Mirfr08

1561

GIOVANNI ANDREA dell’ANGUILLARA, Le Metamorfosi di Ovidio ridotte in ottava rima, Venezia, presso Giovanni Griffio

 

Di Cinira già Mirra nacque, e crebbe;

E de le donne amabili, e leggiadre

Di quell’età la palma à lei si debbe;

Ma il dirò pur, l’amor l’arse del padre.

E bramò haver di lui la prole, e l’hebbe,

E fu del suo figliuol sorella, e madre.

Ó scelerata putta, a qual facella

Accese entro al tuo cor fiamma si fella?

 

Scusa il figliuol di Venere i suoi strali

Da si nefando, e furioso affetto;

E nega, che fra gli huomini mortali

Facesse il fuoco suo mai tale effetto.

Dunque lasciar le parti altre infernali

Tesifone, Megara, overo Aletto;

E con la face iniqua de l’inferno

T’accese di tal foco il core interno.

 

Quel, che porta odio al padre, un grand’errore

Commette, e appresso ognun di biasmo è degno:

Ma s’una n’arde do lascivo amore,

Infame merta ogni castigo, e sdegno.

Di tanti Re propinqui hai preso il core,

Che t’aman sposa haver nel loro bel regno;

Non vò levar de gli huomini nessuno,

Eleggi quel, che vuoi, sol ne lascia uno.

 

Se ben l’accesa figlia aperto approva,

Ch’è troppo osceno, e rio l’ardor, che sente;

Non però può, se ben si sforza, e prova,

De l’ingiusto desio sgravar la mente.

Lassa (dicea) che fiamma iniqua, e nova

M’accende de l’amor del mio parente?

Perchè l’amor non lascio infame, e fello,

E non amo un più giovane, e più bello?

 

Ma qual sarà più bel, se ‘l padre mio

Mi par sopra ogn’altr’huom più bello, e adorno?

 

Deh sommi Dei, si indegno affetto, e rio

Da me scacciate, e tanta infamia, e scorno.

Deh paterna pietà, spegni il desio,

Ch’enorme, e non fedel fa in me soggiorno.

 

S’enorme è quel desio, che ‘l padre brama

 

Veder maggior d’ogni huom, perchè più l’alma

 

E se ben bramo haverne quel contento,

Che si suol trar  da l’amoroso invito;

Che vi sia dentro error già non consento

Dapoi, che’ l natural seguo appetito.

E bene è natural, se ne l’armento.

 

la figlia al padre suo si fa marito.

Si gode il genitor la sua vitella,

Come la vede andar matura, e bella.

 

La figlia del montone, e del cavallo

Si sente havere il sen grave del seme,

Del quale ella già nacque: e’ l veltro, e ’l gallo

A le proprie figliuole il dosso preme.

Se ne gli altri animai nin s’ha per fallo,

Se’ l naturale amor gli lega insieme;

Ond’è, ch’è error ne l’huom, che meglio intende,

S’al natural desio cede, e s’arrende?

 

Felice ogni animal, cui vien permesso

D’sar la natural lor propria legge,

Poi che ‘l nemico popol di se stesso

Con maligni decreti no’l corregge.

Quel, che da la natura vien concesso

A gli augelli, a gli armenti, et a le gregge,

Di torsi a modo lor marito, e moglie,

Da l’odiose leggi a l’huom si toglie

 

Si legge pur, che son nel mondo genti,

Le qualei del matrimonio non han cura.

Si congiungon le figlie co’ parenti,

E non fan torto al don de la natura.

Quanto son più di noi saggi, e prudenti

A non si por dar lor legge si dura,

Che fa il connubio lor, ch’à noi si vieta,

Per raddoppiato amor crescer la pieta.

 

Misera me, perché non venni al mondo

In quella parte, ove non è contesa

la copula à la vergine, secondo

Le persuade à far la voglia accesa.

Hor s’io non vengo al fin dolce, e giocondo,

Dal loco, e da la sorte io sono offesa.

O folle, quale è fin, che speri, e brami,

Scaccia pur via da te le voglie infami.

 

D’essere amato è veramente degno,

Ma come padre, e d’amor santo, e pio.

E s’ei non fosse al mio mortal sostegno

Padre, potrei dar luogo al mio desio.

Hor poi, ch’egli il mortal diemmi, e l’ingegno,

Per esser mio, far più no’l posso mio.

Di lui (s’ei d’altrui fosse) havrei ben copia,

Ma l’abondanza in me genera inopia.

 

Meglio è lontano andar da questo lido,

per fuggir tanto obbrobrioso errore;

Ma l’illecito dardo di Cupido

Arresta in questa patria il dubbio core.

Che se tutte le gratie in lui fan nido,

Vuol, ch’ohni dì contempli il suo splendore,

Ch’io parli, tocchi, e baci il caro amante,

poi che non mi stà ben sperar più avante.

 

Come sperar più avante empia donzella?

Che desiderio è il tuo? non pensi, come

S’adempi la tua mente ingiusta, e fella?

Confonderai co’l parentado il nome?

Vuoi tu de la tua figlia esser sorella?

Vuoi, che germana il tuo figliuol ti nome?

Pellice ti vuoi far de la tua madre?

E innamorata adultera del padre?

 

Non vuoi temer le Dee crinite, e truci

De’ serpi, che lasciato han già l’inferno.

E con le faci, e con le crude luci

Veggon l’indegno tuo furore interno.

Gli essempi santi altrui prendi per duci,

Mentre anchor senza errore è il corpo esterno.

E nono volere il natural desio

Macchiar con un contento ingiusto, e rio.

 

Horsu poniam, che tu vogli macchiarlo,

E far l’error; la cosa in se te’l vieta.

Ch’egli, che sà il dover, vorrà servarlo,

Rispetto havendo à la paterna pietà.

O s’io potessi à miei voti placarlo,

Qual sarebbe di me donna più lieta?

Non havrei da portare invidia altrui,

Se’l medesimo furor prendesse lui.

 

Cinira intanto ricco di partiti

Chiama la figlia, e mostrale una lista,

Là dove scritti havea molti mariti,

C’havean la sua beltà lodata, e vista.

Le dice, che si giunga, e si mariti,

E che contenti l’animo, e la vista.

Tace ella, et alza gli occhi al padre intanto,

Indi ardendo gl’inchina, e piove il pianto.

 

Che l’habbia, il padre suo fido si crede,

Il timor virginale il pianto sciolto.

L’asciuga il viso, e con paterna fede

D’un dolce bacio le contenta il volto.

Poi di quel, ch’ameria, marito chiede.

Dice ella, un n’amerei, che in se raccolto

Havesse in tutti i merti, e pregi suoi

L’altro regio splendor, c’havete voi.

 

Cinira allhor de la risposta accorta

Loda la figlia, e nel suo cor ne gode.

Con queste note pie dapoi l’essorta.

Se brami haver nel mondo eterna lode,

Tal riverentia sempre al padre porta,

E lascia, ch’à lo sposo egli t’annode;

C’havendo l’occhio à tua santa honestade

Sposo non ti darà, che non t’aggrade.

 

Quanto sente parlar l’ampia donzella

Della santa honestate, abbassa gli occhi,

Sapendo la sua mente infame, e fella,

E gli empi ardori suoi nefandi, e sciocchi.

Il padre, ch’abbassar la luce bella

Vede, tien, che vergogna il cor le tocchi:

Et infinita gioia entro al cor piglia,

D’haver si santa, e si lodata figlia.

 

Le stelle prima apparse in oriente

Eran di già salite à mezzo il cielo,

E’l sonno possedea l’humana mente

Havendo à tutti gli occhi opposto il velo.

Vegghiava sol la vergine imprudente

Desta dal duol del furioso zelo;

Che brama, e teme, e di tentare agogna,

Ne sa trovar, che far per vergogna.

 

Qual se la quercia annosa altera, e grossa

Ferita il piè da gl’inimici ferri,

Prima, che senta l’ultima percossa,

Stà in dubbio da qual parte i rami atterri;

Temon la grave sua ruina, e possa

Quei, c’had’intorno à lei propinqui cerri;

Al fin da quella parte, ond’ha più pondo,

Lascia cader l’altera cima al fondo:

 

Tale il ferito cor de la fanciulla

Hor spiega ver la tema, hor ver la speme,

Et hora il rio pensiero, hor l’altro annulla,

E questo, e quel la sua ruina teme.

Conchiude al fin, che ogni altra strada è nulla

Per salvar se da le sua pene estreme,

Se non la morte, e su l’ultima clade

Al fine il dubbio cor ruina, e cade.

 

Disposta di morir prende la cinta,

Indi il misero collo intorno allaccia,

E sopra un seggio da la furia spinta

Monta, e verso d’un legno alza le braccia.

Hor mentre render vuol la trave avinta,

La propinqua nutrice il sonno scaccia,

Ch’ode Cinira, Vale, ahi cruda sorte

Intendi hor la cagion de la mia morte.

 

Dorme vicino à lei la bali accorta,

Tal, ch’udendo il romor dal letto sorge:

Ma poi che l’infelice apre la porta,

E quel, che brama far la figlia, scorge;

Vien la guancia senil più trista, e smorta;

Pur saggia à tempo à lei soccorso porge.

Manda la fascia in mille pezzi, e poi

Si batte, e graffia, e chier, che mal l’annoi.

 

Come ha la mesta figlia al laccio tolta,

Si straccia, e fere, e duol; ma grida piano,

E cerca qual dolor la fè sì stolta,

Che dovesse tor l’alma al corpo humano.

Si stà muta la vergine, et ascolta,

E guarda in terra, e duolsi de la mano,

Che tolse il laccio al circondato collo,

E non le lasciò dar l’ultimo crollo.

 

Stà la vecchia ostinata, e la fanciulla:

L’una non vuol parlar, l’altra la prega

Per i primi alimenti, e per la culla,

Che palesi il suo duol; ma non la piega.

Le dice; Figlia, ogni sospetto annulla,

Et à chi ti diè il latte, il fatto spiega.

Volge ella il lume altrove, e non  la guarda,

E la risposta à lei nega, e ritarda.

 

Soggiunge la nutrice, il duol confida,

Che ti fa in sì vil pregio haver la vita,

che non sol ti sarà secreta, e fida,

ma ti darò consiglio, e certa aita.

Ne puoi trovar la più sicura guida

Di quella madre pia, che t’ha nutrita;

Non sento l’età mia però si lenta,

Che non ti possa anchor render contenta.

Se furioso ardor l’alma ti piega,

Si curerà con lìherba, e con l’incanto.

S’alcun t’affligge il cor con arte maga,

Io ti torrò con l’arte istessa il pianto.

Se del ciel l’ira è di vendetta vaga,

placherò il ciel co’l sacrificio santo;

sia qual si voglia il morbo, io non rifiuto

di darti fido aviso, e certo aiuto.

 

Salvo il regno vegghiam, salvo l’honore

Da la malvagia sorte, e da nemici;

tua madre ha sano il corpo, e lieto il core,

Tuo padre por si può fra i più felici.

Come il nome di padre ella dà fuore,

Rimembra à Mirra i suoi pianti infelici;

E come piace al troppo ardente affetto,

manda un sospir dal più profondo petto.

 

Sospetion la vecchia anchor non prende

Del grande error, che in lei cagiona il male;

Ma ben dal caldo suo sospiro intende,

Ch’offeso ha il cor da l’amoroso strale.

E da prudente l’animo l’accende

À confessare il colpo aspro, e mortale:

E poi che il volto suo nel sen raccoglie,

Secca il pianto co’l vel, ma non gliel toglie.

 

Da poi le torna à dir; Figlia io conosco,

Che t’ha piagato il cor l’aurato dardo,

E che l’ardor de l’amoroso tosco

Volle per sempre il Sol torre al suo sguardo,

Quand’io tolsi la cinta al collo, e al bosco:

Hor poi che ’l braccio mio non giunse tardo,

Se l’ardor mi palesi, il quale ti preme,

Farò, ch’ancor godrai l’amata speme.

 

Io porrò l’amor tuo ne le tue braccia,

Se mi dirai, qual fiamma il cor t’accenda:

però nomarmi il giovane ti piaccia,

E lascia dopo, ch’io cura ne prenda.

Ch’à tuo piacer farò, che teco giaccia,

Senza, che ‘l padre tuo nulla n’intenda.

Viene al nome del padre ella vermiglia,

E dal grembo senil la fuga piglia.

 

Si fugge (à fin, che suo rossor s’asconda)

Dal lungo prego, e dal senil cospetto

Verso le piume; e ‘l pianto, che l’abonda,

Co ‘l viso volto in giù versa su’l letto.

La vecchia la molesta, che risponda,

Et ella dice; Ó torna al tuo ricetto,

Ó non cercar, perch’io la morte brame,

Perché quel, che tu cerchi è vitio infame.

 

Trema al capo senil la chioma bianca

Tosto, che sente infami esser gli affanni,

E l’una, e l’altra man debile, e stanca

Tende, che per l’horror trema, e per gli anni;

Chiede aiuto à le stelle, e poi non manca

Di ripiegar, che spiani i propri danni,

E che non tenga più la cosa oscura,

Ma d’ogni cosa à lei lasci la cura.

 

Hor la prega, hor la minaccia, accio che vinta

Da l’un de due palesi il dubbio core.

E dice, che dira di quella cinta,

Con cui si volea tor l’aspro dolore;

Com’ella gliela vide al collo avinta,

E che ciò fu per dishonesto adore:

Ma che si sforzerà (se ‘l ver le dice)

Di farla à suo poter lieta, e felice.

 

Leva ella il capo, e mentre à dir si sforza,

Di pianto bagna à la nutrice il seno.

Tre volte per parlare usa ogni forza,

E le vien il parlare tre volte meno.

Ma poi, che un poco il gran timore ammorza,

S’asconde gli occhi, e rompe al dire il freno.

Ben ha la madre mia felice sorte,

Che gode si pregiato, e bel consorte,

 

Come à fatica à questo punto venne,

Con un sospiro ardente accrebbe il pianto:

Poi nel volto à la balia il volto tenne,

E del suo lagrimar le sparse il manto.

Senza ch ‘ha la nutrice altro s’accenne

Da le parole sue conosce, quanto

Profanamente il suo desio post’have,

E trema, e ‘l bianco pel s’arriccia, e pave.

 

E per torle dal cor l’infame affetto,

Le fè veder l’error del suo pensiero.

Pur tor no’l posso (disse ella) dal petto,

Se bene il tuo parlar conosco vero.

Ó ch’io seco godrò felice il letto,

Ó darò l’alma al regno afflitto, e nero.

Quando la vide disperata in tutto,

Così tor le cercò la vecchia il lutto.

 

Non vò, che la beltà si tosto muoia,

Ch0io scorgo ne le tue membra leggiadre;

vivi pur, tu godrai, (non ti dar noia)

L’amor del tuo (ma non osò dir padre)

E seco gusterai la stessa gioia,

Che nel generar te gustò tua madre.

Et acquistò, per sostenerla in piede,

La vecchia à se co’l giuramento fede.

 

Era venuto il venerato giorno,

Nel qual solean le madri unirsi insieme

Nel santo de la Dea fertil soggiorno,

Ch’ al mondo apporta il più pregiato seme.

Dove à l’altar più de l’usato adorno

Per ben fondar la necessaria speme,

Dovean liete portar candide panno

Le spighe, ch’allegrar fer prima dell’anno.

 

Dovea l’illustre Dio, ch’al lume è scorta,

Mostrarsi nove volte in oriente,

E dovea lasciar l’aria oscura, e morta

Notti altrettante ascoso in occidente

Pria che la pompa, che le spighe porta,

Finisse de la Dea santa, e clemente.

E in tanto il letto, e l’amoroso invito

Fuggir dovean del cupido marito.

 

Fra l’altre madri, che l’officio santo

Seguian de l’alma Dea devota, e fida,

Gia la moglie del Re co’l più bel manto,

Come di tutte lor regina, e guida.

E’l genitor de la fanciulla intanto

Dentro à le piume vedovo s’annida,

E porge occasione à la nutrice

Di render del suo amor Mirra felice.

 

Dice una sera al Re caldo dal vino,

Per quel, ch’ella conobbe à la favella;

Che la felicità del suo dominio

Vuol porgli in braccio una gentil donzella:

E certo sia, ch’in tutto il suo dominio

Non fu veduta mai cosa più bella;

E che brama goder seco le piume,

ma non si vuol lasciar vedere al lume.

 

Che’l nobil sangue, e’l timor de parenti,

E la vergogna virginal la tiene.

Ma che non guardi à questo, e la contenti,

Ne privi il letto suo di tanto bene;

Che vedrà anchora i bei lumi lucenti,

Come sicura sia de la sua spene;

C’habbia in principio il fin d’amore in prezzo,

E serbi à contentar gli occhi da sezzo.

 

Poi per meglio disporlo, afferma, come

Ella è de le più nobili del regno.

Loda i begli occhi, il volto, e l’auree chiome,

I costumi, l’andar, l’arte, e l’ingegno.

Dice di tutto il ver, sol mente il nome.

Cerca saper il Re fin’à qual segno

L’età giunge, e l’altezza; ella l’assembra

Del tutto à Mirra à gli anni, et à le membra.

 

In mente al Re l’età tenera torna,

Quando nel suo fiorir n’arse più d’una,

E gode haver la vista anchor sì adorna,

Che sopra ogni altra sia grata à qualch’una.

Hor poi, che la consorte non soggiorna

Seco, vuole abbracciar questa fortuna,

E dice à lei, che la fanciulla guidi

Tosto, che’l sonno ogn’un nel letto annidi.

 

Parla la cauta vecchia al Re, che dica,

Ch’à tutte l’hore à lei s’apran le porte;

Che vuol poter condur la nova amica

Quando le torna ben fuor de la corte.

Pensò con gran ragion la donna antica,

Che se vederla il Re volea per sorte,

Non era se non ben poter fuggire

Fuor del letto real da le prim’ire.

 

La vecchia in uno error crudele, e pia

Trova con lieto cor la mesta figlia,

E dice; Havrà il tuo cor quel, che desia,

Se questa notte al mio parer s’appiglia.

La fraude scopre à lei pietosa, e ria,

E rallegrare il cor felle, e le ciglia;

ma non però del tutto ha lieto il petto,

Dal grave error turbato, e dal sospetto.

 

Del cerchio il quarto havea fatto Boote

Da l’hora, che fè scuro l’orizonte;

E de la notte le stellate ruote

Già possedean la sommità del monte;

Lo Dio, che da travagli ne riscuote,

À gli animai fea riposar la fronte,

E stando l’alme lor mute et oppresse,

Le stelle risplendean solo à se stesse:

 

Quando l’infame vergine si spinse

Verso la sceleraggine proposta.

Figgì la Luna splendida, et estinse

La luce con la meno et volto opposta.

Tanto nefando, e novo error costrinse

À fuggirsi ogni stella, e star nascosta.

Pose ogni segno al suo splendore il velo,

E fè del foco suo mancare il cielo.

 

Ma prima tu copristi Icaro il viso

Con Erigone tua, che in ciel riluce,

Per la pietà, ch’ella hebbe al padre ucciso,

Ne ardiste à tanto error volger la luce.

Tre volte inciampò il piede, e dielle aviso

Di non seguir l’ardor, che la conduce;

E tre diè il gufo augurio con lo strido,

Che dovesse tornarsi al proprio nido.

 

 Ma faccia pur gli augurij quel, che sanno,

Non lascia di seguir l’infame scirta;

Che la notte, e le tenebre la fanno

Men vergognosa andar verso la porta,

Tien la sinistra la nutrice, e vanno

Tentando il lor camin per l’aria morta.

À l’uscio son di già, ch’entro l’accoglie

Per far del padre suo la figlia moglie.

 

Tosto, ch’appresso al letto esser si sente,

Trova, che ne l’andar le trema il piede;

Fugge il colore acceso, e’l sangue ardente

S’incentra dove il cor dubbioso siede.

E tanto più del mal si duole, e pente,

Quanto à l’error più spesso esser si vede;

Già brama differirlo à un’altra volta,

e dar non conosciuta à dietro volta.

 

Hor mente (augurio al suo stato infelice)

La timida donzella il piè ritarda,

La tira per lo braccio la nutrice

À far l’error più strenua, e più gagliarda.

La porge al letto scelerato, e dice

Senz’esser ne l’amor punto bugiarda;

ecco colei, che brama il tuo diletto,

Co’l maggior, che si può, carnale affetto.

 

Lieto nel letto osceno il padre prende

La figlia propria sua per piacer trarne,

E’l timor, e’l tremor, che’l cor offende,

Le placa, e già l’amor vuol, che s’incarne.

E gode, mentre al suo diletto intende,

La carne sua con la sua propria carne;

E del seme medesmo, onde già nacque,

Haver l’ingordo sen grave à lei piacque.

 

E, perché in tali abbracciamenti aviene,

Che con sommo piacer l’un l’altro nome

Diletta anima mia, dolce mio bene,

Havendo ei grigie, e bionde ella le chiome:

Perché quel dolce e scelerato bene

Si nominasse co’l suo proprio nome,

Mentre ei godè le sue membra leggiadre

Forse ei chiamò lei figlia, ella lui padre.

 

Gravida al fin l’incestuosa figlia

Si parte, e l’error suo porta nel seno.

Come il sonno à mortai chiude le ciglia,

E pon ne l’altra notte à sensi il freno,

Per raddoppiar l’eccesso il camin piglia,

E di novo oscurar fa il ciel sereno.

Vien poi co’l padre à l’amoroso Marte,

E co’l secondo error da lui si parte.

 

Non le basta il secondo, e vi và tante

Volte, ch’al Re di Cipro in pensier cade,

Di voler posseder la dolce amante

Con gli occhi per goder la sua beltade.

Tosto, ch’à lui rivie la figlia errante,

E c’ha goduto la sua verde etade,

Si leva, et apre un studio, ove sospesa

Lunga una corda havea lasciata accesa.

 

La figlia, che levare il padre sente,

E per aprir un’uscio oprar la chiave,

Si getta intorno il panno immantinente,

Che di quel, che seguì, sospetta, e pave.

Và pian pian ver lo studio, e vi pon mente,

E vede, che la corda in man pres’ave,

E che per far rosplender l’aria nera

Cerca, che faccia il solfo arder la cera.

 

Tosto prende il camin verso la porta,

E’l ferro sprigionar vuol per aprire,

Ma intanto il lume acceso il padre porta.

Et ella à tempo non si può coprire.

Tosto fa rimaner la fiamma morta

Co’l vento Mirra, e poi dassi à fuggire.

Ma non restò l’ardor morto dal fiato,

Ch’ei vide la sua figlia, e’l suo peccato.

 

Poi ch’à la lingua il duol di parlar vieta,

S’accinge il padre irato à la vendetta.

Discaccia in tutto la paterna pieta,

E ver la spada ardente il piede affretta.

Intanto per la notte atra, e secreta

Fugge l’afflitta figlia, e non l’aspetta.

Và con la balia à l’uscio de la corte,

e fa co’l contrasegno aprir le porte.

 

Sfodra Cinira il ferro, ma non vede

Per l’aere brun come ferir la figlia.

Fa ver l’accesa corda andare il piede

E la cera di novo, e’l sofo piglia.

Co’l lume acceso un’altra volta riede

Dove lasciolla, e nel girar le ciglia

La porta de la stanza aperta scorge,

E de la retta sua fuga s’accorge.

 

Si gitta in furia sopra il dosso manto,

E corre per la corte irato, e fello,

Che ritrovar la crede in qualche canto,

Pria che la porta s’apra del castello.

Ma con la balia à travestirsi intanto

S’era fuggita in un secreto hostello.

Quindi poi giro al porto, e sopra un legno

Montar, ch’allhor ne gia nel Tiro regno.

 

Con un Favonio in poppa il buon naviglio

Solca l’ondoso mar verso levante,

Portando seco al volontario essiglio

La dolorosa, e scelerata amante.

Com’è smontata su l’arena, il ciglio

Ver l’Arabico sen volge, e le piante;

Ne passar molti dì, che la nutrice

Al regno trapassò scuro, e infelice.

 

Per la felice Arabia il camin prese

Mirra per l’aspra sua fuggir fortuna;

Ma la felicità di quel paese

Non potè rallegrarla in parte alcuna.

E già dal dì, che’l padre in braccio prese,

Cominciava à veder la nona Luna;

E ne l’andar sentia venirsi meno,

Per lo peso, c’havea l’infame seno.

 

Le fè veder la nona Luna il corno

Ne la terra odorifera Sabea,

Et essendo sparito in tutto il giorno,

L’opre diurne ogn’un lasciate havea;

Quand’ella al regno pio di stelle adorno

Alzò la luce addolorata, e rea;

E di lagrime sparse ambe le gote,

Si fece udir dal ciel con queste note.

 

Lumi del ciel, se s’ha qualche pietade

À che l’error confessa, e se ne pente,

Vi prego per la vostra alma bontade,

Che vi fa star nel regno alto, e lucente;

Poi ch’io l’error non nego, e voi mirate,

Quanto seco se’n duol l’amara mente;

Perch’io non noccia altrui, fate, che scorta

Fra genti io mai non sia viva, ne morta.

 

Non ricuso il supplicio, ma sia tale,

Ch’à me vergogna, e altrui non porti danno.

Può far, s’io vivo, ogni alma intesa al male

Lo stesso co’l mio essempio al padre inganno.

Vergogna havrò nel regno altro, e mortale

De l’altre ombre men rie, che quivi stanno.

Deh nascondete al mondo vivo, e al mondo morto.

 

Mutatemi il supplicio, ch’io ne merto,

Toglietemi à la vita, et à la morte.

Perch’io non porga essempio al mondo aperto

Altrui di fare error di si ria sorte.

E, perchè dentro à l’infernal deserto

Non m’habbia à vergognar de l’ombre morte,

Private l’alme del mio infame aspetto

Vive, ò morte, che sian, c’han l’intelletto.

 

À chi l’error confessa, e se ne duole,

E chiede gratia al sempiterno regno,

Esser benigno il Re supremo suole,

E di quel, che desta, suol farlo degno.

À pena ha dette l’ultime parole,

Che si sente le piante haver di legno.

Ogni fessa unghia obliqua al suol s’afferra,

E in forma di radice entra sotterra.

 

Si forman le due gambe un tronco duro,

Da l’osso la durezza il legno toglie.

Son le midolle anchor quel, che già furo,

E quelle entro al suo centro il tronco accoglie.

Si fa succo odorato il sangue oscuro,

Che nutre il legno, e le spinose spoglie.

Le braccia il fusto in gran rami trasforma,

E di piccioli arbusti i diti informa.

 

S’indura fuor la delicata pelle,

Perché ogni parte à l’albore risponda.

Il grave seno, e l’altre membra belle

Una scorza odorifera circonda.

Già chiuse havea le gravide mammelle,

Et aspirava à l’aurea chioma bionda,

Ma pronta al suo desire ella rispose,

E tirando giù il capo ivi s’ascose.

 

Se bene il volto human da lei disparse,

Lagrima anchora, e versa gocce il pianto.

L’odor, che quella età grato in lei sparse,

Nel succo trapassò del novo manto.

Vi passò anchor la ria lussuria, ond’arse,

E ne’ venerei assalti oprar può tanto,

Che s’ogni poco alcun ne tempra, e prende,

Ad ogni infame amor parato il rende.

 

L’arbore, e’l pianto anchor riserba il nome,

Che prima havea la scelerata amante.

Mentre, ch’ella cangiò l’humane chiome

Dormian d’intorno à lei tutte le piante;

E si meravigliar ne l’alba, come

Si vider nato il novo arbore avante;

E render gratie à sempiterni Dei,

Ch’arricchì di tal don gli odor Sabei.

 

Il mal concetto infante intanto havea

Molto ingrossato al novo arbore il seno,

E già maturo in ogni membro ardea

D’uscir dal cieco chiostro al ciel sereno.

Ne però ritrovar la via sapea,

Che la scorza il tenea per tutto in freno.

Ogni arbore stupia, che v’era inteso,

Ch’un tronco tanto havesse il ventre teso.

 

Mancavan le parole al duolo estremo,

E’l parto uscir volea troppo importuno,

Ne potea mandar preghi al ciel supremo,

Ne chiamare in favor Lucina, e Giuno.

Il sen far non dimen bramava scemo,

E tor l’infante al chiostro ascoso, e bruno.

E ben gemer s’udia con spessi crolli,

Di pianto havendo i rami afflitti, e molli.

 

Da se la pia Lucina al tronco venne,

Ch’al gran sen de la pianta intese il lume,

E disse ogni parola, che convenne,

Per far, ch’uscisse il novo figlio al lume.

L’arbor la gratia desiata ottenne,

Poi che’l favor de l’opportuno Nume

Fece tanto à la scorza aprire il velo,

Che vivo fè veder l’infante al cielo.

 

Ben maggior lo stupore ogni arbore have,

Vedendo un tronco partorire un figlio,

Che si credean, che’l sen tirato, e grave

Dovesse mandar fuor più d’un vinciglio.

Come spuntar de la materna trave

Si vede, e quasi fuor d’ogni periglio,

Mentre la Dea l’accoglie, e stringe al petto,

D’herbe, e di fior le fan le Ninfe un letto.

 

Con le materne gocce il figlio s’unse,

Poi diero il latte à suo primo vagito.

Di giorno in lui beltà s’aggiunse,

Ogni anno più crescea bello, et ardito.

Ma quando à quella età leggiadra giunse,

Ch’invoglia quasi altrui d’esser marito;

Havea tanto splendor nel volto impresso,

Che’l giudicava ogn’un Cupido istesso.

 

Togli à Cupido la faretra, e l’ale;

Ó l’ale e l’arco anchor dona à costui:

E posti al paragon, dimanda, quale

Sia quel, ch’arder d’amor suol fare altrui.

Vedendo ogn’un la lor bellezza eguale

Dirà; Gli Dei d’Amore hoggi son dui.

Si vaga in somma hebbe la vista, e lieta,

Che star l’Invidia  fè stupita, e cheta,

 

Ne la bellezza poi se stesso vinse,

Che cresce so scorgea di punto in punto.

Hor mentre al quarto lustro egli si spinse,

E fu fra’l terzo, e’l quarto al mezzo giunto:

Di tal vaghezza il bel viso dipinse,

Ch’ogni occhio, che’l mirò, d’amor fu punto.

D’ogni donzella il cor fè desioso

D’haverlo per amante, ò per isposo.

 

La Ninfa, che nutrillo, il rendè accorto,

Com’ei dal Re di Cipro era disceso:

Ma de la madre ria tacendo il torto,

Disse, ch’ella nel sen portò il suo peso.

Poi confortollo à gire al Ciprio porto,

Pria che l’amor Sabeo l’havesse acceso.

Adon (così il nomar) lodò il disegno,

Et andò per passare al Ciprio regno.

 

Pur dinanzi il Re di Cipro era passato

Da questa vita al suo viver secondo,

Dico quel Re, che de la figlia dato

Havea si pretioso parto al mondo:

E stava in gran romor tutto il Senato

Nel trovar degno alcun del regal pondo.

Ne stupor fia, s’era in discordia ogn’uno,

Che del sangue real non v’era alcuno.

 

Hor come Adone al Senato s’efferse,

Come figliuol di Cinira al governo,

Ogn’un nel volto suo chiaro scoperse

Il sangue regio, e’l bello aer paterno.

Ragioni opposte à lui furon diverse,

E molti il nominar di sangue esterno.

Quei, ch’esser volean Re, gridar, ma in vano,

Ch’in pochi dì lo scettro egli hebbe in mano.

 

La discordia de gli altri, e’l veder certo

L’illustre sangue regio nel suo volto;

Lo scorgerlo si bello, e di tal merto,

Onde s’oprar per lui le donne molto;

Fer (se bene egli era figliuolo incerto

Del Re pur dinanzi à lor dal fato tolto)

Che salutato Re fu dal consiglio,

Et accettato come regio figlio.

 

Si sapea ben per Cipro il folle incesto,

Che già commesso Mirra havea co’l padre.

Che in quel furor il Re fè manifesto

Lo inganno, ch’ella usò per farsi madre.

Tal che s’appone il regno al ver, ch’à questo

Re dato novo à le Ciprigne squadre,

Secondo approva la sua vista bella,

Sia padre l’avo, e madre la sorella.