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Giovanni Andrea dell’Anguillara, Le Metamorfosi di Ovidio, Venezia 1563 (I ed. 1561), X, ff. 177-178

Hiacinto giuoca à la palla con Apollo, Hiacinto in fiore del suo nome

 

Hor come il padre mio da l’alto scorge

un fanciullo si nobile, e si bello,

la diurna facella a l’hore porge,

e scende a lui vicin per me’ vedello:

Hiacinto de lo Dio biondo s’accorge;

che ’l tempo brameria passar con ello,

e cortese ver lui si mostra, e rende:

e fa, che ’l suo parlar giocondo intende.

 

Quanto più il raggio Apollo in lui tien fiso,

tanto gli par più bello, e più giocondo,

loda il divin suo spirto, ammira il viso,

stupisce del parlar dolce, e facondo.

E lascia dal suo preside diviso

quel tempio, ch’egli ha in Delfo in mezo al mondo

tanto l’alletta il volto, e ’l bel costume

di quel per cui lasciato ha ’l carro, e ’l lume.

 

Cerca co ’l bel garzon d’Eurota il lito,

et ovunque s’invia, gli è sempre appresso,

e danno intrambidui nel nobil sito

di Sparta a gli animai la caccia spesso:

del suo bel lume il mio padre invaghito

si scorda totalmente di se stesso.

Porta le reti, e tiene i cani al varco,

et usa indegnamente il plettro, e l’arco.

 

Quando il corpo del sol vedeano giunto,

dove il meridian fendea la sfera:

dico il meridian, ch’era in quel punto,

nel qual co ’l bel fanciullo lo Dio bion’era,

e che ’l medesimo spatio il giorno à punto,

era lontan da l’alba, e da la sera;

ò notando sen’gian godendo l’onde,

ò godean l’aura à l’ombra de le fronde.

 

Poi ver la sera innanzi al tempo alquanto

Che suol co ’l cibo à l’huom render conforto,

tal volta il piombo, e ’l disco alzavan tanto,

che faceano à le nubi oltraggio, e torto.

Talhor con la racchetta, ove co ’l guanto

palle di cuoio battean per lor diporto,

fin che l’hora venia, che con le cene

brama di ristorar l’avare vene.

 

Un giuoco da racchetta havea Hiacinto,

di ben pensata, e commoda grandezza.

Da quattro muri in quadro egli era cinto,

& tre quadri facean la sua lunghezza.

Di dentro il muro à nero era dipinto,

dal basso fondo à la suprema altezza.

Da due sol lati ’l suo tetto havea giusto,

l’un largo, e corto, e l’altro lungo e angusto.

 

Sendo il Dio ne lo steccato un giorno,

per far co ’l disco, e la racchetta il gioco,

Febo girar fa la racchetta intorno,

e giocan chi di lor sceglier de’ il loco.

Vince il mortale, & ei s’elegge il corno

del mandator, vantaggio a lui non poco.

Poi manda falso a l’avertito Nume,

e la palla, ove và, segue co ’l lume.

 

[…]

 

Havean giocato tanto, che vicino

era d’ogn’uno ò ’l perdire, ò la palma:

& era il pegno tal, che l’huom divino

più tosto eletto havria di perder l’alma:

& era giunto il dì, che il fier destino

dovea disanimar la carnal salma

del miser figlio, ilqual facea gran stima

d’haver la spoglia in quel duello opima.

 

L’ultimo gioco hor và ne la partita,

chi ’l vincerà, n’havrà l’honore, e ’l pegno:

e già se perde il giovane, è finita,

un sol per lui non vantaggioso segno.

Tanto ch’ogn’un di lor canto s’aita,

adopra il pie’, la man, l’occhio, e l’ingegno.

Lo Dio, se vien la palla, in furia dalle:

l’altro pian pian, perche lontan s’avalle.

 

Hor, mentre l’uno, e l’altro studia, e vede,

che d’aversario il voto non adempia;

Apollo con furor la palla fiede,

e fa sdegnarla, e gir superba, & empia.

Mentre il garzon vi và, gli manca un piede,

e del cader ferir sente la tempia

dal disco empio, e crudel, che correa in fretta

a far del suo gran stratio la vendetta.

 

Come l’acceso Dio cader lo scorge,

impallidito il volto almo, e giocondo;

vien morto anch’egli, aiuto in và gli porge:

ch’ei non si può più dir di questo mondo.

D’alzarlo ei cerca pur, indarno sorge,

che ’l collo regger più non può il suo pondo,

anzi, mentre egli alza, e ’l tien sospeso,

inchina il volto, ove il trasporta il peso.

 

Come s’alcun nel passeggiar per l’horto,

se papavero à caso il fusto offende,

vien in breve il suo fior pallido, e smorto,

e ver la pianta sua s’inchina, e pende,

cosi ’l garzon ferito, e mezo morto

al gran dolor, che ’l domina, s’arrende.

Il qual fu ’l più bel fior morendo, langue,

dipinto il suo cor di morte, e sangue.

 

Vorria pur aiutarlo ei, che l’offese,

e pone in opra in van lo studio, e ’l herba,

perché la piaga immedicabil rese

la palla, che ferì troppo superba.

Pur con ogni opra pia grato, e cortese

tutto il tempo, che puote, in vita il serba.

E, poi che l’arte sua più non vi puote,

sfoga l’interno duol con queste note.

 

Tu muori, o mio dolcissimo Hiacinto,

e questo doloroso pugno è stato

che t’ha su ’l fior de’ più begli anni estinto,

e de l’età prescritta a l’huom fraudato.

Io miro il volto tuo di sangue tinto,

e piango la tua morte, e ’l mio peccato.

Nel sangue, che ’l bel volto irriga, e verga,

il mio dolore, e ’l mio delitto alberga.

 

[…]

 

E, s’io co ’l suon de l’ardore, co ’l canto

spiegherò le tue lodi, e la mia doglia;

tu fatto un fiore il mio seguirai pianto

con quel, che scritto sia ne la tua foglia.

Quel tipo verrà ancor, che ’l carnal manto

perdendo prenderà la stessa spoglia

quel forte Aiace, e ’l fior mostrerà scritto

il tuo nome, il tuo pianto, e ’l mio delitto.

 

Mentre con queste note aperte, e vere

Apollo il suo dolor sfoga, e rimembra,

s’allargan le pareti oscure, e nere,

e fan, che ’l gioco un gran giardin rassembra.

Fanno à le mura l’hedere spalliere,

già su l’herba ha il garzon l’estinte membra.

Le travi, e i traviceli insieme vinti,

si forman olmi, e pergolati, e viti.

 

La rete, ch’à traverso era sospesa,

sopra laqual dovea passar la palla,

simile a quella vien, che ’l ragno ha tesa,

per prendervi la mosca, o la farfalla.

La terra, c’havea rossa il sangue resa,

che reggea sopra lei la morta spalla,

ingravida del sangue il proprio chiostro,

poi partorisce un fior di minio, e d’ostro.

 

Il corpo e lo splendor del suo bel viso

tutto entra in quel bel fior simile al giglio,

ma resta in questo sol da lui diviso,

ch’egli è candido fior, questo è vermiglio.

Prima, che torni Apollo al paradiso,

china verso il bel fior la mano, e ’l ciglio,

e ne le foglie sue purpuree, e vive

il dolor di Hiacinto, e ’l suo scrive.

 

Scrisse HIA nel fior de la novella pianta,

nota, ch’è lagrimevole, e funesta.

Non sen’vergogna Sparta, anzi sen’vanta,

ch’ogni anno fa la sua solenne festa.

La quale il nome suo con pompa canta,

e ’l nome di Hiacinthia ancor le resta,

dove nel rinovar la sua memoria

del fanciullo, e del fior si vanta, e gloria.

 

Annotazione di Gioseppe Horologgi alla favola di Giacinto

Giacinto trasformato nel fiore del suo nome da Apollo, ci fa vedere, che la virtù del sole, che si và compartendo ne i semplici la mattina, quando si rallegrano, vedendolo comparire, come quello, che con benignità sua li và purgando della suoverchia humidità della notte, deve esser colta in tempo della sua giovinezza, che è che la non sia, ne troppo morbida per la soverchia humidità, ne meno troppo asciutta per il soverchio ardore de' raggi del sole. Colta dunque a tempo, si trasforma in fiore, che non è altro, che quella parte più purgata, più nobile, e più atta a operare, e far'effetti miracolosi intorno la sanità, che è come un fiore. Rappresenta quivi Anguillara molto vagamente il gioco della racchetta in quella stanza "Un gioco da racchetta havea Hiacinto", come medesimamente rappresenta il giocare fra Apollo e Giacinto nelle seguenti, come si vede fare in molti luoghi e fra gli altri nel regno di Francia.