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GIOVANNI ANDREA DELL’ANGUILLARA, Le Metamorfosi di Ovidio ridotte da Giovanni Andrea dell’Anguillara in ottava rima, Lib. X

 

Bramo cantare anchor l'empie donzelle,

C'hebber d'amore ingiusto accesa l'alma

E de le pene varie atroci, e felle,

Che ne sentì la lor terrena salma.

Hor dal motor principio de le stelle

Dò, che lasciò la patria eterna, et alma,

Per la beltà, che in Ganimede scorse

Mentre un giorno à la Frigia il lume porse.

 

La Dea, che la più bella età governa,

Nel nappo trasparente adamantino

Al Re, che la città regge superna,

Solea il dolce portar celeste vino.

Hor mentre in un convito ella è pincerna,

E che porta il liquor santo, e divino,

Le viene à sdrucciolare un piede, e cade,

E quel nettar celeste empie le strade.

 

E, perche ella era in habito succinta,

Ne la zona contraria in tutto al gielo,

E di seta sottil varia, e dipinta

S'havea coperto il bel corporeo velo;

Da l'aura la gonnella alzata, e vinta

Mostrò le sue vergogne à tutto il cielo.

E de l'alme che stan nel santo regno,

Mosse i giovani à riso, i vecchi à sdegno.

 

Subito l'alto Dio dispon la mente

À far, che 'l vino à lui più non dispense,

Ne vuol, che donna incauta, e negligente

Mostri spettacol tale à le sue mense.

Volge in giù gli occhi quel pensiero ardente,

Dove fra le bellezze humane immensa

Ne vede una atta à star fra gli alti Dei,

E tal, che di beltà non cede à lei.

 

Era in Frigia un garzon bello, et adorno

Troio si nomò il padre, ei Ganimede,

Ch'Ida solea girar sovente intorno

Dietro affrettando à varie belve il piede.

Hor mentre ei dà la caccia al cervo un giorno,

L'occhio del Re del ciel cupido il vede;

Et havea l'eta sua vaga, et illustre

Finito à punto il numero trilustre.

 

Si trovò allhor, che Giove havrebbe eletto

D'essere in quello stante altri, che Giove,

Per appressarsi al suo divino aspetto,

Per rapir le bellezze uniche, e nove.

Già trasformar fra se dispone il petto,

Tanto la sua bellezza il pugne, e move.

Ma spregia ogni altra forma, e sol si serra

Nel forte augel, che i suoi folgori atterra.

 

Subito le grand'ale in aere stese,

E co i mentiti vanni à terra venne.

Con gl'incurvati artigli il garzon prese,

Poi verso il patrio ciel battè le penne,

Come il vecchio custode, e ogn' altro intese

Gli occhi nel forte augel, che in aria il tenne,

Co'l grido in vano al ciel alzò le mani,

Et abbaiaro à l'aria indarno i cani.

 

Passa il rettor del ciel gli Etherei calli

E 'l garzon Frigio entro al suo regno accoglie.

Poi di portargli il nappo il grado dalli,

Et à la nuora sua tal grado toglie.

À mensa egli del vino empie i cristalli

Non senza duol de la celeste moglie.

Pur non biasma il marito, e per l'honore

Non mostra il giel, che le costringe il core.