523 d.C. ca.
BOEZIO, De Consolatione philosophiae, III, 12, vv. 1-58
Testo tratto da: Friedman J. B., Orphée au Moyen Âge, Éditions du Cerf, Parigi 1999, pp. 113, 114
Felix qui potui boni
Fontem visere lucidum,
Felix qui potuit gravis
Terrae solvere vincula
Quondam funera coniugis 5
Vates Threicus gemens,
Postquam flebili bus modis
Silvas currere mobiles
Amnes stare coegerat
Iunxitque intrepidum latus 10
Saevis cerva leonibus,
Nec visum timeut lepus
Iam cantu placidum canem;
Cum flagrantior intima
Fervor pectoris ureret; 15
Nec, qui cuncta subegerant,
Mulcerent dominum modi,
Immites superos querens
Infernos adit domos
Illic blanda sonantibus 20
Chordis carmina temperans,
Quidquid praecipuis deae
Matris fontibus hauserat,
Quod luctum geminans amor, 25
Deflet Taenara commovens
Et dulci veniam prece
Umborum dominos rogat
Stupet tergeminus novo
Captus carmina ianitor, 30
Quae sontes agitant metu
Ultrices scelerum deae
Iam maestae lacrimis madent.
Non Ixionium caput
Velox praecipitat rota 35
Et longa site perditus
Spernit flumina Tantalus.
Vultur, dum satur est modis,
Non traxit Tityi iecur
Tandem :«Vincimur» arbiter 40
Umbrarum miserans ait:
«Donamus comitem viro
Emptam carmine coniugem.
Sed lex dona coerceat,
Ne dum Tartara liquori, 45
Fas sit lumina flectere.»
Quis legem det amanti bus?
Maior lex amor est sibi
Heu noctis prope terminos
Orpheus Eurydicen suam 50
Vidit, perdidit, occidit.
Vos haec fabula respicit,
Quicumque in superum diem
Mentem ducere quaeritis.
Nam qui tartareum in specus 55
Victus lumina flexerit
Quicquid praecipium trahit,
Perdit, dum videt inferos.
Traduzione tratta da: Rapisarda E., Consolatio poesis in Boezio, Catania 1960, libro III, 12, pp. 78-81
Felice chi può attingere alla luminosa fonte del bene, felice chi può liberarsi dalle gravi catene della guerra!Allorché il tracio vate piangeva la morte della moglie, con il suo canto lamentevole scuoteva le selve, che correvano dietro di lui fermava i rapidi fiumi; la cerva congiunse il fianco, divenuto intrepido, col feroce leone, e le lepri non ebbero paura dei cani divenuti a quel canto, mansueti. Ma quei canti, che avevano ammansito le fiere, non lenivano al cantore l’interno affanno, che ardeva ancor più violentemente: discese allor egli, imprecando alla crudeltà degli dei nelle dimore infernali. Ivi sulle armoniose corde temprò in dolcissime note il canto, attinto alle fonti materne, ispirato all’affanno senza rimedio e all’amore che raddoppia il dolore, col suo canto egli commuove il Tenaro e con dolce preghiera chiese grazia ai signori delle ombre. È stupito Cerbero trifauce, vinto dall’insolito canto; le dee vendicatrici dei delitti, le tremende persecutrici dei son madide di pianto per la mestizia, la veloce ruota si arresta sul capo di Issione, e Tantalo, disperato della lunga sete ha in spregio il fiume. L’avvoltoio sazio di quel canto, trascura il fegato di Tizio. Siamo vinti-esclama infine impietosito il re delle ombre-doniamo al marito la sua compagna, la moglie redenta col canto. Ma il dono sia sottoposto ad un condizione: nell’ abbandonare il Tartaro non dovrà egli volgere indietro gli occhi. Ma chi può imporre le leggi agli innamorati? È legge più forte amore a se stesso! Sul finir della notte Orfeo si volse ahimè! A guardare Euridice: la rovinò, la uccise! Questa favola riguarda voi, che volgete il pensiero alla suprema luce. Infatti colui che nella sua debolezza volge lo sguardo alle tenebre tartaree, nel guardarle perde ogni dono già conquistato!