1 a.C. – 1 d.C.
OVIDIO, Ars Amatoria, 2, 21-96
Hospitis effugio praestruxerat omnia Minos;
audacem pinnis repperit ille viam.
Daedalus, ut clausit conceptum crimine matris
semibovemque virum semivirumque bovem,
“sit modus exilio” dixit, “iustissime Minos;
accipiat cineres terra paterna meos,
et, quoniam in patria fatis agitatus iniquis
vivere non potui, da mihi posse mori;
da reditum puero, senis est si gratia vilis;
si non vis puero parcere, parce seni”.
Dixerat haec, sed et haec et multo plura licebat
dicere: regressus non dabat ille viro.
Quod simul ut sensit, “nunc nunc, o Daedale” dixit,
“ materiam, qua sis ingeniosus, habes.
Possidet et terras et possidet aequora Minos;
nec tellus nostrae nec patet unda fugae.
Restat iter caeli: caelo temptabimus ire;
da veniam coepto; Iuppiter alte, meo.
Non ego sidereas adfecto tangere sedes;
qua fugiam dominum, nulla nisi ista via est.
Per Styga detur iter, Stygias transnabimus undas;
sunt mihi naturae iura novanda meae”.
Ingenium mala saepe movent: quis crederet umquam
aerias hominem carpere posse vias?
Remigium volucrum, disponit in ordine pinnas
et leve per lini vincula nectit opus;
imaque pars ceris adstringitur igne solutis,
finitusque novae iam labor artis erat.
Tractabat ceramque puer pinnasque renidens
nescius haec umeris arma parata suis.
Cui pater “his” inquit “patria est adeunda carinis,
hac nobis Minos effugiendus ope.
Aera non potuit Minos, alia omnia clausit:
quem licet, inventis aera rumpe meis.
Sed tibi non virgo Tegeaea comesque Bootae,
ensiger Orion, adspiciendus erit.
Me pinnis sectare datis, ego praevius ibo,
sit tua cura sequi, me duce tutus eris.
Nam, sive aetherias vicino sole per auras
ibimus, inpatiens cera caloris erit;
sive humiles propiore freto iactabimus alas,
mobilis aequoreis pinna madescet aquis.
Inter utrumque vola; ventos quoque, nate, timeto,
quaque ferent aurae, vela secunda dato”.
Dum monet, aptat opus puero monstratque moveri,
erudit infirmas ut sua mater aves.
Inde sibi factas umeris accommodat alas
perque novum timide corpora librat iter.
Iamque volaturus parvo dedit oscula nato,
nec patriae lacrimas continuere genae.
Monte minor collis, campis erat altior aequis;
hinc data sunt miserae corpora bina fugae.
Et movet ipse suas et nati respicit alas
Daedalus et cursus sustinet usque suos.
Iamque novum delectat iter positoque timore
Icarus audaci fortius arte volat.
Hos aliquis, tremula dum captat harundine pisces,
vidit et inceptum dextra reliquit opus.
Iam Samos a laeva (fuerant Naxosque relictae
et Paros et Clario Delos amata deo),
dextra Lebinthos erat silvisque umbrosa Calymne
cinctaque piscosis Astypalaea vadis,
cum puer, incautis nimium temerarius annis,
altius egit iter deseruitque patrem.
Vincla labant et cera deo propiore liquescit,
nec tenues ventos bracchia mota tenent.
Territus a summo despexit in aequora caelo;
nox oculis pavido venit oborta metu.
Tabuerant cerae: nudos quatit ille lacertos
et trepidat nec quo sustineatur habet.
Decidit atque cadens “pater, o pater, auferor” inquit;
clauserunt virides ora loquentis aquae.
At pater infelix nec iam pater “Icare” clamat,
“Icare” clamat “ubi es, quoque sub axe volas?”.
“Icare” clamabat, pinnas adspexit in undis;
ossa tegit tellus, aequora nomen habent.
Non potuit Minos hominis conpescere pinnas,
ipse deum volucrem detinuisse paro.
Minosse aveva opposto ogni barriera alla fuga dell’ospite:
ma lui trovò un’audace via di scampo, con le ali.
Dedalo, quand’ebbe rinchiuso il frutto di una colpevole maternità,
uomo mezzo toro, toro mezzo uomo:
“Si ponga fine al mio esilio” disse, “giustissimo Minosse;
che la terra dei padri accolga le mie ceneri.
E poiché in patria, tormentato da ingiusto destino,
non potei vivere, concedimi di potervi morire.
Concedi il ritorno al ragazzo, se il vecchio non può avere la grazia,
e se al ragazzo non vuoi perdonare, perdona ad un vecchio”.
Così diceva: ma lui poteva dire questo ed altre cose ancora:
Minosse non gli concedeva di tornare.
Quando di questo egli fu certo: “Ora” disse, “ora, Dedalo,
hai l’occasione di mostrare il tuo talento.
Padrone della terra è Minosse, e padrone del mare:
né la terra né l’acqua sono aperte alla fuga;
resta la via del cielo: tenteremo di andare per il cielo.
E tu perdona, sommo Giove, la mia impresa.
No, non aspiro a raggiungere le dimore celesti:
ma per fuggire il tiranno c’è quest’unica via.
Se lo Stige offrisse un passaggio, anche le onde stigie varcheremmo:
devo ormai sovvertire le leggi della mia natura”.
Spesso le sventure aguzzano l’ingegno. Chi avrebbe mai creduto
che l’uomo potesse percorrere le vie dell’aria?
Egli dispone in ordine le penne, che sono remi al volo degli uccelli,
poi con fili di lino lega insieme il fragile lavoro,
e la parte inferiore salda con cera sciolta al fuoco.
Era finito ormai il lavoro di quest’arte nuova.
Il ragazzo maneggiava la cera e le penne sorridendo raggiante,
senza sapere che per le sue spalle era quell’apparato.
Gli disse il padre: “Con questa nave si dovrà tornare in patria,
con questo mezzo sfuggiremo a Minosse.
Ha chiuso ogni altra via Minosse, ma non l’aria:
con la mia invenzione forzerai la sola via permessa, la via dell’aria.
Ma né la vergine di Tegèa dovrai guardare,
né il compagno di Boote, Orione armato di spada;
dovrai seguire me con queste ali: aprirò io la via,
tu bada di seguirmi: sarai sicuro sotto la mia guida.
Perché, se andremo per le vie del cielo vicino al sole,
la cera non sopporterà il calore;
ma se batteremo le ali in basso, vicino al mare,
si bagneranno le veloci penne d’acqua marina.
Vola tra cielo e mare: abbi timore anche dei venti, figlio mio,
e lascia andar le vele dove le brezze ti sospingeranno”.
Con questi consigli gli adatta il lavoro e ne mostra il movimento,
come la madre insegna il volo agli uccellini incerti.
Poi applica alle spalle le ali fatte per se stesso
e libra cautamente il corpo per la nuova via.
Pronto ormai a volare diede un bacio al figlio
e le guance del padre lasciarono scorrere lacrime.
C’era una collina, più bassa di un monte, un rilievo sopra la pianura:
di qui si lanciarono insieme nell’infelice fuga.
E muove le sue ali e si volge a guardare quelle del figlio,
Dedalo, pur continuando al sua corsa.
Ormai la novità del viaggio li diverte, e abbandonato ogni timore
Icaro vola più arditamente, con quella tecnica audace.
Li vide un pescatore, mentre cercava di pigliare i pesci
con la lenza vibrante, e la sua mano lasciò cadere l’opera intrapresa.
Già si vedeva Samo a sinistra (e già lasciate indietro
erano Nasso Paro e Delo amata dal dio di Claro)
e a destra si vedevano Lebinto e Calimne ombreggiata di selve
e Astipelèa circondata da acque pescose,
quando il ragazzo, fatto temerario dall’imprudenza dell’età,
spinse più in su la rotta e lasciò il padre.
Si allentano i legami: la cera, per la vicinanza del dio Sole, si scioglie
e il moto delle braccia non regge più l’impalpabile vento.
Atterrito guardò giù dal cielo la distesa marina
e una notte di tremore e di paura venne a velargli gli occhi.
La cera s’era sfatta: egli scuote le braccia ormai nude
e trema e non ha nulla su cui sostenersi.
Comincia la caduta, e cadendo: “Padre, padre, sono trascinato giù” gridò,
e mentre parlava le acque verdi del mare gli chiusero la bocca.
Il padre sventurato, non più padre ormai: “Icaro” grida,
“Icaro, dove sei, sotto quale cielo stai volando?”.
“Icaro!” gridava: ma scorse le ali tra i flutti.
La terra ora ricopre le sue ossa, e il mare ne conserva il nome.
Non potè Minosse tenere a freno le ali di un uomo,
e io mi accingo a trattenere un dio alato!