Titolo dell'opera: Apollo e Giacinto
Autore: Annibale Carracci
Datazione: 1597-1600
Collocazione: Roma, Palazzo Farnese, Galleria
Committenza: cardinale Odoardo Farnese
Tipologia: dipinto parietale
Tecnica: affresco
Soggetto principale: Giacinto e Apollo
Soggetto secondario:
Personaggi: Apollo, Giacinto
Attributi: lira (Apollo); fiore del giacinto (Giacinto)
Contesto: cielo
Precedenti:
Derivazioni:
Immagini:
Bibliografia: J. R. Martin, The Farnese Gallery, Princeton 1965, pp. 41-42, p. 113;J. Davidson Reid-C. Rohmann, The Oxford Guide to the Classical Mythology, 1300-1990, New York-Oxford 1993, I, p. 582
Annotazioni redazionali: Si tratta di un’iconografia alquanto originale del mito di Giacinto, sia rispetto alle edizioni illustrate del Quattro-Cinquecento delle Metamorfosi di Ovidio, sia rispetto a dipinti precedenti di tale soggetto. Solitamente era stato raffigurato il momento conclusivo dell’episodio, quando Giacinto giace a terra, in fin di vita, ed Apollo, accanto a lui, tenta di sostenerlo. Annibale, invece, ha scelto di presentare il momento immediatamente successivo alla metamorfosi del giovane nel fiore del giacinto che ne preserverà memoria in eterno, in seguito quindi alla morte avvenuta fra le braccia del dio, ed infatti si riconosce qui il fiore del giacinto nella mano destra del giovane che viene portato in cielo da Apollo, caratterizzato dalla lira. Ora, tale conclusione non viene descritta nelle Metamorfosi (X, 162-219), Ovidio, al contrario, inizia il racconto della vicenda di Giacinto dicendo che, se non fosse morto, certamente anche il giovane sarebbe stato portato in cielo da Apollo, come accadde a Ganimede, il cui mito è immediatamente precedente: il che significa che, per amore, Apollo avrebbe reso Giacinto immortale, proprio come fece Giove con Ganimede. Perciò, Annibale, piuttosto che rifarsi direttamente all’originale latino, dovette conoscere, e quindi servirsi dell’Ovidius moralizatus di Petrus Berchorius (Pierre Bersuire), il quale affermava “ipsum phoebus in coelestem florem mutavit” : il riferimento al “fiore celeste” corrisponde perfettamente all’immagine di Giacinto che viene trasportato in cielo da Apollo. Quest’immagine serviva a rappresentare allegoricamente l’anima umana che sale al cielo dopo la morte, e per questo Bersuire parlava di “fiore celeste”. Lo stesso significato, del resto, è stato più volte rintracciato nel mito di Ganimede, che infatti troviamo raffigurato al lato opposto della Galleria, quasi a voler stabilire una corrispondenza diretta. Quindi, non solo i due miti si trovavano in successione nelle Metamorfosi, ma potevano anche celare lo stesso tipo di significato allegorico: per questo il pittore scelse di rendere esplicito questo collegamento utilizzando uno schema compositivo assai simile. Notiamo, infatti, come sia Giacinto che Ganimede abbiano un braccio sollevato (l’uno, quello sinistro di Giacinto, afferrato da Apollo, l’altro, quello sinistro di Ganimede, stretto al collo dell’aquila-Giove), mentre l’altra loro mano afferra un drappo del mantello (Giacinto tiene anche il suo fiore), ed inoltre entrambi rivolgano il capo verso coloro che li hanno afferrati. Si vuole, infine, ricordare come sia stato rintracciato un ulteriore significato nell’affresco di Giacinto: un’allusione alla famiglia Farnese, ed in particolare al cardinal Odoardo Farnese, la cui impresa, creata da Fulvio Orsini, era costituita da tre gigli purpurei. Tale impresa si ricollegava all’emblema della famiglia Farnese, cioè al giglio bianco, e nello stesso tempo alludeva alla nomina al cardinalato di Odoardo, con il colore porpora dei fiori.
Elisa Saviani