1561
GIOVANNI ANDREA DELL’ANGUILLARA, Le Metamorfosi di Ovidio ridotte in ottava rima, VIII, Venezia
Fu Meleagro il giovinetto alter
Figlio d’Eneo nomato il qual s’accinse
Per tor di vita il mostro horrendo, e fero
E l’Achea nobiltà tutta vi spinse,
Ogni famoso in Grecia cavaliero
Contra il mostro infelice il ferro strinse,
Fra quali andò quel, che si fè bifolco
Alhor, che tolse il vello, e l’oro a Colco.
Il gemino valor, ch’oggi in ciel luce
Dal zelo de l’honor svaso e spinto.
Vi corse, io dico Castore e Polluce
Peritoo anchor di vero amore avinto,
A qullo intuitto, e glorioso Duce,
Che superò l’error del laberinto.
L’altier Leucippo, e Acasto il fier vi venne,
Ch’al tratar del dardi il primo loco ottenne
Il Signor dela caccia anchor vi chiede
Plesippo il forte, e’l suo fratel Toffeo.
Et Ida altier del suo veloce piede
E’l fier Linceo, che nacque d’Afareo,
E quello, al qual un’altra forma diede
Nettuno già donzella, e hor Ceneo.
Quel dio la trasse al coniugal rastullo
E’n ricompensa poi la fe fanciullo.
Ecco vi giugno Hippotoo con Driante,
E con Fenice a questa impresa arride,
Volse a questo camin con lor le piante
Menetio, e Fileo, il qual nacque in Elide;
E con Ameto l’Iolao Hiante,
E da la moglie ancor sicuro Eclide,
Eurithion vi fe di poi tragitto,
con Echion che fu nel corso invitto.
Non men Lelege, e Hileo drizzan la Fronte
Per riparara a’ Calidonij danni,
Et Hippalo, e Anceo dal Licio monte
Corre a provar, come il Cinghiale azzani
E Panopeo co i due d’Hipocoonte
Figli, e’l saggio Nestor ne’ suoi prim’anni
Laerte, e Mopso, e poi con altri mille
Telamon giunse, e’l gran padre d’Achille
Al fin la bellavergine Atalanta
Desio d’honore a questa impresa accende,
Veste succinta, e lucida l’ammanta
Che di varii color tutta risplende.
Vien con maniera in un gioconda, e santa
Et in favor del Re si mostra e rende,
L’arco, e l’andar permette, e’l bello aspetto
In giovinil valore alto intelletto.
Se ben la vista ell’ha vergine e bella
Non l’ha del tutto molle, e femminile,
Ma ogni sua parte fuor che la favella,
par d’un fanciullo ingenuo almo, e gentile.
Nel volto impresso, par d’una donzella
Narciso il bel nel suo più verde Aprile:
Rassembra a tutti un natural Narciso,
ch’impressa una donzella habbia nel viso Scheneo.
Scheneo diè già questa fanciulla al mondo
Tre lustri pria ne la città Tegea.
Come vede quel viso almo, e giocondo
Il figlio altier de la crudele Altea,
Sente passar per glio occhi al cor profondo
La fiamma del figliuol di Cithaìerea,
Ben potrà, dice, quei lodar sua sorte
S’ella alcun degnerà farli consorte.
Ma l’opra ove l’honor lo sprona, espinge
Dal suo maggior piacer l’invola svia.
Contra il crudo nemico il ferro stringe
E per diversi cassi onun v’invia.
Torna d’intorno una gran selva cinge:
Ch’eletta per sua stanza il verre havia:
De l’empia tana sua tengon le chiavi
Le folte spine, e l’elevate travi.
L’antica selva infino al ciel s’estolle
Et una larga valle asconde, e chiude.
La pioggia c’ha da questo, e da quello colle,
Vi conserva nel mezzo una palude.
La dove il giunco delicato, e molle
Forma le erghe sue di fronde ignude.
Quiui fra falci, e fra palustri canne
Stavano alhor l’indiose zanne.
Poi c’han la selva cinta d’ogni intorno
Gli uniti cacciatori arditi, e accorti,
Altri ripon fra l’uno e l’altro corno
De la bicorne forca i lini attorti.
Altri cerca coi can, dove foggiarno
Facciano i denti ingiuriosi, e forti.
Altri cerca al suo honore altro consiglio
E brama di trovare il suo periglio.
Segue chion con molti altri la traccia
De’ bracchi, che n’ha già l’odor sentito
E fra i più folti pini si spinge e caccia
Tanto che giugne al paludoso lito:
Et ecco geme un can, la’ltra e minaccia
Poi da molti altri è il suo gemer seguito
Tanto che’l gran baiar lor fede acquista,
che l’empia belua han già trovata, e vista tolto
Tosto che i cani ingiuriosi, e fidi
Indicio dan de la trovata belva,
Si senton mille corni, e mille stridi
In un tratto assodar tutta la selva,
Da tutti i lati a’ paludosi lidi
Si corre, e verso il erre ognu’un s’inselva
E già di can si grosso stuolo e giunto
Che d’ogni lato è minacciato, e punto
Come ei vede de’ cani il crudo assedio,
E tante d’ogni intorno armatemani,
E sente i gridi, i corni, i morsi, e’l tedio
Di tanti, che intorno ha, feroci alani,
Ricorre a l’ira, e al solito rimedio
E altero investe huomini, earme, e cani:
Et empio, e fello trasformali lassa
Contra ogn’un, che ver lui li spiedo abbassa.
Corre a l’irreparabile vendetta
Con tal furor lo spaventoso mostro.
Che sembra ilfoco, il tuono e la saetta
Che corra in un balen l’ethereo chiostro,
Quando a cacciare i nuvoli s’affretta
Da un lato l’Aquilon da l’altro l’Ostro:
Esce de’ nembi il foco, e fiere e stride
Colì vola il Cinghial, freme, e uccide.
Crucciato hor quindi adopra il dente
Nel cane, e ne l’acciar lucido,e bianco
Ferito un veltro là gemer si sente
E va leccando l’impiagato fianco.
Quel mattin tutto aperto fa un torrente
Di sangue e giace, e geme viensi manco
Si vede l’huom, che s’assaltò col ferro
Ferito, e l’acciar torto e rotto il cerro.
Mentre correndo il porco a cani atterra
E’l bosco risonar fa d’altre strida,
Trassi Echion da parte, e’l dardo afferra
E’l manda in aria, acciò che’l mostro uccida
Ma troppo in alto l’hasta da sferra
E passa sopra il perfido homicida;
D’acero dopo incontra un grosso piede
E’n vece del nemico un tronco siede l’istesso.
L’istesso avenne al guerrir di Thessaglia
A quel, ch’al mar mostrò la prima nave:
Dal forte braccio impetuso scaglia
Un dardo piu mortifero e piu grave:
Forniva con quel colpo la battaglia
Se più basso feria ‘acuta trave:
Palsò di là dal porco empio e selvaggio
Infino a le medolle un grosso faggio.
Moplo figliuol d’Ampico, e Sacerdoste
D’Apollo al ciel la voce alza, e l’aspetto;
Febo, se l’hostie mie sante, e devote
Commosser unqua il tuo pietoso affetto
Concedi a queste mie suppliche note,
Ch’io primo impiaghi a l’inimico il petto
Dar cerca al prego effetto il chiaro Nume
Ma v’è chi troncaal suo desir le piume.
Come ha incoccato il Sacerdote il dardo
E c’ha ben presa al suo ferir la mira.
Quanto può stende ilbraccio men gagliardo
E più che può, col destro il nervo tira
Lo stral del divin folgore men tardo
Volando freme, e a la sua gloria aspira:
Ma tolse nel valor la dea di Delo
L’acuto ferro a l’innocente telo
Lo stral senza la punta il mostro giunge,
Per torgli l’alma, e haverne il premio crede
Egli da ne la fronte, ma no’l punge
Che quel gli manca, onde forando siede.
S’accresce l’ira al porco, e poco lunge
Eupalamon con più compagni vede.
Che fermi al varco stan co i ferri bassi,
Perche il nemico lor quindi non passi.
Ne’ lumi del Cinghiale arde e risplende
L’ira, e dal cor profondo assala il foco.
Già contra i forti spiedi il corso stende,
Fremendo con grugnir superbo e roco.
Et in un tempo istesso e offeso, e offende,
e al fin (mal grado lor) guadagna il loco.
E la lor forza a tanto honore imbelle
Nè può il ferro passar la dura pelle.
Le zanne altero arruota, e d’ira freme,
e manda Eupalamon ferito in terra,
Poi fa, che Pelagon talmente geme,
Che non ha piu a temer de la sua guerra
Lo stesso horrore e stratio il figlio teme
D’Hippocoonte, e al corso si disserra;
Larriva il mostro, e’l punge nel tallone,
Emanda l’alma sua sciolta a Plutone.
Se non havea Nestor l’occhio suo scampo
Non havria il terzo mai fecondo scorto
Non vedea mai d’intorno a Troia il campo
Ma rimaneva in quella selva morto.
Andò il mostro crudel menando vampo
Contra Nestor fin da fanciullo accorto,
Ma saltò sopra un gran troncone a tempo
Per non far torto al suo presiso tempo
E ben a tempo vi di trovò sopra,
Ch giunt il mostro il guarda empio, e siforza
Di fargli ancora oltraggio, e irato adopra
il dente altier ne l’innocente.
Veduto poi, ch’ei perde il tempo e l’opra
Riuolge contra a can l’ira, e la forza,
che gli son sempre al fianco, ma si lunge
che l’infelice zanna non vi aggiunge.
Impetuoso il fier Cinghial gli assale,
E questo e quel mendentro azzanna e uccide
Infinito è il languor, ch’in aria sale
Di questo, e di quel can, che geme, e stride:
con lo spiedo altre volte empio, e imortale
Orithia và ver le zanne homicide.
Ribatte il colpo il proco empio, e selvaggio
E toglie al forte pugno il ferro, e’l faggio.
Corre poi sopra il suo nemico, e’l parte
Co’l dente altier da’ genitali al petto:
E gli fa saltar fuor l’intera parte
E morto il dona al sanguinaoso letto.
I due fratelli, che fra Mercurio e martedì
Non haveano ancor il trasformato aspetto
Gli era con l’hasta in man tremuli a’fianchi
Su due destrier, via piu che neve bianchi.
E farian forte stati i primi a torre,
La vita, o almeno il sangue al mostro altero
Ma il folto bosco, ove il caval lor corre,
A l’hasta, eal corso lor rompe il sentiero.
Disposto è in tutto Telamon diporre
Il mostro in terra, e corre ardito, e fero.
Ma dà d’intoppo in un troncon coperto
E cade, e perde il desiato merto.
Ch’in quel che Peleo il vuol alzar da terra
La vergine Atalanta un dardo incocca;
El’arco incurva, e poi la man riserra
E fan nel nervo libera la cocca
L’abitioso stral come si sferra
Conosce ben, ch’in van l’arco con scocca;
E certo di ferir batte le piume,
e toglie il sangue a l’inimico lume.
Il mostro, che forar si sente il ciglio
Per la doglia improvisa il capo scuote,
s’aggira, e si dibatte, nè consiglio
da gittar via lo stral ritrovar puote.
La vergine, che vede il pel vermiglio
E girarsi il Cinghial con spesse ruote
Gode, che l’arma sua primiera colse
E prima al crudo verre il sangue tolse.
Nè men s’allegra il giovane signore
Di Calidonia, che primier s’accorde:
e mostrò primoil virginal valore
a suoi compagni, e’l sangue, che fuor corse.
Ben n’havrai (disse) il meritato honore
Vedrai, ch’indarno il ciel qua non ti scorse
Vermiglio a molti il volto inuitto rese,
Poi tutti al periglioso assalto accese.
Si fan l’un l’altro core e innanzi vanno
Contra la belva insidiosa, e truce,
e tutti al corpo suo cercan far danno
da quella parte, ove perdè la luce.
Nè però strada anhcor ritrovar fanno
Da tor per sempre a lui l’aura, e la luce.
Percorron mille strai l’hirsuta veste
Ma l’un l’altro impedisce, e non investe.
Ecco contra il suo fato corso affretta
il glorioso e infelice Alceo,
E con ambe le mani alza un’accetta,
e s’avicina al mostro horrendo, e reo.
Questa fara ben meglio la vendetta
Dice, che’l dardo virginal non feo:
Stato a veder fe con quest’arme il’l dono
E se val piu d’una donzella un uomo.
S’opponga pur Diana co’l suo scudo,
difendalo se può da la mia forza
c’hor hora il fo restar de l’alma ignudo
e acquisto al mio valor l’hirsuta scorza,
Hor menre di calare il colpo crudo
Co’l suo maggior potere Alceo si sforza,
Il porco contra lui si spinge e serra
E fa cadere in van la scure in terra.
Co’l curvo dente in quella parte il fende
Che’l core, e i membri interni asconde e copre
La piaga l’infelice in terra stende
E le parti secrete allarga e scopre
Hor mentre ch’a quel Dio l’anima rende
Che suol giudicio far de la nostre opere:
Peritoo o vuol che’l porco empio l’azzanni
O si vuol vendicare di tanti danni.
Con l’hasta tridentata affretta il corso,
dove s’è fatto forte il suo nemico:
ma tosto pone al suo furore il morso
Teseo suo vero, e cordiale amico
Dov’è gito (gli dice) il tuo discorso?
Hai tu perduto il tuo consiglio antico?
Non dee l’huom forte mai perder duelloro
Con animal di lui più forte e fello.
L’huom saggio dee (quanto vuol gagliardo)
Simul fere domar col proprio ingegno
Con l’huom convien che non sia codardo
Se vuol salvare o guadagnare un regno.
Mentre che’l persuaede,a umenta un dardo
Che giunse a punto al destinato segno.
Ma non ferì il Cinghial, che d’ira acceso
Havea contra un gran veltro il corso perso.
Gli salta il veltro intorno, e’l mostro fero
Ouunque il can si volge, il capo gira.
L’ardito intento, e forte cavaliero
De la prudente Athene un dardo tira;
E dato al segno destinato, e vero
Havrebbe, l’occhio havea persa la mira;
Ma il can s’oppose enquel, che braccio sciolse
E salvò a lui la vita,e a se la tolse.
L’ardito Meleagro havea più volte
Cercato d’investir, ma sempre invano.
Il mot del Cinghial, le piante folte
Sempre in van fergli uscir l’arme di mano
Due diverse arme ultimamente tolte,
La prima vuol, ch’inveta di lontano.
Ubidisce ella, e forza, e prende albergo
Nel suo pur dianzi inviolabiltergo.
Quando ei vide al Cinghial vermiglio il dosso,
E che punto dal duol s’aggira, e scuote,
con l’altra arma, c’ha in man, gli corre adoso
E la siistra parte gli percote.
Passa a il superbo acciar la carne, e l’osso,
Nè il coraggioso cor risister puote.
Il porco, mentre può, si duole, e langue:
Poi cade, e manda fuor la vita, e’l sangue.
Ogn’un con le parole, e con le ciglia
De le sua lodi al vincitor compiace.
Ogn’un s’allegra, e ogn’un si maraviglia
De l’anima, ch’intanta terra giace.
Anchor temon toccarlo, pur vermiglia
Sicuro al fin ciascun l’arme sua face.
Ogn’un, se ben non ha la fera estinta,
Brama del sangue suo l’arme haver tinta
Ma più d’on’altro al vincitor dà lode
La gratiosa vergine Atalanta.
L’acceso amante, che la mira, e ch’ode
La soave parola accorta, e santa,
Mentre stupito la vagheggia, e gode,
Pon su’l capo al cinhial del piè la pianta,
e con grata favella, e dolce vista
sola sua diva allegra, e gli altri attista.
Poi ch’è piaciuto a le supreme Stelle
Didare effetto al mio nobil pensiero,
si denno àme queste honorate, e belle
spoglie, che fede poi faran del vero,
io dico del cinghial l’hirsuta pelle
col capo anchor de le sue zanne altero;
Pur perche il dardo tuo l’impiegò pria,
Vo’ teco compartir la gloria mia.
Subito fa levar l’horrida spoglia,
E dandola col capo à la sua diva,
D’allegrezza è pie lei, d’invidia, e dogia
Gli altri di Calidonia, che ne priva.
Dispiace à tutto il suo popol, che voglia
Del bel Trofeo la sua patria nativa
Spogliar, per darlo à la Nonacria parte,
che non havea ne la vittoria parte.
Disse Plesippo à lei, ch’un de’ fratelli
Era d’Altea, di Meleagro madre ;
Non ti pensar de le honorate pelli
Le mura ornar del tuo Nonacrio padre.
Non creder, ben ch’i tuoi lucenti, e belli
Lumi con le fattezze alme, e leggiadre
Habbian del mio nipote acceso il core,
Privar la patria ia di tanto honore.
E contra i servi con gran furia vane
De l’innocente giovane Tegea,
Che cura havean de le dannose zanne
Donate à lei dal gran figliuol d’Altea::
Le toglie lor per forza, e cura danne
Al suo fratel Tosseo, ch’appresso havea.
Per vendicar la vergine quell’onta
Stringe la spada, e’l suo nemico affronta.
Ma Meleagro altier, che’l tutto scorse,
La consanguinità posta in oblio,
vinto da l’ira minacciando corse,
A con lo spiedo ingiusto uccise lo zio,
Poi del fratel più giovane s’accorse,
che contra gli venia crudele, e rio,
E fatto in tutto di pietà rubello,
Lo stese morto appresso al suo fratello.
Intanto Altea, che la vittoria intesa
Del figlio havea contra il nefando mostro
Al tempo và di santo zelo accesa
Col grato don di geme ornato, e d’ostro
Et ode per la via, quanto l’ha offesa
Quel, ch’ella già portò nel carna chiostro
Intende, che’l figliuol da l’ira vinto
Ha l’uno, e l’altro suo fratello estinto.
Compare in questo la bara funebre
Per gli occhi suoi troppo infelice obiettivo
Subito ella alza il grido muliebre,
Si straccia i crini, e si percuote il petto.
Le donne sue come insensate, e ebre
Mostran vinte dal duol l’interno affetto
Subito gittan via le vesti allegre,
E cangian le dorate in gonne negre.
La madre un pezzo si consuma, e piange,
Come il fraterno amor ricerca, e vuole,
E si graffia le gotte, e’l capel frange,
E v’accompagna i gridi, e le parole.
Da l’ira vinta poi forza e, che cange
Il pianto in quel desio, ch’accender suole
Gl’irati à vendetta, in quel desio,
ch’ogni più santo amor manda in oblio.
Vestito ch’ebbe Altea del carnal manto
Quel figlio, c’hor gli a fatto il doppio scorno
Pregò le dee con verso humil, e santo,
che volgon de le vite il fuso intorno,
che le dovesser far palese, quanto
Il suo picciol figliuolo godrebbe il giorno.
Venner le tre sorelle al prego giusto,
E poser su le fiamme un verde arbusto.
Volgendo il fuso poi l’aura palma
Disser. Tu, ch’oggi sei comparso al lume,
Sappi, che dal tuo petto uscirà l’alma
Tosto, che’l foco il ramo arda, a consume.
Tornar poi ne la patria eletta, e alma
Le Parche, e presta Altea lasciò le piume
E con le mani inferme il tizzo strinse,
E poi d’acqua lo sparsa, e’l foco estinse.
E come accorta ascose il fatal legno
Per conservando in un secreto loco.
Non era in tutto il Calidonio regno
Parte, che men temer dovesse il foco,
Hor si s’avia in lei l’ira, e lo sdegno,
che vi può la pietà materna poco.
Trova l’ascoso muro, e fuor ne tira
Il ramo, e accender fa l’infame pira.
L’hasta al foco vuol dar, che l’alma chiede
Del figlio, ch’i fratei mandò sotterra,
Perche le membra sue di spirto ignude
Restino, e vengan poi cenere, e terra.
Tre volte con le man profane, e crude
Per gittarlo nel foco il ramo afferra,
E tre volte le vieta opra si indegna
Qualche poco d’amor, ch’ancor vi regna
Albergano la madre, e la sorella
Due diverse persone in un soggetto,
E muovono in un core hor questa, hor quella
Quando il più pio, quando il più crudo affetto
Et hor la voglia santa, hor la rubella
Cerca di dominare il dubbio petto.
Il core hor l’homicidio aprova, hor vieta,
Secondo vince in lui l’ira, ò la pietà.
Spesso il timor del suo futuro errore
Le fa di neve diventar la fronte:
Lapiangon poi di sangue, e di furore
L’incrudelito cor, gli sdegni, el’onte.
Se’l pianto seco vien dal troppo ardore,
Sorge si vede poi novella fonte.
Le pigne il viso hor l’odio, hor il cordoglio
Questo d’affetto poi, quello d’orgoglio.
Come talhor se la corrente, e’l vento
Fan tra lor guerra à l’agitata nave:
Pria cede il legno à l’onda, e in un momento
S’arrende à la procella, ch’è più grave:
E in breve tempo cento volte, e cento
Hor l’onda, hor l’aura in suo dominio l’ave
Tal de l’afflitta Altea l’ambiguo ingegno
Hor vinta è da la pietà, hor da lo sdegno.
Al fin la voglia più maluagia e ria
Con più vigor le domina la mente,
Et empia vien per voler esser pia,
E placar de’ fratei le membra spente.
Già l’affetto materno in tutto oblia,
Et èmiglior sorella, che parente.
Hor come vede il foco andare al cielo,
così à la mente sua discopre il velo.
Poi ch’arsi i miei fratei da questo foco
Saranno, e ch’io vedrò cenere farne,
S’io posso il reo por nel medesmo loco,
Non debbo già senza uendetta andarne.
Dunque sia ben, se per placargli un poco,
Fò parte al rogo lor di quella carne,
Che quello spirito rio nasconde e chiude,
Ch’ebbe contra di lor le man si crude,
E con quel, c’havea in man, celeste ramo
Si volse à funerali alteri, e disse:
Voi tre Dee de le pene eterne chiamo,
C’havete da punir le nostre risse,
Mentre l’inique essequie spedir bramo,
Tenete alquanto in me le luci fisse:
E’ data à la mia mano ardire, e forza,
Che doni à i fochi rei la fatal scorza.
Fate me inferne Dee si ardita, e forte,
ch’al foco ardisca dar la carne propria,
Che con la morte io vo’ placar la morte,
Et à l’essequie far d’essequie copia:
E poi che’l dà La mia perversa sorte,
Non voglio al fallo far fallo inopia.
Per mille pianti raddoppiati, e mille
Questa fiamma crudel vo’, che sfaville.
Adunque il Re di Calidonio altero
De li vittoria andrà del crudo figlio?
E Testio il padre mio con manto nero
Basso havrà sempre, e lagrimoso il ciglio
Meglio è, che l’uno, e l’altro provi il fero
De la sorte crudel funebre artiglio,
E vadan ambedui colmi di pianto
Havendo afflitto il core, oscuro il manto.
Hor voipur dianzi dal mortal sostegno
Sciol’anime prendete il buon desio,
L’esseque, che ui compra hoggi il mio sdegno
Col sangue, e non con l’or del figliuol mio.
Ecco del ventre mio l’iniquo pegno,
La materna pietà posta in oblio.
Per la troppa barbarie, ch’in lui scorgo,
A divorare a queste io porgo.
Oime dunque aurò il cor tanto inhumano?
Dove mi lascio trasportar da l’ira?
Perdonate fratelli à la mia mano,
Se da cotanta infamia si ritira.
Ben sà, ch’l face il suo delitto insano
Degno di perder l’aura, on’ei rispira:
Ma non le par ragion, nè giusta voglia
Ch’io, che diedi al mondo, al mondo toglia
Dunque ei tanto error se n’andrà sciolto?
E senza i miei fratei godrà la luce?
Per la vittoria tumido nel volto?
Peresser sol di Calidonia Duce?
E’l corpo vostro hor hor sarà sepolto
Nel rogo, che per voi s’accende, e luce?
E voi per cui lo ciel più non si volve,
Giacerete fred’ombre, e poca polve?
Nò, muora pur lo scelerato, e cieco,
Muora per man de l’infelice madre,
E la ruina de la patria seco
Tiri, con la speranza alta del padre.
Vada pur a goder lo Stigio speco,
Et lasci il regno in vesti oscure, e adre.
Misera, che vuoi far? Chi ti trasporta?
La materna pietà dunque è in te morta?
Dunque empia madre à mente non ti torna,
Quanto per lui sofferto il tuo seno have?
Chenove molte rinovò le corna
Delia, mentre egli il sen ti fece grave.
Dunque da tanto mal non ti distorna
L’età sua pueril, già si soave?
Dunque il tuo cor colui d’arder non teme
In cui del regno suo fondoò la speme?
Piacesse à gli alti Dei, che ne’ primi anni,
Quando questo troncon fu dato al foco,
Viston havessi di te gli ultimi danni
Quei, che temo vedere in questo loco.
Che lasciato havess’io battere i vanni
Al lume, che n’avea già roso un poco.
Tuivi per mio don, ch’io l’ho sofferto:
Ma muori, se morrai, per lo tuo merto.
L’alma havesti da me la prima volta,
Quando col parto mio t’offersi al lume:
L’altra quando fu poi la verga tolta
Al foco, a ch’io lasciai per te le piume.
Hor se l’alma io ti toglio, evo, che sciolta
Dal suo mortal vada al tartareo fiume;
Se tu se ingrato; ingiusta io già non sono,
Se l’havesti da me due volte in dono.
Rendi homai disse l’anima, rendi,
E tu Parca crudel tronca lo stame.
Ah madre iniqua, e ria, che fare intendi?
Vuoi diventar per tal vendetta infame?
Non vedi tu, quanto te stessa offendi
Se sciogli al figlio il suo vital legame?
Misera il vego, a quanto è il mio cordoglio
Che vo’, non posso, e poi posso, e non voglio.
Pria le fraterne piaghe, e l’empia morte
Si sanno innanzi al mio vedere intorno,
E l’ira in me risuscitansi forte,
Che vuol, ch’io doni il mio figlio a l’inferno
Ma rende al rio pensier la man non forte
De l’infamia il timor, l’amor materno:
E mentre dice ogn’un le ragio sue,
Fo mi consumi, e niuomi intra due.
Ma voi per maggior mia noia, e tormento
Cari fratei n’havrete al fin la palma,
E for se havrò dapoi tant’ardimento,
Ch’anch’io lasciar vorrò l’humana salma.
Per far ognu’un di voi di me contento
Vo’ far, che segua voi la sua trist’alma.
Con questo dir volse a le fiamme il tergo,
E diede in mezzo al foco al tizzon albergo.
O diede, ò parve pur, che per la doglia
Sentendo il foco un strido il rao, desse,
Ma la fiamma empia fè contra sua voglia,
Poi che non potè far che non l’ardesse.
Sentì il figlio d’Eneo l’humana spoglia
(Benche lontan da quelle fiamme stesse)
Ardere, e sentì anchor l’internopetto
Esser da foco occulto arso, e infetto.
Non sà gia la cagion del troppo ardente
Dolor, che dentro gli consuma il core;
Pur col valer de l’animosamente
Si sforza superar l’aspro dolore.
S’attrista bene assai, che sì vilmente
Senza far guerra, e senza sangua more.
Alceo chiama felice, e ogni altro Duce,
Cui tolse il rio Cinghial l’aura, e la luce.
Chiama vinto dal duolo’il padre antico,
Ogni fratello chiama, ogni sorella,
La compagna del letto, il fido amico,
E più d’og’un la madre ingiusta, e fessa.
Il foco ad ambedui crudo nemico
Distrugge Meleagro, e la facella
E del ramo, e de l’huom fu il viver certo,
Ch’un restò poca polve, e l’altro morto.
Giace l’antica città, piangon le mura;
Versan le torri altere in copia il pianto,
La giovenile età, l’età matura,
La nobiltà, la plebe hà nero il manto.
De le donne piu pie la turba oscura
Fa gir le strida al regno eterno, e santo:
Batton le mani, e’l sen, straccian le chome
Chiamando spesso invan l’amato nome.
Il vecchio Re con grido afflitto, e lasso
Biasma i troppi anni sui, sua trista sorte,
Che deve un suo figliuol chiuder nel sasso
Ch’era in si verde età si saggio, e forte.
Altea, ch’al comun pianto ha volto il passo
E sà, ch’essa è cagio de la sua morte,
Alza la man, che diede il figlio à Pluto,
E piaga il tristo cor col ferro acuto.
S’in certo lingue havessi, e cento petti,
E volto in mio favor tutto Helicouas,
E cento de i piu rari alti intelletti,
Ch’in capo mai d’altor portar corona:
Non potrei dire i dolorosi affetti,
Onde l’alta città tutta risuona
D’huomini, di matrone, e di donzelle,
Ma più de le mistissime forche.
Deposto il gesto regio il regio fine,
Si danno in preda à ogni atto degno, e insano
Anno oltraggio al bel viso, a l’aureo crine
E percotonsi il petto, e mano a mano,
E stando sopra lui piegata, e chine
Chiaman sovente il nome amato in vano.
E mentre il corpo in cener non si sface,
Gli son tutte d’intorno, ovunque giace.
A pena il corpo in cener si risolve,
Che’l vaso à gara prendon, che la serra,
E al petto stringon la funebre olve,
Mentre che’l loco piu non la sotterra.
Ma come il sasso poi gelido imuolve
Le membra trasformate in poca terra,
Da lor le strida, i moti, e’l pianto impetra
Lo scritto nome, e la notata pietra.
Poi ch’à la Dea di delo offesa parve
D’esser contra d’Eneo sfogata a pieno,
Fè, che la piuma a le sorelle apparve
Del morto, e n’ornò lor le braccia, e’l seno.
E fatta ogn’una augel, subito sparve,
Et allentò per l’aria ai vanni il freno
Tutte a un tratto lascir l’human splendore
Da la nuora d’Almena, e Gorge in fuore.
L’augel, che Meleagride s’appella,
Del fratel Meleagro hà preso il nome.
Risplende assai la sua penna novella,
Che leva al ciel le sue terrene some.
Ch’è vaga, varia, colorata, e bella,
Et hà la cresta invece de le chiome.
Di spetie di gallina è rara, e nova,
Benchè, come il fagian, dipinge l’ova.