Pigfc02

Sec. I d.C.

PUBLIO OVIDIO NASONE, Metamorfosi, X, 243-297

Testo tratto da: Publio Ovidio Nasone, Metamorfosi, traduzione a cura di Bernardini Marzolla P., Einaudi, Torino 1994

 

Avendole viste condurre una vita dissoluta, Pigmialione, di­sgustato dei vizi infiniti che natura ha dato alla donna, viveva celibe, senza sposarsi. A lungo rimase senza una compagna che dividesse il suo letto. Ma un giorno, con arte felice e meraviglio­sa, si mise a scolpire dell'avorio bianco come neve e gli dette forma di donna, così bella, che nessuna può nascere più bella. E concepì amore per la sua opera. L'aspetto è quello di una fanciulla vera, e diresti che è viva e che, se non fosse così timida, vorrebbe muoversi. Tanta è l’arte, che l'arte non si vede. Pigmalione è incantato, e in cuore gli si accende una fiamma per quel corpo finto. Spesso passa la mano sulla statua per sentire se è carne o invece avorio, e non si risolve a dire che è avorio. Le dà dei baci, e gli pare che gli siano resi, le parla e l’abbraccia, e ha la sensazione che le dita affondino nelle membra che tocca, e te­me che la pressione non lasci un livido sugli arti. E. ora la vezzeggia, ora le offre doni graditi allefanciulle: conchiglie e sassolini levigati, e uccellini e fiori di mille colori, e gigli e palle dipinte e ambra stillata dagli alberi delle Elìadi. E le addobba il corpo anche di vesti, le mette brillanti alle dita, le mette al collo lunghe collane; perle leggere pendono dagli orecchi, e nastri sul petto. Tutto le sta bene, ma nuda non è meno bella a vedersi. La adagia su tappeti tinti con conchiglia di Sidone, e la chiama sua compa­gna e le poggia il collo su morbidi cuscini, delicatamente, quasi sentisse. E viene il giorno della festa di Venere, festa grandissima in tutta Cipro. Già giovenche dalle corna arcuate fasciate d’oro sono cadute, colpite sul candido collo, e l'incenso fuma, quando Pigmalione, dopo aver reso il dovuto omaggio, si soffer­ma davanti all'altare e timidamente dice: “O dèi, se è vero che tutto potete concedere, io vorrei avere come moglie - (non osò dire ‘la fanciulla d’avorio’) - una simile alla fanciulla d’avorio”. L'aurea Venere, presente alla propria festa, coglie il senso di quella preghiera, e - segno che la divinità è propizia - una fiamma tre volte palpita e con la punta guizza su per l'aria. Tornato a casa, Pigmalione subito va a trovare la cara statua della fan­ciulla, e curvandosi sul letto la bacia. Gli pare di avvertire un tepore. Di nuovo accosta la bocca, e con le mani le palpa anche il seno. L’avorio palpato si ammorbidisce e perduta la durezza s’incava e cede sotto le dita, come la cera dell’Imetto al sole tor­na duttile e plasmata col pollice si piega ad assumere varie for­me e più è trattata, più trattabile diventa. Stupito, felice mai in­certo, timoroso d’ingannarsi, più e più volte l’innamorato tocca con la mano il suo sogno: è un corpo vero! Le vene pulsano sot­to il pollice che le tasta. Allora il cipriota rivolge a Venere parole traboccanti di gioia per ringraziarla, e finalmente con le sue labbra comprime labbra che non sono più finte. E la vergine sen­te quei baci, e arrossisce, e levando timidamente gli occhi verso la luce, vede, assieme al cielo, colui che la ama. La dea assiste al­le nozze, possibili per merito suo. E, quando per nove volte la falce della luna si è richiusa in un disco pieno, la sposa genera Pafo, dalla quale l’isola anche Pafo è detta.