Giafr03

Ludovico Dolce, Le Trasformationi, Venezia 1553 (II ed.), canto XX, pp. 213-214

 

Havrebbe ancora il bel Giacinto posto

suso nel cielo il mio lucente padre,

se ingiuriosa morte cosi tosto

non disfacea le membra alme e leggiadre.

Ne sei però tu ancor punto discosto

d’esser eterno: che l’antica madre

alhor, che torna la stagion migliore,

ti rinova gentile e vago fiore.

 

Te nobile fanciullo il padre mio

(mio padre Apollo) amò suora ogni cosa

si, che stava d’ Eurota lungo il rio

lasciando Delfo, e la città famosa

di Sparta lo tenea caldo desio.

Sparta gliè città cara e dilettosa:

ne l’arco più, ne la sua cetra prende;

ma teco vien, teco le reti tene.

 

Teco conduce i cani, e teco poggia

per alti monti ad obedirti intento:

teco fanciul si ferma, teco alloggia:

altro non vuol, d’altro non è contento.

Ne lo puo ritardar grandine o pioggia,

ne fiato mai d’impetuoso vento:

e tanto del tuo amore è preso e vinto,

che di continuo è Febo, ove è Giacinto.

 

Tenea il sol gia la metà del cielo:

et era chiaro, e senza nubi il giorno;

quando spogliossi il buon signor di Delo

l’habito altero e riccamente adorno.

Trassesi ancora il leggiadretto velo

il bel Giacinto, che portava intorno:

e si poser del disco a la contesa,

rotonda e larga pietra, ch’assai pesa.

 

Prima Febo il mandò con forza tale,

che parve, che le nubi trappassasse,

e girò molto, come havesse l’ale,

per l’aria, pria ch’a basso ritornasse.

Tocco ’l terren (si come è naturale)

convenne, che da quello ei rimbalzasse;

e percosse la fronte di Giacinto,

che stava per pigliar la palla accinto.

 

Pallide diventar le belle gote,

ne meno diventar quelle del Sole,

che ’l percosso garzon con meste note

raccoglie in braccio, e se ne lagna e duole.

Fece con sughi d’herbe; quanto pote,

che pur sanar la piaga e tenta e vuole.

Ma era immedicabil la ferita:

onde Giacinto abbandonò la vita.

 

Come chi calca violetta o fiore,

a terra il capo languidetta pone,

e perde in poco spatio quel vigore,

che ’l apre, e suol durar breve stagione:

cosi del dio, ch’è pien d’alto onore,

lo smorto e miserabile garzone

appoggiando la testa al manco braccio

l’anima eschala; e resta freddo ghiaccio.

 

Si duole Apollo, che ne i piu verd’anni

moia il piu bel fanciul, ch’habbia mai scorto:

ne poco accresce i suoi gravosi affanni,

che par, che le sue man l’habbiano morto.

E bench’errore e troppo amor condanni,

pur non ne vuol sentir pace o conforto.

E se cangiar potesse anco la sorte,

in vita il torneria con la sua morte.

 

Ma poi, che di cio far non m’è concesso,

(dice) sarai tu meco eternamente;

di te canterò sempre: ogn’hora impresso

ti porterò nel core e ne la mente:

tu sarai fior, con le tue note espresso

fia il mio cordoglio; e verrà parimente

tempo, che un cavalier chiaro e famoso

farà di se l’istesso fior pomposo.

 

E ’l nome serberà ne le sue foglie;

cosi dicendo, il corpo un fior divenne

del piu bell’ostro, che la Tiria accoglie,

e che giamai da quelle parti venne;

ch’in segno de le sue gia piante spoglie

AI scritto in lui con chiare note penne.

Assembra un giglio il fior leggiadro e bello:

fuor, che purpureo è questo, e bianco quello.

 

Febo con le sue man le lettre impresse,

egli l’affanno suo v’hebbe segnato.

Volle, che Sparta ancor gloria n’havesse,

che fosse in quella il bel Giacinto nato:

laquale ordinò poi che si facesse

per honor del fanciul da Febo amato

certa festa solenne, ampia, et eletta;

che fu dal nome suo giacintia detta.