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V sec. a.C. ca.

BACCHILIDE, Epinicio V, vv. 64-175

Traduzione da: Odi e frammenti, a cura di Festa N., Sansoni, Firenze 1916, pp. 27-35. 

 

E spiccava in mezzo a tutte l’ombra dell’ardimentoso Portaonide vibratore di lancia; e appena il figlio d’Alkmena, l’eroe portentoso, o vide fulgente nell’armatura, legò all’anello dell’arco la stridula corda e, tolto il coperchio della faretra, si affrettò a scegliersi un dardo dalla punta di rame. Ma gli si presentò faccia a faccia l’anima di Meleagro e ben lo riconobbe e gli disse: “Figlio del grande Dia, fermati costì e rasserena l’animo tuo, e non lanciare a vuoto dalle tue mani un’aspra saetta contro l’anima dei morti. Non c’è da temere!”. Così diceva; e fu preso da stupore il principe figlio di Anfitrione, e disse: “Chi mai degl’immortali o degli uomini allevò un rampollo siffatto? In quel paese? E chi lo uccise? Oh certo Hera dalla bella cintura manderà presto colui contro il mio capo! Ma forse a questo provvede Pallade bionda”. E a lui diceva Meleagro tra le lacrime: “Dura cosa è per gli uomini terreni piegare l’animo degli dèi che altrimenti mio padre Oineo domatore di cavalli avrebbe placato la collera della dea inghirlandata da bocciuoli, dall’Augusta Artemide dalle bianche braccia, con preghiere e con sacrifizi di molte capre e di bovi dalla fulva schiena. Ma la dea serbò indomabile la sua collera, ed incitava, essa la vergine, una fiera dalla forza immane, un cinghiale spietato nell’assalto contro le amene contrade di Calydone, dove esso, nella piena del suo vigore devastava con la zanna il bestiame ed ogni uomo che gli si facesse incontro. Ma con esso impegnammo strenuamente un’aspra battaglia noi, i più prodi degli Elleni, per sei giorni di continuo, e poi che il nume porse agli Etoli la vittoria, davamo sepoltura a coloro che aveva uccisi nei suoi assalti furiosi il cinghiale dagli alti ruggiti: ed Ancaro e ad Agelao, il migliore dei miei fidi fratelli che Althaia partorì nelle case famose di mio padre Oineo. Ma più altri ne spense la Moira tremenda; giacché non ancora aveva placata l’ira sua la fiera dea cacciatrice figlia di Latona; e per la fulva pelle del cinghiale ci battevamo accanitamente con gli intrepidi Cureti . Allora io, con molti altri uccisi Ificlo e il prode Afarete, impetuosi guerrieri, miei zii materni, che Are dal forte cuore non discerne l’amico nella mischia, e ciechi vanno dalle mani i colpi sulle anime degli avversari e recano la morte a chiunque il demone voglia. Di ciò non tenne conto la fiera figlia di Thestio, la madre mia sciagurata, e disdegnò la mia morte la donna imperterrita, e prorompendo in lacrime trasse fuori dall’urna scolpita e lasciò bruciare il tizzo che un giorno la Moira aveva destinato a segnare il termine della mia vita, il tizzo dalla rapida fine. Ero in quel punto intervenuto a spogliare delle armi Clymeno il forte figlio di Deipylo, un corpo dalle forme perfette, e lo aveva raggiunto dinanzi alle mura mentre coloro fuggivano verso l’antica città, la ben costrutta Pleurone. Mi venne meno la dolce vita e mi sentii sfinito, Ahi! Ahi! ” E traendo l’ultimo respiro proruppi, misero! In lacrime non lasciare la splendida giovinezza”. Dicono che l’intrepido figlio di Anfitrione allora, l’unica volta nella sua vita, bagnò di pianto le ciglia, commosso per la sorta dell’eroe gravato dal dolore: e rispondendo a lui così diceva: “Per i mortali non nascere è meglio e non vedere neppure la luce del sole; ma poiché a niente giovano tali lamenti, convien parlare di quello che si può mandare ad effetto. Dimmi dunque: c’è nella casa di Oineo caro ad Are una figlia vergine che rassomigli a te nella figura? Una donna così fatta mi pronterei volentieri per la mia florida sposa”. Ed a lui l’anima dell’intrepido Meleagro diceva: “Ne lasciai una dal collo rigoglioso, in casa, Deianira, tuttora ignara dell’aurea Cypride ammaliatrice.