1553
LODOVICO DOLCE, Le Trasformationi di Ludovico Dolce di novo ristampate e da lui ricorrette et in diversi lochi ampliate con la tavola delle favole, Venetia 1553, Canto XX
Et ei sedendo in mezo a la gran torma
A formar cominciò celeste canto:
Giove (dicea) sarà principio e forma
Di quanto, o Muse e sacro Apollo, io canto.
Tu santa madre mia, mi detta e informa,
Et accompagna la mia lingua in tanto.
Altre volte io cantai del sommo giovedì
Con maggior plettro le terribil prove.
Hora con suon piu dolce e piu sottile
Vo cantare i fanciul, ch'amati foro,
Come obietto più nobile e gentile,
Da i santi Dei del sempiterno coro:
Poi seguitar l'amore infame e vile
Di molte donne, indi le pene loro
Giove principio fia, come richiede,
E glihonor del rapito Ganimede.
Fu Ganimede un giovinetto tale,
Si di beltà, si di gentil ingegno,
Che mai non henne in tutto ‘l mondo uguale,
Ne mai cosa mortal giunse a quel segno,
E se sengue Real s’apprezza e vale,
Era ‘l suo grado a par d’ogn’altro degno;
Che Troa Re de’ Troiani a lui fu padre,
E nacque di Real illustre madre.
Ei di costumi e di virtù s’ornava;
E le doti del corpo uniche e sole
Con quelle de l’ingegno accompagnava
Per farsi degno di sua chiara prole.
Appresso di cacciar si dilettava,
Esercitio, che molo giovar suole;
Tal, che cercava, e discorreva spesso
Le selve, hora da lunge, hora da presso.
Trovossi un giorno il gentil Ganimede
In Ida, e non havea compagno o guida,
Fuor che d’un Can, ch’ovunque volge il piede
Gliè a canto; compagnia secura e fida.
Egli nel monte un bel pratello vede,
Ove par; che tra fior l’herbetta rida,
E questo un fiumicel cerchia inghirlanda,
Che pian piano correa da destra banda.
Era ne la stagion, che ‘l Sol accende
Co’ più cocenti rai campagne e valli.
Ond’egli, che ‘l calor troppo l’offende,
Si dispogliò tra fior vermigli e gialli:
E però, che sospetto alcun non prende,
Entrò ne’ puri e lucidi cristalli.
E rinfrescato alquanto, al vago prato
Fuor de l’acque tornò molle e bagnato.
E senza rivestirsi, in grembo a fiori
A l’ombra d’un bel faggio adormentosse.
Giove mirando da i celesti cori
Vide il bel Ganimede, e inamorosse.
Ne gli parvero in lui gratie minori
Di quanta in Giunon sua bellezza fosse.
E quindi nel suo cor fece disdegno
Di farlo del suo amor amando degno.
Ne gli fu grato di cangiar l’aspetto
Divin con l’altra effigie d’animali,
Che de l’Augel più nobile e perfetto,
Fido ministro de’ fulminei strali;
E di là, dove dormiva il giovinetto,
Ratto volò dal ciel battendo l’ali.
Risvegliossi il fanciullo, e vide quello,
Che venia verso lui, rapace augello.
Gia surto è in piedi, e timido procaccia
Fuggir, ma non sa, dove il calli pigli.
Quel gli cinge con l’ali ambe le braccia.
E stringe ambe le coscie con gliartigli.
Egli si scuote, e la smarrita faccia,
Che somigliava a freschi e bianchi gigli;
Volgeva quà e là, chiamando forte
Aiuto, che via l’Aquila nol porte.
Il Can, ch’altro non puo, fiero latrava,
Vedendo in quel travaglio il suo signore.
L’Aquila il suo bel viso riguardava,
E tutta dimostrava arder d’amore:
E lenta lenta verso ‘l ciel poggiava,
Che la fa tarda l’amorfo ardore.
Infin, trafitta da l’aurato telo,
Con la sua nobil preda giunse in cielo.
La, dove ornato in più degna veste
Provò la bella giovane, che prima
Recar soleagli il Nettare celeste,
E Ganimede a questo honor sublima:
Sol lui degno li par, ch’ogn’hor vi reste,
Tal che quell’altra più non prezza o stima,
Di che poscia Giunon si dolse molto,
E gran tempo mostrò turbato il volto.