1623
GIOVAN BATTISTA MARINO, L'Adone, poema del cavalier Marino. Alla maestà christianissima di Lodovico il decimoterzo, re di Francia, et di Navarra. Con gli argomenti del conte Fortuniano Sanvitale, et l'allegorie di don Lorenzo Scoto, in Parigi presso Oliviero di Varano, alla strada di San Giacomo, alla Vittoria, 1623, V, 32-44
Testo tratto da: http://it.wikisource.org/wiki/Adone/Canto_V
Mille di mille dee, di mille dei,
che quaggiù di lassù spiegaro il volo,
amori annoverar qui ti potrei,
ma lascio gli altri e tene sceglio un solo.
Oso di dir che più felice sei
di quelche piacque al gran rettor del polo.
Non so se ti sia nota, o forse oscura,
del troiano donzel l'alta ventura.
Dal sovrano balcon rivolto avea
il motor dele stelle a terra il ciglio,
quando mirò giù nela valle Idea
del re di Frigia il giovinetto figlio.
Mirollo e n'arse. Amor che l'accendea,
l'armò di curvo rostro e curvo artiglio,
gli prestò l'ali e gli destò vaghezza
di rapir la veduta alta bellezza.
La maestà d'un sì sublime amante
bramoso d'involar corpo sì bello,
dela ministra sua prese sembiante,
ché non degnò cangiarsi in altro augello,
peroché tutto il popolo volante
più magnanimo alcun non n'ha di quello,
degno, daché portò tanta beltate,
d'aver di stelle in ciel l'ali gemmate.
Bello era e non ancor gli uscia su'l mento
l'ombra ch'aduggia il fior de' più begli anni.
Iva tendendo a rozze prede intento
ai cervi erranti insidiosi inganni.
Ed ecco il predator che'n un momento,
falcate l'unghie e dilatati i vanni,
in alto il trasse e per lo ciel sostenne
l'amato incarco insu le tese penne.
Mira da lunge stupido e deluso
lo stuol de' servi il vago augel rapace.
Seguon latrando e risguardando insuso
i cani la volante ombra fugace.
Il volo oblia d'alto piacer confuso,
Giove, e di gioia e di desir si sface,
gli occhi fiso volgendo e le parole,
aquila fortunata, al suo bel sole:
"Fanciul (dicea) che piagni? a che paventi
cangiar col cielo, ah semplicetto, i boschi?
con l'aure sfere e con le stelle ardenti
le tane alpestri e gli antri ombrosi e foschi?
e con gli dei benigni ed innocenti
le fere armate sol d'ire e di toschi?
Fatto, mercé di lui che'l tutto move,
di rozzo cacciator coppier di Giove?
Son Giove istesso. Amor m'ha giunto a tale:
non prestar fede ale mentite piume.
Aquila fatto son; ma che mi vale,
s'aquila ancor m'abbaglio a tanto lume?
Io quel, quell'io che col fulmineo strale
tonar sovra i giganti ho per costume,
sì son pungenti i folgori che scocchi,
saettato son già da' tuoi begli occhi.
Qual pro ti fia per balze e per caverne
seguir de' mostri orribili la traccia?
Vienne vien meco ale delizie eterne,
maggior preda fia questa e miglior caccia.
E s'avien che colà nele superne
piagge i bei membri essercitar ti piaccia,
trarrai per le stellate ampie foreste
dietro al'orse del polo il can celeste.
Lascia omai più di ricordar, rivolto
ale selve, agli armenti, Ida né Troia.
Sei celeste e felice; avrai raccolto
tra gli eterni conviti eterna gioia.
E nel'aspra stagion, quand'austro sciolto
l'aria, la terra e'l mar turba ed annoia,
visitata dal sol, lucida e bella
scintillerà la tua feconda stella."
Così gli parla e'ntanto al sommo regno
dela gente immortal patria serena,
non però senza scorno e senza sdegno
dela gelosa dea, lo scorge e mena,
dove del nobil grado il rende degno,
ché sempre in ogni prandio, in ogni cena,
a mensa in cavo e lucido diamante
porga il nettare eterno al gran tonante.
Ebe e Vulcan, che poco dianzi quivi
dela gran tazza il ministero avieno,
già rifiutati e del'ufficio privi
cedono al novo aventurier terreno.
Ei l'ama sì ch'innanzi a dive e divi,
quando il sacro teatro è tutto pieno,
ancor presente la ritrosa moglie,
da Ganimede suo mai non si scioglie.
Non gli reca il garzon giamai da bere
che pria nol baci il re che'n ciel comanda
e trae da quel baciar maggior piacere
che dala sua dolcissima bevanda.
Talvolta a studio e senza sete avere,
per ribaciarlo sol, da ber dimanda,
poi gli urta il braccio o in qualche cosa intoppa,
spande il licore o fa cader la coppa.
Quando torna a portar l'amato paggio
il calice d'umor stillante e greve,
rivolti in prima i cupid'occhi al raggio
de' bei lumi ridenti, egli il riceve
e, col gusto leggier fattone un saggio,
il porge a lui, ma mentr'ei poscia il beve,
di man gliel toglie e le reliquie estreme
cerca nel vaso e beve e bacia insieme.