Mirfc05

2-8 d.C.

PUBLIO OVIDIO NASONE, Metamorfosi, X, 298-524

Testo tratto da: Publio Ovidio Nasone, Metamorfosi, traduzione a cura di Bernardini Marzolla P., Einaudi, Torino 1994

 

Da Pafo nacque Cìnira che, se fosse rimasto senza prole,

si sarebbe potuto annoverare fra le persone felici.

Cose orrende canterò. Allontanatevi, figlie, e voi, padri.

Ma se allettati dal mio canto voi restate, voglio

che non mi prestiate fede, che non crediate a ciò che vi racconto,

o, se volete credervi, che anche al castigo voi crediate.

Se poi natura permette che si assista a un tale misfatto,

io mi congratulo con le genti di Tracia e il nostro mondo,

mi congratulo con questa terra per essere distante

dalle contrade che produssero tanta empietà. Sia pure ricca

di amomo la terra di Pancaia, produca, sì, cannella,

profumi, incenso che trasuda dal legno, e tutti i fiori che vuole;

ma la mirra, perché? quest'albero strano non meritava tanto.

Cupido stesso nega, o Mirra, d'averti ferito

con le sue frecce e del tuo crimine scagiona le sue fiaccole.

Con una torcia dello Stige e con serpenti velenosi

fu una Furia ad appestarti. Delitto è odiare il padre,

ma questo amore è delitto peggiore dell'odio. Patrizi e nobili

d'ogni luogo ti desiderano, giovani di tutto l'Oriente

vengono a contendersi la tua mano. Scegline uno fra questi,

Mirra, ma che non sia quell'uno solo che vuoi per marito!

Lei se ne rende conto e cerca di vincere quell'amore infame,

dicendo fra sé: "Dove mi porta l'indole? Cosa sto facendo?

O dei, pietà filiale, vincoli sacri dei parenti, vi supplico:

impedite quest'empietà, opponetevi al mio crimine,

ammesso che sia un crimine. Ma non pare che il rispetto

condanni questa unione. Gli altri animali si accoppiano

senza pensarci e non si ritiene turpe che una giovenca

si faccia montare dal padre; il cavallo sposa la figlia,

il capro si unisce alle capre che ha generato e la stessa femmina

degli uccelli concepisce da chi l'ha concepita.

Felici loro, che possono farlo! Gli scrupoli umani

hanno creato leggi perfide e princìpi astiosi vietano

ciò che natura ammette. Eppure si racconta che vi siano genti

tra cui la madre si accoppia al figlio, la figlia al padre,

e l'affetto tra i congiunti cresce per questo sommarsi d'amore.

Misera me, che non ho avuto in sorte di nascere lì,

ma dove non ho pace. Una continua ossessione, perché?

Via, via, sogni proibiti! Cìnira è degno, sì,

d'essere amato, ma come padre. Se non ne fossi dunque

la figlia, potrei giacere accanto a lui; ora invece,

poiché lui è mio, mio non può essere: nasce da questo legame

di sangue la mia sventura. Se fossi di un altro, sarei più libera.

Vorrei andarmene di qui, lasciare il suolo della patria,

per sottrarmi all'infamia, ma l'ardore del mio male mi trattiene,

perché con tutto il mio amore io possa guardare Cìnira, toccarlo,

parlargli e baciarlo, se altro non mi è concesso.

Perché? oseresti, vergine empia, sperare forse di più?

Ti rendi conto quante leggi e norme tu sovverti?

Vuoi essere rivale di tua madre e amante di tuo padre?

esser chiamata sorella di tuo figlio e madre di tuo fratello?

Non hai timore delle Furie con le chiome nere di serpenti,

che appaiono a chi è in colpa e con torce crudeli si avventano

contro gli occhi e il viso? Ma, visto che il tuo corpo è ancora puro,

non concepire empietà con la mente e non violare

con un amplesso vietato le leggi che ha imposto natura.

Se anche lo volessi, la realtà lo vieta, perché lui è pio,

virtuoso. Oh, come vorrei che il mio stesso furore vibrasse in lui!".

Si era sfogata; ed ecco che Cìnira in dubbio sul da farsi,

tanti sono i pretendenti degni di lei, le chiede,

dopo averle elencato i nomi, di chi vuol essere sposa.

Lei sulle prime tace e, fissando il volto del padre

col cuore in fiamme, gli occhi le si velano di calde lacrime.

Cìnira, credendo che ciò sia dovuto a verginale pudore,

l'esorta a non piangere, le asciuga le guance e s'accosta a baciarla.

Troppo ne gode Mirra, e alla domanda come vorrebbe che fosse

suo marito, "Uguale a te" risponde. Lui l'elogia per ciò che dice,

non comprendendone il senso riposto: "Resta sempre

così rispettosa!". Sentendo nominare il rispetto filiale,

la vergine, sapendosi colpevole, abbassa lo sguardo.

Nel cuore della notte corpi e pensieri sono placati

dal sonno. Ma non dorme la figlia di Cìnira, che, rosa

da un fuoco implacabile, è ripresa dalle sue folli smanie,

e ora si dispera, ora è decisa a tentare, si vergogna

e brama, senza trovar soluzione. Come un grosso tronco

centrato dalla scure, quando non resta che il colpo estremo,

non si sa dove cada, disseminando il terrore,

così la sua mente, fiaccata da tanti tormenti, oscilla

nei dubbi qua e là in balia ora di un senso ora dell'altro.

E altro freno all'amore, altra requie non vede che la morte.

Ecco, la morte: si alza e decide di porre la gola in un laccio.

Dopo aver sistemata la cintura alla sommità dello stipite:

"Addio, amato Cìnira, e chiaro t'appaia perché sono morta!"

dice, e al suo collo esangue adatta il cappio.

Si racconta che il suo mormorio giungesse alle orecchie attente

della nutrice, che sorvegliava la soglia della sua pupilla.

Balza in piedi la vecchia, spalanca la porta, e come vede

quei preparativi di morte, lancia un grido e a un tempo

si percuote, si strappa la veste, sfila il collo dal cappio,

fa a pezzi il laccio. Solo allora si abbandona al pianto,

la stringe fra le braccia, domandandole il motivo di quel cappio.

La fanciulla non fiata, immobile fissa il suolo, angosciata

che per gli indugi il tentativo di darsi la morte sia fallito.

La vecchia insiste e, scoprendosi la canizie e il seno esausto,

la scongiura, per averla nutrita nella culla, di svelarle

la sua pena, qualunque sia. Ma lei elude le domande

girandosi e gemendo. La nutrice però è decisa a sapere

e non si limita a promettere discrezione. "Parla," le dice,

"lascia ch'io t'aiuti. Sono vecchia, è vero, ma non inutile:

se è follia, conosco una donna che la guarisce con erbe e incanti;

se t'hanno fatto il malocchio, un rito magico te l'annullerà;

se collera è dei numi, con sacrifici si può placare.

Cos'altro posso supporre? Nulla ti manca e in casa tua

tutto procede per il meglio, tua madre è viva e così tuo padre."

Mirra, alla parola padre, dal petto emette un profondo sospiro;

eppure la nutrice è ancora lungi dal supporre

un crimine, malgrado intuisca che d'amore si tratta.

Ostinata, la sprona a rivelarle il suo tormento,

qualunque cosa sia, la prende lacrimante in grembo

e stringendola fra le sue deboli vecchie braccia:

"Capisco, sei innamorata," le dice; "ma non temere,

la mia premura ti sarà d'aiuto, e nulla mai saprà

tuo padre". Furibonda insorge Mirra: "Vattene, ti prego, abbi

pietà della vergogna che soffro", le grida, col viso premuto

sui cuscini. Ma lei non le dà tregua. "Vattene," ripete, "o smetti

di chiedere cosa mi strazia! È un'empietà, ciò che tu vuoi sapere."

La vecchia inorridisce, tende le mani tremanti d'anni

e sgomento, si accascia supplice ai piedi della fanciulla,

e ora la blandisce, ora la spaventa perché lei confessi,

minacciando di rivelare il suo tentativo di uccidersi

col cappio, promettendo di aiutarla se le confida chi ama.

Mirra solleva il capo e inonda il petto della sua nutrice

con un mare di lacrime; più volte è sul punto di confessare,

e altrettante si trattiene; poi, nascondendo il volto con la veste

per la vergogna, sospira: "Beata te, mamma, che l'hai sposato!".

Non dice altro e geme. Un brivido di gelo corre per il corpo

della nutrice, che ormai ha capito, fin dentro le ossa, e sul capo

le si rizzano i capelli, arruffando tutta la canizie.

E ora a lungo le parla per scacciare, se può, quella scellerata

passione: la fanciulla sa che quegli ammonimenti sono giusti,

ma è pur decisa a morire, se non può soddisfare quell'amore.

"E vivi allora," le dice, "avrai tuo..." e non osando dire 'padre',

si ammutolisce, ma conferma la promessa con un giuramento.

Le donne del luogo stavano celebrando devote le feste

di Cerere, in cui ogni anno, avvolte in vesti bianche come neve,

offrono alla dea le primizie dei loro raccolti, serti

di spighe, e per nove notti considerano vietato l'amore

e il contatto con l'uomo. Tra la folla vi è Cencrèide,

la moglie del re: anche lei partecipa ai sacri misteri.

Ed ecco che, mentre la legittima consorte diserta il letto,

la nutrice con sciagurato zelo scova Cìnira stordito

dal vino, gli rivela tutto di quell'amore, omettendo il nome, e

vanta la bellezza della fanciulla. Alla domanda di quant'anni

abbia: "L'età di Mirra" risponde, e all'ordine di condurla,

corre da lei esclamando: "Gioisci, figlia mia, abbiamo vinto!".

Non è gioia piena quella che prova l'infelice

vergine: in cuore è presa da un triste presentimento,

ma pur anche gioisce, tanto discordi sono i suoi sentimenti.

Era l'ora in cui tutto tace e, tra le stelle dell'Orsa, Boòte,

volgendo il timone, aveva inclinato il corso del suo carro.

Mirra si avvia al misfatto. Fugge dal cielo la luna dorata,

nuvole plumbee coprono le stelle che dileguano,

priva di luci è la notte. E Icario, con Erìgone immortalata

per l'amor filiale che gli portò, fu il primo a nascondere il volto.

Per tre volte il piede, inciampando, l'ammonisce di ritrarsi,

per tre volte il funebre gufo l'avverte col suo verso di morte.

Ma lei va: le tenebre della notte attenuano la sua vergogna.

Con la sinistra stringe la mano della nutrice, con la destra

esplora a tentoni il buio cammino. E già alla soglia della camera

è giunta, apre la porta, viene introdotta; e a lei tremano

le gambe, mancano le ginocchia, dal volto vita

e sangue si dileguano e, mentre avanza, il coraggio l'abbandona.

Più si avvicina all'infamia, più rabbrividisce, si pente

della sua audacia e vorrebbe non vista potersene fuggire.

Esita, ma la vecchia la tira per la mano e accostandola

al grande letto, nel darla al padre, dice: "Prendila, Cìnira:

ecco, è tua"; e unisce i due corpi nella dannazione.

Lui in quel letto immondo accoglie la carne della sua carne,

e rincuorandola l'aiuta a vincere i suoi timori di vergine.

Forse anche per la sua tenera età, la chiama 'figlia',

e lei 'padre', perché all'incesto nulla mancasse, nemmeno i nomi.

Gravida di suo padre uscì Mirra da quel letto, portandosi

nel ventre maledetto l'empio seme, il frutto della colpa.

La notte successiva l'infamia si ripeté, e ancora, ancora,

finché Cìnira, ansioso di vedere chi fosse l'amante

dopo tanti amplessi, accostò una lampada e insieme scoprì

la figlia e il crimine commesso: ammutolito dal dolore,

dal fodero appeso accanto in un lampo sguainò la spada.

Fuggì Mirra, e col favore delle tenebre a notte fonda

poté sottrarsi alla morte. Vagando in aperta campagna

lasciò l'Arabia ricca di palme e le contrade della Pancaia.

Nove volte riapparve la falce della luna mentre fuggiva,

finché alla fine si fermò sfinita in terra di Saba, reggendo

a stento il peso del suo ventre. E allora non sapendo a chi votarsi,

combattuta tra il timore della morte e il disgusto della vita,

formulò questa preghiera: "Se c'è un dio che ascolta chi ammette

le proprie colpe, questa è, sì, la fine angosciosa che merito,

e non la rifiuto. Ma perché io non profani vivendo i vivi

e morta i trapassati, cacciatemi dal regno di entrambi:

fate di me un'altra cosa, negandomi vita e morte!".

Un dio che ascolta i rei confessi c'è; o almeno un nume che esaudì

l'ultima parte dei suoi voti. Mentre ancora parla,

la terra avvolge le sue gambe, le unghie dei piedi si fendono,

diramandosi in radici contorte, a sostegno di un lungo fusto;

le ossa si mutano in legno e, restando all'interno il midollo,

il sangue diventa linfa, le braccia grandi rami,

le dita ramoscelli; la pelle si fa dura corteccia.

E già, crescendo, la pianta ha fasciato il ventre gravido,

ha sommerso il petto e sta per coprirle il collo:

non tollerando indugi, lei si china incontro al legno

che sale e il suo volto scompare sotto la corteccia.

Ma benché col corpo abbia perduto la sensibilità di un tempo,

continua a piangere e dalla pianta trasudano tiepide gocce.

Lacrime che le rendono onore: la mirra, che stilla dal tronco,

da lei ha nome, un nome che mai il tempo potrà dimenticare.

Ma sotto il legno la creatura mal concepita era cresciuta

e cercava una via per districarsi e lasciare la madre.

A metà del tronco il ventre della madre si gonfia,

tutto teso dal peso del feto. Ma il dolore non ha parole,

la partoriente non ha voce per invocare Lucina.

Tuttavia la pianta sembra avere le doglie, curva su di sé

manda fitti gemiti e tutta è imperlata di stille.

Lucina, impietosita, si ferma davanti a quei rami dolenti,

accosta le sue mani e pronuncia la formula del parto.

Si apre una crepa e dalla corteccia squarciata l'albero fa nascere

un essere vivo, un bimbo che piange: le Naiadi lo depongono

su un letto d'erba e lo ungono con le lacrime della madre.

Persino Invidia ne loderebbe la bellezza: il suo corpo

è come quello dei nudi Amorini dipinti nei quadri;

unica differenza, se volete, la faretra sbarazzina:

ma puoi toglierla a loro, oppure aggiungerla al bambino.

Senza che lo si avverta, vola via come un fulmine il tempo:

niente è più rapido degli anni. Quel bambino, figlio di sorella

e nonno, quello che un attimo fa era racchiuso in un tronco,

che un attimo fa hai visto nascere e farsi bellissimo fanciullo,

ormai è un giovane, un uomo, che già supera sé stesso in bellezza,

che piace persino a Venere e vendica la passione materna.