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LUDOVICO DOLCE, Le Trasformazioni, Canto sestodecimo
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Pasife fu l’abominosa moglie
Del Re; laqual s’inamorò d’un Toro;
E di lui fe contente le sue voglie
Dentro una Vacca di sottil lavoro.
Adunque in petto feminil s’accoglie
Cosi sozzo appetito? Io ben u’honoro
Donne mie con la lingua e con l’inchiostro;
Ma questa è brutta infamia al nome vostro.
Nacque de l’empio e scelerato amore
Un mostro di statura orrenda e strana:
Dal cinto in giù conforme è al genitore,
D’indi sino a la testa ha forma humana.
Cresceva il Mostro a danno e a disonore
Di tutta Creta: ogn’un se gli allontana;
Però, che quanti egli potea trovarne,
Stracciava, e si pascea d’humana carne.
Il Re, perche quel biasmo nascondesse,
E che fosse di Creta il danno estinto;
A Dedalo ordinò, ch’egli facesse
Con l’arte sua un’intricato cinto,
Ove a prigion perpetua ei si chiudesse:
Fece il dotto Maestro il Labirinto:
Di cui, come più d’un ci rende fede,
In Creta alcun vestigio hoggi si vede
[…]
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Dedalo in tanto fu dannato, e stava
Ne la prigion, che col suo ingegno ordio:
Ne cio potea soffrir; ch’assai l’aggrava
L’hospitio, e’l lungo esilio acerbo e rio:
E l’amor, ch’a la patria egli portava,
Gli accende di tornar caldo disio.
Ma come ne puo far sua mente lieta,
Che gran spatio di mar gliel toglie e vieta?
Pensò quel, che potea: poi disse, tegna
Il Re sotto di lui mari e terreni;
E mi serri per tutto, ov’egli Regna,
Ponendo in ogni parte intoppi e freni:
Fia sciocco, se impedir pensa e disegna
Del spatioso ciel gli aperti seni.
Certo, ch’egli ne l’aria non ha parte;
Ne puo impedir, ch’io non v’adopri l’arte.
Si mise poi con la Maestra mano
A compor’ali di piu salde penne,
Stimando, che potria volar lontano,
Come volar gli uccelli hanno in costume.
Quelle ordinando va di mano in mano,
E forma a punto di Sampogna assume;
Le cui canne una ad altra dando loco
Gir si veggon surgendo a poco a poco.
Con spago il mezo, e l’ultime con cera
Dedalo molto ben lega e congiunge;
E perche habbian d’Augel sembianza vera,
Le piega un poco, e ogni saper v’aggiunge.
Icaro, il suo figliolo,il qual seco era,
E mai dal lato suo non si disgiunge;
Qual semplice fanciul, godea de l’opra;
E con piacer le picciol mani adopra.
Ne sapendo, si come il garzonetto
Trattava il suo periglio, in man prendea
Spesso con lieto e con ridente aspetto
Le penne, che talhor l’aurea movea:
Hor la cera, perch’atta a tale effetto
Fosse, tra diti suoi molle rendea;
E cosi a giuochi fanciulleschi messo
Impediva il lavor del padre spesso.
Dedalo, poi che l’opra hebbe compita,
S’acconcia l’ali, e si commette al vento;
E vola si, che certa ha la fuggita,
Ne di sinistro alcun prende spavento.
Solo al figliuol, che quanto la sua vita
Ama, il buon padre ad insegnare è intento,
Com’habbia a far, perche sicuro vole:
Ma qui termino il canto e le parole.
Canto decimo settimo
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Non è tanto da noi lontano segno,
Se ben vista mortal non l’affigura;
Che nŏ vi s’erga, e aggiŭnga il nostro ingegno,
Con l’ali, che gli da l’alma natura.
Ma chi di gir tropp’alto fa disegno,
Sciocco, la morte sua cerca e procura:
Gia vi diede Fetonte un chiaro esempio;
Hor d’Icaro vel da l’acerbo scempio.
Che non si tosto le cerate piume
A se stesso sicuro il padre mise,
Ch’egli seguendo il pueril costume,
Bramoso di volar a lui s’affise.
Vede, come’l fanciul di se presume,
E come a punto il suo camin divise,
Dedal gli va insegnando, come suole
Pietoso padre, e dice tal parole.
Ne troppo basso, ne tropp’alto andrai:
Perche se troppo ad alto Icaro ascendi,
Liquefaran la cera i caldi rai
Del Sol, di cui l’ardor senti e comprendi.
Le penne similmente perderai,
S’avvien, che troppo basso il volo prendi:
Che l’humido del mar disolverebbe
La cera, e’l tuo sostegno leverebbe.
Vola tra il mezo; e non ti venga in core
Di voler contemplar nel ciel Boote;
Ne meno riguardar l’Orsa maggiore,
Ne se’l fiero Orion fere e percote.
Ma fa, ch’io sol ti sia guida e rettore.
Con queste e altre somiglianti note
Il padre, che temea di qualche male,
Diede al figlio i ricordi, e’nsieme l’ale.
E le guancie rigò di caldo pianto;
Ne ripien di spavento piange solo,
Ma gli tremaro ambe le mani, e in tanto
Lo bacia, e inanzi a lui prende il suo volo.
Si volge a dietro, e guarda se gliè a canto;
Che pur temea del picciolo figliuolo:
Si come Augel, che fuor del nido mena
Il figliuolin, c’ha messo l’ali a pena.
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Lo conforta a seguirlo; e tuttavia
Non sa, ne po levar gli occhi dal figlio;
Che teme pur, che da la dritta via
Non torca con suo grave alto periglio.
Un pescator, che per quel mar sen gia
Con un legnetto suo, levando il ciglio,
Si maraviglia assai di veder quelli,
Che volavan pel ciel, si come Augelli.
Lasciato a dietro havea piu d’un paese
Dedalo sospetto, e gran tratto di mare;
Quand’Icaro fanciul, che fin qui attese
A ricordi del padre nel volare;
D’allargarsi da quello audatia prese
Godendo quel meschin d’alto poggiare:
E poggia si, che’l Sol, ne la maniera,
Che suol la fiamma, liquefa la cera.
Onde gli homeri ignudi gli restaro;
E’l misero fanciul cadde ne l’onde:
Chiamava il padre; e questo gli lasciaro
Per poco spatio far l’acque profonde.
Cosi ripieno di cordoglio amaro
Il padre chiama lui, ma non risponde;
Che gia li haveva il mar la bocca chiusa;
e dal corpo hoggimai l’anima esclusa.
Indi volgendo a basso gli occhi, vede
Nel mar del figlio le cadute penne.
Se stesso accusa, e in terra pone il piede
Col corpo, che nel ciel mal si sostenne;
A cui piangendo sepoltura diede:
Ma sopra un’Elce una Pernice venne,
Ch’a quel, ch’esso facea, ponendo mente,
Scosse le piume, e cantò lietamente.
Mostrò molto l’Augel di rallegrarsi
Del dolor, che vedea, che lo molesta:
E bene havea cagion di dimostrarsi
Allegro del suo male, e di far festa,
Che pria c’havesse in tal forma a cangiarsi
Fu questa, ch’era alhor Pernice, questa
Un fanciul suo nipote; che dotato
Era d’ingegno, e per virtù lodato.
Però, che ne l’età semplice e pura,
Ch’io stimo dodici anni non passasse,
Sendo messo il fanciul sotto la cura
Del dotto zio, perche virtù imparasse;
Egli d’un pesce da la spina dura
L’esempio del compor la Sega trasse;
E due ferri accompiando ad un sol nodo,
Del Compasso trovò l’ordine e’l modo,
In guisa, ch’una parte stando ferma,
Aggirandosi l’altra un cerchio mena.
Ma Invidia, che ben sano animo inferma,
E spesso col suo tosco l’avelena,
Fa, che dentro’l suo cor Dedalo afferma
Che’l fanciul sua virtù chiara e serena
Dovea offuscar: e cosi a dentro il tocca,
Ch’un giorno lo gittò d’un’alta Rocca:
Et a la madre sua, ch’era caduto
Finse, e purgò se stesso del suo errore.
Pallade, che solea porgere aiuto
A gli huomini d’ingegno e di valore,
Poi ch’a tempo non l’hebbe sovvenuto,
Fece al miser fanciullo un altro honore,
Che lo cangiò in Augel, che serba ancora
L’istesso nome, ch’ei teneva alhora.
Il vigor de l’ingegno andò in prestezza
D’ali e di piedi. È ver, che non ardisce
Di volar troppo in alto: che l’altezza
De la caduta ancor l’impaurisce;
Ma di poco volar prende vaghezza
Presso al terreno: e là, dove fiorisce
Piu folto siepe, ivi fa il nido; e cova
Ivi per naturale istinto l’uova.
Or finalmente affaticato e lasso
Nel terren Sicilian Dedalo giunse:
Ne quivi trovò il Re di pietà casso,
Però, che molto il suo infortunio il punse.
Ne piu tenea in Athene il capo basso,
Il popol, cui martir grave compunse
Pel tributo crudel: mercè, che’l forte
Theseo havea dato al Minotauro morte