29-19 a.C.
VIRGILIO, Eneide, 6, 9-44
At pius Aeneas arces, quibus altus Apollo
praesidet, horrendaeque procul secreta Sibyllae,
antrum immane, petit, magnam cui mentem animumque
Delius inspirat vates aperitque futura.
Iam subeunt Triviae lucos atque aurea tecta.
Daedalus, ut fama est, fugiens Minoïa regna,
praepetibus pinnis ausus se credere caelo,
insuetum per iter gelidas enavit ad Arctos
Chalcidicaque levis tandem super adstitit arce.
Redditus his primum terris tibi, Phoebe, sacravit
remigium alarum posuitque immania templa.
In foribus letum Androgeo; tum pendere poenas
Cecropidae iussi (miserum!) septena quotannis
corpora natorum, stat ductis sortibus urna.
Contra elata mari respondet Cnosia tellus:
hic crudelis amor tauri suppostaque furto
Pasiphaë mixtumque genus prolesque biformis
Minotaurus inest, Veneris monumenta nefandae;
hic labor ille domus et inextricabilis error;
magnum reginae sed enim miseratus amorem
Daedalus ipse dolos tecti ambagesque resolvit,
caeca regens filo vestigia. Tu quoque magnam
partem opere in tanto, sineret dolor, Icare, haperes.
Bis conatus erat casus effingere in auro,
bis patriae cecidere manus. Quin protinus omnia
pelligerent oculis, ni iam praemissus Achates
adforet atque una Phoebi Triviaeque sacerdos,
Deiphobe Glauci, fatur quae talia regi:
“Non hoc ista sibi tempus spectacula poscit;
nunc grege de intacto septem mactare iuvencos
praestiterit, totidem lectas ex more bidentis”.
Talibus adfata Aenean (nec sacra morantur
iussa viri) Teucros vocat alta in templa sacerdos.
Excisum Euboicae latus ingens rupis in antrum,
quo lati ducunt aditus centum, ostia centum,
unde ruunt totidem voces, responsa Sibyllae.
Ma il pio Enea le vette che l’alto Apollo protegge e le lontane solitudini dell’orrenda Sibilla, l’antro smisurato raggiunge di colei cui il grande intelletto e l’animo il dio di Delo ispira con i suoi vaticini, svelando il futuro. Già penetrano nei boschi sacri di Trivia, ma anche sotto i suoi tetti dorati. Dedalo, secondo la fama, nella sua fuga dai regni minoici, sulle veloci ali osando affidarsi al cielo, per inusitati percorsi vogò fino alle Orse glaciali e live alla fine si posò sulla cittadella di Calcide. Restituito qui per la prima volta alla terra, a te, Febo, consacrò il remeggio delle sue ali e innalzò smisurati templi. Sulle porte, l’uccisione di Androgeo, poi i Cecropidi condannati (oh sventura!) a offrire ogni anno in punizione sette corpi dei loro nati: viene sollevata per trarre le sorti l’urna. Di fronte, alta sul mare, vi corrisponde la terra di Crosso, e lì il crudele amore del toro e, accoppiata mediante una frode, Pasifae, e la discendenza bastarda di un figlio biforme, il Minotauro, se ne sta, per Venere un monumento innominabile; e qui la costruzione famosa della sua casa dagli inestricabili rigiri; ma poi, per pietà del grande amore di una regina, Dedalo stesso i trucchi del palazzo tortuoso risolse, dirigendo con un filo i ciechi passi. Anche tu grande parte in un’opera così grande, se lo permettesse il dolore, Icaro, avresti. Due volte tentò di riprodurre la tua caduta nell’oro, due volte caddero le mani paterne. E più oltre, tutte le scene avrebbero percorso con gli occhi, se, già spedito innanzi, Acate non fosse tornato, ma anche con lui la sacerdotessa di Febo e di Trivia, Deifobe figlia di Glauco, che proferisce tali parole verso il re: “Non sono questi gli spettacoli richiesti dal momento; ora sarebbe meglio immolare da un gregge non domato sette giovenchi e altrettante pecore scelte, secondo l’usanza, con due denti”. Così dice a Enea (né i sacrifici ritardano, secondo i comandi, gli uomini), e i Teucri invita nei templi profondi la sacerdotessa. Scavato nel fianco immenso della rupe euboica, è l’antro, dove larghi conducono cento accessi per cento porte, e donde si riversano altrettante voci, i responsi della Sibilla.