Giovanni Andrea dell’Anguillara, Le Metamorfosi di Ovidio, Venezia 1563 (I ed. 1561), X, f.176
Ciparisso in cipresso
V’andò il funebre ancora alto Cipresso,
che in forma d’obilisco ha l’alta cima
ch’oggi è una pianta, e fu un fanciullo anch’es
e cangiò il volto human non molto prima.
Fu Ciparisso à Cea del ciel concesso
si bel quant’altri mai godè quel clima.
E fu grato a quel Dio, che l’ombre arretra
ch’opra si bene hor l’arco, hor la cetra.
Un cervo già ne l’isola di Cea
d’oro il forbito alzò ramoso corno
sacro à la bella Priada, à la Napea,
a cui la detta patria era soggiorno.
E la montana, e la silvestre Dea
gli havean d’un bel monile il collo adorno:
gli ornar l’orecchie ancor di perle, e d’oro
con raro, e sottilissimo lavoro.
D’un bel gemmato cor gli ornar la fronte,
da bei legami d’or sospeso, e stretto.
Né sol correa sicuro il piano, e ’l monte,
ma già per la città senza sospetto.
Solea prender da ogn’uno il cibo, e ’l fonte,
ogn’un potea palpargli ’l collo, e ’l petto.
Al cenno di ciascun solea gir presso
et ad ogni stranier creder se stesso.
Ma più di tutti gli altri era a te grato
leggiadro Ciparisso adorno e bello.
Tu ’l menavi hora al fonte et hor al prato,
et hora al cibo human nel patrio hostello.
Tu di fiori, e ghirlande il volto ornato
talhora al tergo suo premevi il vello:
in fatto cavalier sopra il suo dorso
con fren di seta à lui reggevi il corso.
Nel tempo era, che ’l Sole al cancro ardea
col più cocente ardor le curve braccia
e l’ombra de le case à punto havea
dritto à settentrion volta la faccia;
e ’l cervo al fresco à l’ombra si giacea,
e ’l bel garzon di lui seguiva la traccia;
quando ad un’alto faggio alzando il lume
vi scorse un grande augel posar le piume.
L’arco allentato curva, e ’l nervo tira
tanto alto , che le tacche al legno afferra.
Lo strale incocca, e poi prende la mira
là , ve fra l’ali sul l’augel si serra.
Fa poi, che ’l pugno manco al ciel aspira
e ’l destro tira il nervo in ver la terra.
Vola a ferir l’ambitioso telo,
fugge l’augel, và il dardo irato al cielo.
Co ’l moto violento la saetta
va tanto verso il ciel, che non si vede.
Il moto natural poi giù l’affretta
a quietar ne la terrena sede:
e, dove l’ombra il miser cervo alletta,
cade con furia à piombo, e ’n parte il fiede,
che ’l misero mortal ne geme, e longe,
e ’n breve manda fuor l’alma col sangue.
Tosto che Ciparisso il dardo scorge
cader su ’l miser cervo, aspro, e mortale
e dela morte subito s’accorge,
c’ha dato al viver suo l’iniquo strale,
in preda al pianto misero si porge,
et à le strida al ciel fa batter l’ale.
Febo il consola, e prova, ch’un vil danno
non merta tanto duol, né tanto affanno.
Pur ogni suo argomento, ogni conforto
è scarsa medicina al duolo interno,
piange abbracciando spesso il corpo morto,
poi manda questi preghi al ciel superno:
poi ch’io fei del mio strale al cervo torto,
fa, Re del cielo, il mio lamento eterno.
Gli cangian gli altri Dei la carnal soma,
e fan, ch’egli alza al ciel l’horrida chioma.
Con la radice al suolo il piè s’apprende,
e ’l busto tondo vien dritto, et acuto.
Altissima la cima al cielo ascende,
col sempre verde crin, folto, et hirsuto.
Tosto, che ’l biondo Dio gli occhi v’intende,
gli dà piangendo l’ultimo saluto.
Piangerai gli altri poi (dice) altrettanto
essendo ogn’hor presente al duolo, e al pianto.
Annotazione di Gioseppe Horologgi alla favola di Ciparisso
La trasformatione del giovane dolente per la morte del suo amatissimo cervo in cipresso arbore, che significa pianto, e doglia, de’più cari amici, e parenti, perche gli antichi erano accostumati a ornare de’rami di quest’arbore le sepolture de i morti, che vivendo gli erano carissimi. Ci dà essempio che non dobbiamo giamai porre tanto amore nelle cose mortali, che poi quando le ci mancano, a viva forza tutto il rimanente della vita nostra sia un’essempio di un amarissimo cordoglio a tutti quelli, che ci veggono così, non senza loro grandissima maraviglia, come ancora non senza grandissimo danno nostro.