36-29 a.C.
VIRGILIO, Le Georgiche, IV, vv. 695-796
Testo tratto da: Virgilio, Le Georgiche, (a cura di Firpo L.), Torino 1969, IV, vv. 695-796, pp. 217, 218, 220, 221, 222
L’ira di un nume sul tuo capo incombe!
Sconti la pena di un peccato orrendo!
Orfeo, che senza colpa ebbe a patire,
contro di te questo castigo scaglia
(se lo consente il Fato) ed infierisce
sopra di te per la perduta sposa.
Mentre da te fuggiva a pazza corsa,
sulla sponda del fiume, la fanciulla
già consacrata a morte, in mezzo all’erba,
non vide ai piedi suoi la serpe immane,
ch’era in agguato là presso la riva.
Delle Driadi compagne allor la schiera
il suo dolor gridò per gli altri monti:
piansero fin del Ródope le vette,
l’Attica Orizia e il Marzio suol di Reso
e i Geti, e l’Ebro, ed il Pangèo sublime.
Sopra la cava cetra egli cantava
te, consorte gentile, te cantava
sol con se stesso pel deserto lido,
te nel tramonto, te sul far del giorno,
per consolare il suo infelice amore.
E penetrò del Ténaro nell’antro,
che sprofonda all’Inferno, entrò nel bosco,
che di cupi terrori il buio avvolge
e giunse ai Mani e la tremendo Sire:
cuor fatti sordi alle preghiere umane.
Commossi da quel canto allor salivano
dalle sedi dell’Erebo profonde,
ombre tenui, i fantasmi dei defunti.
Quanti sono gli uccelli che ricercano
asilo tra le fronde a mille a mille,
quando la sera od una fredda pioggia
li scacciano dai monti, ecco venivano
le madri insieme, ed i mariti, e i bimbi,
e i corpi estinti degli eroi magnanimi,
e le fanciulle vergini, ed i giovani
sotto gli occhi dei padri arsi sul rogo;
e tutti li circonda un sozzo fango,
e triste come, e l’acqua che ristagna
nell’odiosa palude di Cocito,
mentre lo Stige li rinserra e avvolge
con nove giri. Un’onda di stupore
corse le case stesse dell’Oblio,
e i recessi del Tartaro, e l’Eumènidi,
che han chiome avvinte da verdastri serpi;
ristette fin dal volgersi col vento
la ruota d’Issione e tenne Cèrbero,
ammutolito, le tre bocche aperte.
E riebbe Euridice, e già tornava,
superato ogni rischio, e all’aria aperta
sulle sue orme ella con lui saliva
(imposto avea Proserpina quel patto),
quando colse una subita follia
l’amante incauto, degna di perdono,
se conoscessero il perdono i Mani.
Quasi uscito alla luce ormai, ristette
cedendo al desiderio e (ahimè!) dimentico
si volse a rimirar la sua Euridice.
Ogni travaglio allor fu reso vano
s’infranse il patto col tiranno gelido;
diede un triplice rombo il lago Averno.
Ed ella allora: «Orfeo, quale follia
(misera me!) così ci perde entrambi?
Ecco, mi chiama un’altra volta indietro
Il mio Fato crudele, ecco, mi scende
sopra gli occhi smarriti un vel di sonno.
Addio ormai! Con sé già mi rapisce
e m’avvolge una notte senza fine,
e (non più tua, ahimè!) protendo invano
verso di te le braccia». Così disse
e dileguò sotto i suoi occhi a un tratto
qual fumo che dissolve un vento lieve;
né più lo vide brancolar cercando
di abbracciar l’ombre, mentre sulle labbra
inespresse gli urgevan le parole;
né più il nocchier dell’Orco la palude
or che due volte persa avea la sposa?
Con quale pianto i Mani, con qual voce
commuovere gli Dei? Ed ella intanto,
già fredda, andava sulla barca stigia.
Narrano che per sette eterni mesi,
lungo la riva del deserto Struma,
sotto un’eccelsa rupe, in fredde grotte,
senza tregua egli pianse, rinnovando
questa sua pena, ed ammansì le tigri
ed attirò le querce col suo canto.
Come usignuolo che da un pioppo ombroso
Triste lamenta i figli suoi perduti,
che ancora implumi li rapì dal nido
in agguato il bifolco senza cuore,
tutta la notte piange, dal suo ramo
ripete il canto flebile, ed inonda
d’una mesta armonia tutti i dintorni.
Non altri amori mai, non altre nozze
intenerire seppero il suo cuore;
solingo errò tra gli Iperborei ghiacci,
lungo il Tanai gelato e per le plaghe
dei Rifei, che la neve eterna ammanta:
e sempre la perduta sua Euridice
vi pianse e il dono della Morte, vano.