Ludovico Dolce, Le Trasformationi, Venezia 1553 (II ed.), canto XIX (p. 211)
[…]
V’andò il cipresso, in cui fiero destino
cangiò poc’anzi un giovanetto raro;
ilqual non solo era ad Apollo grato,
ma fu da lui sopra ogni cosa amato.
Ciparisso nomavasi il garzone,
l’havea divin piu che mortale aspetto.
Amava un cervo, senza paragone
bello e di gran statura, il giovinetto:
le cui corna poteano a più persone
servir in vece di un gentil boschetto:
ch’ambe porgevan’ombra di lontano,
o ch’egli fosse in monte, o in largo piano.
Quelle il bel Ciparisso ornava d’oro
e il suo collo d’un cinto havea legato,
formato di sottil ricco lavoro
ch’era di varie gemme ricamato:
questo cinto valea molto thesoro,
perche Apollo al garzon l’havea donato.
Legò a la fronte d’oro schietto un core
con lettre, che dicean, dono d’amore.
Due grosse perle orientali appresso
da gliorecchi pendean d’immenso prezzo.
Domestico era il cervo, e girne spesso
senza spavento a l’altrui case avezzo:
ma tale amor nelgiovene havea messo,
ch’ogni altro al far di lui gliera in disprezzo,
e parea, che senz’esso non volesse,
ne volendo, un sol dì viver potesse.
Stava con Ciparisso, ei lo menava
sovente a qualche fonte a pascer l’herba:
hor messogli un bel fren lo cavalcava,
et ei giva con fronte alta e superba.
Tanto dunque il garzon quel cervo amava,
che senza gli parea la vita acerba.
Di vari fior lo coronava spesso,
e spesso a cui s’addormentava appresso.
Avvenne un dì, quando più luce il sole,
e più il caldo le campagne ingombra,
che ’l cervo, che di altrui temer non suole,
giacea d’un’alta quercia a la fresc’ombra.
Il garzon, che le selve apprezza e cole,
e i colti campi e le cittadi sgombra,
mentre poco prudente affisa il guardo;
il caro cervo suo ferì col dardo.
E vedendol morir, prese dolore
de la sua morte cosi grave e tanto,
che bramò anch’egli uscir di vita fuore,
e chiuder gli occhi al suo bel cervo a canto.
Febo conforta il semplicetto core;
ma ’l fanciul chiede a i dei continuo pianto:
dimanda di poter pianger mai sempre,
senza che ’l suo dolor freni e contempre.
Era molta pietade a veder quivi
lui, che pace non vuol, non vuol conforto,
far ostinato de begliocchi rivi
piangendo dicontinuo il cervo morto:
e ’l piu chiaro, e ’l piu bel di tutti i divi
dolersi, e ’l viso haver pallido e smorto;
che non sa trovar cosa si gioconda,
che del perpetuo pianto affreni l’onda.
Ma ’l sangue in pianto al fin tutto stillato,
le membra in color verde si mutaro;
e i capei, che ondeggiavan d’ogni lato,
preser durezza, et aspri diventaro:
indi con modo novo e disusato
tutti verso del ciel dritti s’alzaro.
Ah (Febo disse), e tu da me sarai
pianto, et altri mai sempre piangerai.