1570
FABIO MARRETTI, Le Metamorphosi d’Ovidio in ottava rima col testo latino appresso, nuovamente tradotte da M. Fabio Marretti gentilhuomo senese, senza punto allontanarsi dal detto poeta. apud Bologninum Venetiis, Libro ottavo pp. 236-240
De l’obrobrio del figlio, e del difforme
Adulterio materno il nome corre,
Per lo non visto mostro biforme;
Onde da se queste vergogne torre
Ordina Mino, e quel suggetto enorme
Tra muri occulti, e raddoppiati porre:
Dedal d’arte fabril di chiaro ingegno
L’edifitio piantò di stran disegno.
Confonde i segni, & errar fa le genti
Con varie, e dubbie vie sempre girando;
Come scherza ne l’acque sue correnti
Meandro in Phrygia in vari cerchi erra[n]do,
Che vanne, e viene, e l’onde a se venuti
Vede, e riceve, quelle in via incontrando,
Et hora verso il mare, hor verso u’nacque,
Con molti, e in certi giri agita l’acque.
Cosi le molte vie Dedal confuse,
E seppe a pena ei ritrovar l’uscita,
Cotanto era l’errore. or poiche chiuse
Quel che doppia figura havea sortita
Di toro, e d’huom, tra quelle vie confuse,
Diede la terza sorte repetita
Doppo nove anni al mostro il sezzo crollo
D’attico sangue due volte satollo.
[…]
Che sta’n mezzo al ginocchio affaticato,
E a quel, che’l serpe tiene. E intanto Creta
Dedalo e il lungo, duro essilio odiato,
Tocco è d’amor de la sua patria lieta,
Dal mar chiuso era; se’l re Mino irato
(Disse) a noi in terra, e’n mare il passo vieta
Aperto è’l ciel di la darem di piede,
Che s’egli ha’l tutto, l’aere non possiede.
Così l’animo impiega a incognita arte,
Natura innuova, e in ordin penne stende
Il primo luogo a la minor comparte,
La piu lunga seguir poi sempre attende,
Crescon qual conio, o quale a parte a parte
Rozza zampogna a poco a poco acende
Per l’inequali canne, e’n tal maniera
Ordite lega poi con lino, e cera.
Così composte havendo quelle, al quanto
Le piega poi con provido consiglio,
Per imitare i veri augelli; e intanto
Essendo seco insieme Icaro il figlio,
Ch’era fanciullo, e non sapea, che’l pianto
Trattava il semplicetto, e’l suo periglio,
Lucido in faccia le piume or prendea,
Che mosse l’aurea ventillando havea;
Col police hor la cera ammorbidisce,
E l’opre al padre suo meravigliose
Col suo scherzar piacevole impedisce.
Ma poscia che la mano ultima pose
Dedalo al fatto, il proprio corpo ardisce
Regger ne le sue doppie ale animorfe,
Cosi da terra fatto un lieve salto,
L’aer mosse, e con quelle ascese in alto.
Et ammaestra il figlio; e dice. andrai
Icaro mio per mezzo il ciel volando;
Perche l’onda, se troppo basso vai
Non t’aggravi le piume, o troppo alzando
L’arda’l foco; tra ambo volerai,
Né riguardar Boote io tel comando,
O l’orse, o d’Orion la innuda spada,
Ma con la scorta mia prendi la strada.
Et anco del volar gli da lo stile,
Et a gli homer li pon le incognite ale:
E intra tanto bagnò’l volto senile,
Le man tremaro, e baciò’l figlio, il qual
Piu non dovea baciar, poi non humile
Da i vanni alzato innante vola, e quale
Augel, che da l’alto nido fuore
Tenera prole, ha de la sua timore.
E l’essorta a seguire; e ne i suoi danni
Quello ammaestra; e mentre i suoi menava,
Riguarda indietro del figliuolo i vanni.
Or costor vide un pover huom, che dava
Con la tremante canna a i pesci affanni,
Et un pastor con verga, & un ch’arava,
E stupidi, creder quelli esser dei;
Poiche muover pel ciel poteano i piei,
E già lasciando a tergo e Delo, e Paro;
Samo sacra a Giunon ne la manca onda
Era, e Lebinto ne la destra, e a paro
Calidna, che di mel sempre è feconda.
Quando prima il fanciullo audace ignaro,
Per lo volato suo di gioia abbonda,
E la guida abbandona, e dal desio
Tratto d’andar al cielo, alto saglio.
Il sol vicin, ch’estremo caldo rende,
Forza è che l’odorata cera sfaccia
De le penne giuntura, onde egli attende
A scuoter senza prò l’ignude braccia,
E senza ale de l’aere nulla prende,
Tanto ch’al fin l’humor ceruleo impaccia
La bocca, mentre alto chiamare intese
Il padre, e’l mar dal figlio il nome prese.
Ma lo’nfelice padre, hor non piu padre.
Icaro (Disse) ove sei Icar disse?
Ove deggio cercar le tue leggiadre
Membra dolente? e mentre Icarri disse,
Sparte per le salze onde avvien che squadre
Le penne, e le sue arti maledisce,
Et in bianco sepolcro il corpo serra,
E dal sepolto il nome hebbe la terra.
Da un’elce ramoso una pernice
Garrula vide dentro al urna quello
Per le membra del suo figlio infelice,
E ne fè con le penne applauso, e snello
Col canto anchor del suo gaudio felice
Fece fede l’alhora unico augello,
Per li anni avanti mai non piu veduto;
Hor Dedal per tua colpa augel venuto.
Tua sorella il figliuol ti diè con patto,
Che lo struissi; essendo ella ignorante
De i fati d’esso; & a imparare era atto,
Che due volte sei anni havea l’infante;
Il qual di mezzo al molle pesce tratto
L’essempio con l’ingegno suo prestante,
Notandovi la spina, insu i taglienti
Ferri intagliò continuati denti.
E l’uso de la sega in questo modo
Ritrovò egli a tutti gli altri avanti.
Indi due stil di ferro giunse a un nodo,
Accioche in quei di spatiò egual distanti
Stesse una parte fissa come chiodo,
L’altra formasse il tondo: e invidia a i santi
Studi Dedalo havendo da la rocca
Di Minerva precipite il trabocca.
E caduto da se’l finse, ma’l nume
Grati a gli ingegni atti ad egregie imprese
Palla il ricolse, e lo velò di piume
In mezzo al aere, e nuovo augel lo rese;
Ma del veloce ingegno il grande acume,
Che’l giovenetto havea gia, si distese
E nel’ale, e ne i piei, ch’essa formogli,
E’l nome usato suo primier restogli.
Ma hoggi questo augel d’andar sublime
In aer col corpo suo fugge la prova,
Né sovra i rami in elevate cime
Anco giamai suo nido intesse, o cova,
Vicino a terra il volo suo deprime,
E ne le basse siepi pone l’uuova,
Di poggiar su l’altezze ognhor paventa,
Che de l’antico caso si rammenta.
Gia in Sicilia affannato Dedal viene,
Et arma, supplicando, in suo riparo
Cocalo pio: già pagar lascia Athene
Per virtù di Theseo’l tributo amaro,
Corone a i tempi fan di frondi amene,
E Palla, e Giove, e gli altri dei invocaro,
Cui dopo sacrifity, e doni immensi,
Rendero honor con odorati incensi.