2-8 d.C.
OVIDIO, Metamorfosi, X, 148-161
Traduzione da: Publio Ovidio Nasone, Metamorfosi, traduzione a cura di P. Bernardini Marzolla, Einaudi, Torino 1994
“Da Giove, Musa mia madre (tutto s’inchina a Giove sovrano), fai iniziare il mio canto. Già spesso ho detto della potenza di Giove; con solenni accenti ho cantato la storia dei Giganti e dei fulmini vittoriosi scagliati sui campi Flegrèi. Ma ora la lira sia più leggera: cantiamo i fanciulli amati dagli dèi e le fanciulle che arse e stravolte da passioni proibite furono punite dalla loro lussuria. Ci fu una volta che il re degli dei d’infiammò d’amore per il frigio Ganimede, ed ebbe l’idea di trasformarsi in una cosa che una volta tanto, gli parve più bella che essere Giove: un uccello. Ma, fra tutti gli uccelli, non si degnò di trasformarsi che in quello capace di portare i fulmini, le armi sue. Detto fato: battendo l’aria con le false penne, rapì il giovinetto della stirpe di Ilo, che tuttora gli riempie i calici e gli serve il nèttare, con rabbia di Giunone.