramente

Sfoga con l’opra il suo cocente ardore,

Che la cinge e abbraccia strettamente

Cogliendo il primo desiato fiore.

Ma gia finito è il canto; e io n’aspetto

A l’altro, chi d’udir prende diletto.