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GIOVANNI ANDREA DELL’ANGUILLARA, delle Metamorfosi d’Ovidio [ridotte in ottava rima], libro ottavo
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Si sdegna più d’ogni altro il sommo Giove
Contra il figliuolo, in tal caso non saggio,
E parla irato à Venere, e la move
A’ vendicar il cielo di tanto oltraggio.
Venere co’l figliuol subito dove
Stà la moglie del Re prende il viaggio.
Ch’ambo cerca macchiar di doppio scorno,
Perch’odia anchor lo Dio ch’apporta’l giorno.
Non solla bella Dea port’odio al Sole,
Perche scoprì le sue Veneree voglie,
Ma cerca, quanti son di quella prole,
Gravar di nove infamie, e nove doglie.
Colei, che di bellezze uniche, e sole
Fu al Re di Creta giù data per moglie,
La qual Pasife fu detta per nome,
Nacque del chiaro Dio da l’auree chiome.
Venere adunque andò contra costei,
Per darle fra le infami il primo vanto.
E perche il Re de gli huomini Dittei
Dovendo fare il sacrificio santo,
Tolse quel Toro à sempiterni Dei,
C’havea più altero il cor, più bello il manto,
Gli volse far vedere, ch’era stat’empio,
E ch’era mè per lui di darlo al tempio.
Mentre nel toro altero i lumi intende
Pasife, che fe uscir di terra il cielo,
Fa Citherea, che l’arco il figlio tende,
E poi scoccar contra la donna il telo.
Del toro allhor la misera s’accende,
E loda l’occhio, il volto, il corno, e’l pelo.
Già con occhio lascivo il guarda, e l’ama,
E di goder di lui discorre, e brama.
Quando s’avede al fin, che’l proprio ingegno
Non sa dar luogo al troppo strano affetto,
Confida con un fabro il suo disegno,
Che in corte havea d’altissimo intelletto.
Compose in breve una vacca di legno
Quel si raro huom, che Dedalo fù detto,
Che da se si movea, da se muggiva,
E parea à tutti naturale, e viva.
Ordina poi l’artefice, che v’entre
L’innamorata, e misera Regina.
Mossa ella dall’amor l’ingombra il ventre.
E’l fabro al toro incauto l’avicina.
Già il bue la guarda, e si commove, e mentre
Il legno intorno à lui mugghia, e camina,
A l’amoroso affetto il bue s’accende,
E gravida di se Pasife rende.
Quel mostro nacque poi di questo amore,
C’hor rende cosi mesto il Re di Creta.
Perche scopre il suo obbrobrio, e’l suo disnore,
Ne può l’infamia più tener secreta.
Se non punisce lei di tanto errore,
Degna cagion gliel dissuade, e vieta,
Ne vuol di tanta infamia punir lei,
Per non sdegnar di nuovo i sommi Dei.
Fe far poi per nasconder tanto scorno
Da Dedalo un difficil laberinto,
Il qual di grosse, e d’alte mura intorno
Il pochi dì fù fabricato, e cinto.
Com’un dentro vi gia, perdea il ritorno,
E si trovava in mille errori avinto.
Da mille incerte strade hor quinci, hor quindi,
Spint’era hor ver gl’Iberi, hor verso gl’Indi.
Come il fiume Meandro erra, e s’aggira
Co’l suo torto canal, ch’al mare il mena,
C’hor verso ove già nacque il corso il tira,
Hor per traverso, hor ver la salsa arena;
E l’acque in mille luoghi incontra, e mira,
Che seguon lui da la medesma vena:
Così vanno le vie chiuse lì dentro
Hor ver l’estremo giro, hor verso il centro.
Come se’l Tembro altier l’irata fronte
Per dritto filo in qualche ripa fiede,
Fà l’onda irata sua tornare al monte,
Tal ch’ei medesmo hor corre innazi, hor riede,
E nel tornar la nova acqua, che’l fonte
Manda al mar per tributo, incontra, e vede,
E và per mille strade attorte, e false
Hor verso monte, hor verso l’onde salse:
Così l’accorto, e celebre architetto
Di tante varie vie fallaci, e torte
Compose il dubbio, e periglioso tetto,
Ch’à pena ei seppe ritrovar le porte.
Tosto che in ogni parte fu perfetto,
Vi fero il mostro entrar feroce, e forte.
Così per quelle vie cieche, e dubbiose
Il Re Ditteo la sua vergogna ascose.
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Vinto ch’ebbe Teseo l’alto periglio,
E dal tributo liberata Athene;
Dedalo havendo in odio il lungo esiglio,
E Creta, e’l Re Ditteo, che ve’l ritiene;
A’ pensar cominciò, con qual consiglio
Potrebbe torsi alle Cretensi arene,
Che’l Re l’amò per lo suo raro ingegno,
Ne’l volle mai lasciar partir del regno.
Dedalo già da la Palladia terra
Fu d’un sublime ingegno al mondo dato,
E ià battè d’un’alta rocca in terra
Un fanciul d’una sua sorella nato:
Ma non volle però mandar sotterra
Tanto alto ingegno l’Attico Senato;
Ma la debita pena moderando,
Gli diè da la città perpetuo bando.
Era il regno di Creta allhora amico,
E collegato à l’Attico governo,
Ch’Athene anchor con animo nemico
Androgeo non havea dato à l’inferno.
Hor dovendo lasciare il seggio antico
Dedalo, e gire in un paese esterno,
Pensò d’andare à la Cretense corte,
E presso à tanto Re tentar la sorte.
Più d’una statua al saggio Imperadore
Di sua man fabricò, che parea viva,
Per poter gratia un dì co’l suo favore
Dal bando haver, che de la patria il priva.
Ma come il Re conobbe il suo valore,
E l’arte sua miracolosa, e diva,
Intanto amore, in tanta gratia il tolse,
Ch’indi lasciar partir giamai no’l volse.
Ma Dedalo, ch’ardea di ritornare
Al patrio sen, quanto potea più presto,
Fra se discorre di voler tentare,
S’appresso à un altro Re può ottener questo.
Ne l’Asia egli vorria poter passare,
E quivi il suo valor far manifesto,
E poi per mezzo della sua virtute
Impetrar gratia per la sua salute.
Ma chiuso era dal mar; ne alcun fu’l legno
Torre il volea per lo real sospetto,
Ah dove è (disse) il mio solito ingegno?
Dunque io starò qui seco al mio dispetto?
Possieda pur la terra, e’l salso regno
Quel Re, ch’à tutti ha il mio partir disdetto;
Il ciel già non possiede, e per lo cielo
Portar vo in aria il mio terrestre velo.
Pon tutta à questo fin la mente, e l’arte,
E di passar ne l’Asia in tutto vago,
Come può torsi alla Cretense parte
Pensa, e passar si spatioso lago.
De gli augei più veloci à parte à parte,
Comincia ad imitar la vera imago.
E d’alterare, e di formar pon cura
Aerea, più che può, la sua natura.
I più veloci augelli spiuma, e spenna,
Che’l volo han più sublime, e più lontano.
Pria comincia à investir la minor penna,
E va crescendo poi si mano in mano.
Tanto, che la maggior l’ascella impenna,
Impiuma la minor l’estrema mano.
Così il bicorne Dio par, che in un stringa
Di calami ineguai la sua siringa.
Con la cera, e col lin l’unisce, e lega,
E dove è d’huopo, le comparte, e serra.
Indi con man le curva alquanto, e piega
Imitando ogni augel, che men s’atterra.
Ne cosa al bel lavor ricusa, e nega,
Che’l possa torre à l’odiosa terra.
E è ogni parte sua si ben distinta,
Che la natura par da l’arte vinta.
Icaro un suo fugliol tutto contento
Guarda, come i fanciulli han per costume,
Se può imitar il padre: e se dal vento
Vede levate al ciel talhor le piume,
Corre lor dietro, e le raccoglie; e intento
Ferma nel bel lavoro il vago lume.
E la cera addolcendo, anch’ei s’adopra,
E studia d’imitar la paterna opra.
Non sapendo trattarsi il suo periglio
Si gioca intorno al padre, e si trastulla,
E co suoi giochi il curioso figlio
Talhor qualche disegno al padre annulla.
Poi che del fabro accorto il dotto ciglio
S’accorge, ch’al lavor non manca nulla,
Si veste l’ale industriose, e nove,
Che vuol veder le sue dannose prove.
Imita i veri augelli, e i vanni stende,
Et alza il corpo, indi il sostien su l’ale,
E battendo le piume al cielo ascende,
Et gode, e si rallegra del suo male.
L’ale, che fe per Icaro, poi prende,
E glie le veste, e fa, ch’in aria sale.
E di valor gl’insegna, come sole
Fare ogni augello à la sua nova prole.
Come hanno insieme il ciel trascorso alquanto,
E’l fabro d’ambi il vol sicuro scorge,
Discende in terra, e poi non senza pianto
Questo ricordo al miser figlio porge.
Vedi figliuol, che’l novo aereo manto
Per l’aere, onde voliam, ne guida, e scorge.
E condurranne in breve al lito amato,
Se saprem conservarlo in questo stato.
Prendere il volo à mezzo aere convienne,
Che se ci aviciniam soverchio al mare,
La piuma graverà, la qual sostiene,
E ne torrà la forza del volare.
Ma se troppo à l’in su battiam le penne,
La cera il Sol farà tutta disfare,
E disgiungendo à noi le penne unite,
Farà caderne in grembo ad Anfitrite.
Drizza continuo al mio volar la luce,
Ch’io so per l’alto ciel le vie per tutto,
Dove Orion, dove Calisto luce,
E dove del mio vol posso trar frutto,
Dapoi, che’l troppo coraggioso duce
Hebbe de suoi ricordi il figlio instrutto,
Mentre baciollo, e gli assettò le piume,
La man tremogli, e lagrimogli il lume.
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Poi c’ha mostrati i suoi propinqui danni
Al figlio, fa, che seco in aria ascende.
E batte verso Ionia i novi vanni,
Che dismontar sopra quel regno intende.
Non credendo il figliuol d’accortar gli anni,
Il medesmo camin per l’aria prende.
Lascia Ritinna Dedalo, e s’invia,
E passa sopra l’isola di Dia.
Il pescator, che su lo scoglio siede,
E la tremante canna, e l’hamo adopra,
Stupisce di quegli huomini, che vede
Con l’ale, come augei, volar di sopra.
Fà fermare il bifolco à tori il piede,
E per mirargli lascia il solco, e l’opra.
Tutti per rimirargli alzano i lumi,
Conchiudon poi, che sian celesti Numi.
Già sopra Paro havea snello, e leggiero
E questi, e quei l’aure celesti prese,
Quando del volo audace Icaro altero,
De la vista del ciel troppo s’accese;
E spinto in sù dal giovinil pensiero,
Troppo vicino al Sol le penne stese.
S’accostò troppo à la diurna luce,
E lasciò mal per lui l’incauto Duce.
Il Sole il dorso al giovane percuote,
E le composte cere abbrucia, e fonde:
In van l’ignude braccia Icaro scuote,
S’aiuta in van per non cader ne l’onde.
L’aure con l’ale più prender non puote,
E cade, e chiama il padre, e’l mar l’asconde.
Vicino à terra fur l’Icarie some
Tolte dal mar, ch’à lui tolse anche il nome.
Intanto l’infelice padre il ciglio,
Come spesso solea, rivolge indietro,
E quando in aria più non vede il figlio,
Con mesto il chiama, e lagrimevol metro.
E mentre biasma l’arte, e’l suo consiglio,
Vede notar su’l liquefatto vetro
La piuma, che ne l’aria no’l sostenne,
Perche vicino al ciel troppo si tenne.
Del poco cupo mar vicino al lido
Piangendo il fabro il suo fanciul tolse,
E l’isola, ove il suo funebre nido
Fondogli, il nome anchor d’Icaro volse.
Mentre il chiudea nel marmo, allegra un grido
Una starna, che’l vide in aria, sciolse:
Ne sol di tanto mal si mosse à pieta,
Ma mostrò à molti segni esserne lieta.
Ben con ragion de tuoi pianti funesti
S’allegra quell’augel, che t’ode, e vede,
Dedalo, che sai quanto l’offendesti,
E quanta infamia il mondo te ne diede.
Ben ti sovien, che già un nipote havesti,
Che fidò tua sorella à la tua fede.
Quest’è l’augel, che del tuo mal si gode,
Per la tua crudeltà, per la tua frode.
Mostrò questo fugliuol si raro ingegno,
Che diè la madre al fabro ingiusto, e rio,
Ch’ogn’un facea giudicio, che più degno
Stato faria del suo maestro, e zio.
Dodici volte stato era nel segno
Del suo ascendente il luminoso Dio,
Quando ei fu dato al zio crudele in mano,
Perch’apprendesse l’arte di Vulcano.
Si bene in breve il buon fanciullo intese
La forza de la lima, e del martello,
Che fe stupir il mastro ogni hor, ch’intese
Gli occhi nel suo lavor pregiato, e bello.
Ma quel, che l’empio zio d’invidia accese,
E contra il sangue proprio il fe rubello;
Fur due, ch’uscir del fanciullesco senno,
Stormenti ignoti al fabro anchor di Lenno.
Nota più volte la dentata spina,
Che nel mezzo del dosso il pesce fende,
E con la mente sua quasi divina
A’ quel, che può servir, l’essempio intende.
Al fin dà lieto il foco à la fucina,
Poi con la force il ferro acceso prende:
Sopra l’incude poi tanto il castiga,
Che’l fa venire in forma d’una riga.
Poi con la dotta, e industriosa lima
Vi va formando un dopo l’altro il dente.
La tempra indi gli dà, che idonea stima,
E ne l’onde il fa entrar rosso, e lucente.
Su qualche debil legno il prova prima,
E trova, che’l suo ingegno à lui non mente.
Anzi, che tal virtù del suo dente have,
Che sega il sasso, e la nodosa trave.
Due ferri eguali poi da una capo avinse,
Che la forma tenean quasi del chiodo,
E dal lato più grosso in un gli strinse,
Con un soave, e maestrevol nodo.
Co i lati acuti il cerchio poi dipinse,
E di farlo perfetto aperse il modo,
Tenendo di quei due stabile un corno,
E con l’altro tirando il cerchio intorno.
Verso il maestro suo tutto contento
Il semplice fanciullo affretta il passo,
Per palesargli il nobile stormento,
Che parte agevolmente il legno, e’l sasso.
E, perche vegga come in un momento,
Può far perfetto il cerchio co’l compasso:
E dove haverne honore, e lode intese,
D’invidia, e crudeltate il fabro accese.
L’invidia il core al zio distrugge, e rode,
Che vede ben, che’l suo veloce ingegno
Havrà maggior honor co’l tempo, e lode
Di lui, ch’allhor tenuto era il più degno.
Pur loda il suo discipulo, e con frode
Cerca di darlo al sotterraneo regno.
Ne la rocca di Palla un dì l’afferra,
E da la maggior cima il getta in terra.
Ma Palla, ch’ama ogni raro intelletto,
Che cerca dar qualche nov’arte al mondo,
Li cangiò in aria il suo primiero aspetto,
Perche non gisse à ritrovare il fondo.
E vestendo di piume il braccio, e’l petto,
Sostenne in aria il suo terrestre pondo.
E del veloce ingegno il raro acume
Fe trasportar ne’ piedi, e ne le piume.
Perdice pria, che trasformasse il ciglio,
Nomosi, e’l proprio nome anchor poi tenne.
E, perche le sovien del suo periglio,
Non osa troppo al ciel levar le penne.
Il nido suo dal rostro, e da l’artiglio
Fatto l’abete altier mai non sostenne.
Teme i troppo elevati arbori, e l’uova
In terra entro à le siepi asconde, e cova.
Sì che se s’allegrò del crudo scempio
La starna, che’l dolor del fabro udio,
N’hebbe cagion, che fu ver lei troppo empio,
Mentre ella fu fanciullo, il crudo zio.
Poi che’l padre fe dir l’essequie al tempio,
Quanto al primo camin cangiò desio,
E ver l’isola pia prese la strada,
Ch’altera è anchor de la più nobil biada.
A’ l’amata Sicilia al fine arriva
Stanco già di volar Dedalo, dove
Del volo, e de le penne il dosso priva,
Ne d’huopo gli è d’andar cercando altrove.
Che quivi appresso al Re talmente è viva
La fama delle sue stupende prove,
E con tal premio Cocalo il ritiene,
Che riveder più non si cura Athene.
Annotazioni libro ottavo p. 129
Il ruolo di Dedalo, e del figliuolo ci da a vedere che quando l’ambitione, e’l desiderio delle cose alte è frenato dalla ragione, e dalla prudenza, non passa i termini alciando se piu di quello che ricercano i meriti, onde fa giungere l’huomo dopo il corso di questa vita al desiato fine; come saggiamente fece Dedalo, ma quelli che a simiglianza di Icaro vogliono alciarse piu che non dovrebbero, trasportati da uno irregolato desiderio vengono poi a cadere nelle miserie del mondo, figurate per l’onde del mare, con biasimo e danno irreparabile.