Ceffr03

1487

NICCOLÒ DA CORREGGIO, Fabula di Cefalo, Ferrara 1487

Testo tratto da: Tissoni Benvenuti A., Opere: Cefalo, Psiche, Silva, Rime / Niccolò da Correggio, Laterza, Bari 1969

 

ARGOMENTO:

Salute, o popolo. Un pietoso aspetto

ve apporto cum annunzio di dolore,

mostrando prima come a gran dispecto

se tien, se dispreggiar se sente, Amore,

e presto presto ne vedrete effecto

di l'Aurora e Cefal suo amatore:

chè cum molta bellezza a Amor non piace

che onestà servi longamente pace.

Bello era questo Cefal ultra modo

e dall'Aurora desïato assai;

da lei richiesto, al marital suo nodo

fallir non volse in consentirli mai.

La dea per questo gli scoperse il frodo

dicendo: - Se fai prova, tu vedrai

che fede abbia a te Procris, che tanto ami,

se, travestito, con toi don la chiami! -

Cefal la attentarà, ciascun sii attento,

e Procri in sdegno se ne fuggì via;

pacificata poi, chiamando il vento,

uccise lei, sua cara compagna.

E di quanto dolor, quanto tormento,

ogni dì fia cagion la gelusia,

chè sentendo la donna aura chiamare

stimò l'Aurora quello adimandare.

Cefal un dardo avea da lei donato,

che da lui tratto, mai in fallo non coglie

(così fu già da Dïana fatato);

or sentendo costui mover le foglie,

che fusse qualche fere ebbe exstimato.

tirò quel dardo e percosse la moglie,

e ferilla de un colpo tanto forte

che in poco d'ora la condusse a morte.

Pianse Cefal el caso acerbo e duro,

lei pianse ancor, chiedendo a lui in quell'ora

cum pietose parole e con scongiuro,

che dopoi lui non pigliasse l'Aurora.

E vederassi el fin lugubre e obscuro,

e come morta ogni ninfa la onora.

Visse gielosa e di lei fama vola,

e gelusia fu l'ultima parola.

Vedrete poi che una greca historia

narra dopoi questa infelice morte

come a demostrar la excelsa gloria

Dïana ven cum la sacrata corte

e contra el fatto acerbo obtien victoria,

mutando in riso la plorata sorte.

Fece vendetta e poi soccorse al fine,

chè tarde non fur mai grazie divine.

Non vi do questa già per comedìa,

chè in tutto non se observa il modo loro,

nè voglio la crediate tragedìa,

seben de ninfe gli vedreti il coro:

fabula o historia, quale ella se sia,

io ve la dono, e non precio d'oro;

di quel che segue lo argumento è questo;

silenzio tutti, e intendereti il resto.

 

ATTO I

AURORA    Cefalo, io son quella celeste Aurora

che dal vecchio Titon tanto è bramata,

e sum colei che con breve dimora

rimeno il giorno e l'aria ho illuminata.

La tua vaga bellezza che me accora,

Ch'io sia discesa qui la cagione è stata:

se consentire vorai a i desir mei,

ti porrò in ciel tra gl'imortali dei.

  Non me schivar, chè le mie bianche chiome

innamoròn già il Sol che 'l mondo vede,

e per me porta ancor gravose some,

e per seguirmi mai non ferma il pede,

tanto gli piace la mia vista e il nome

che ritrovar più bella mai non crede.

or guarda quanto Amor alciar ti vole

dandote me che tengo a schivo il Sole!

CEFALO    O sancta dea che dal excelso trono

discesa sei per un vile amatore,

a la tua deïtà chiedo perdono,

chè in mio arbitrio non è de darte il core:

per marital connubio aggionto sono

a Procri ninfa, e seria grande errore

violar per altri le sacrate legi:

dunque, madonna, il tuo desio correggi.

  Cum questo pacto da Dïana l'ebbi

e Lucina e Imeneo sacròn le tede;

dapoi in tanto amor di quella crebbi

che cosa grata più di me non vede;

di lei dolermi mai più non potrebbi,

s'io la ingannasse e a me rompesse fede:

quella è la mia speranza e ogni mio bene,

e quella sola in vita or mi mantiene.

AURORA    Dunque, paccio garzon, tu sei sì ardito

che a' desir nostri contrastar tu credi?

ma io te acerto che a peggior partito

ti trovarai, e voglio che tu il vedi:

lassa toi panni e non parer marito,

tentala cum toi doni, e vedrà' alora

si teco in un voler casta dimora.

  Amar si vòl come Elletron discreta

quando che al stral de amor se aperse il core;

a quel che si ama, mai cosa si vieta,

quantunque la gli fusse in disonore.

Ben al principio ogni foco se aquieta,

ma quando ha supportato il suo furore,

ad asmorsarlo mai non vi è rimedio.

Così fa Amor dove ha posto lo assedio.

CEFALO    Più non parlar, chè tardar non intendo

ch'io faccia quanto racordato me hai;

di maggior servitù, dea, mi te rendo,

se per tuo servo pur me acceptarai.

Procris sposai: se mi fesse alcun mendo

farebbe mal, chè de bon cor la amai.

Riman in pace, ch'io voglio far prova

si fidele al suo servo se ritrova.

 

Partito CEFALO, AURORA parla a se stessa:

 

  Quanti son quelli a chi fortuna adversa

contrasta sempre, e amante è mai felice;

tanto la sort'è agli omini perversa,

che alcun contento al mondo non si dice.

Qual donna è occisa e qual da i dei conversa,

e quale è in pena, e 'l morir non gli lice;

Cefalo or provarà, se Amor no'l ceca,

a che vil fine uno amante se areca.

  Fin tra nui dei or questa cosa è certa:

son milli error, se se implichiamo in terra!

Non fu Vener cum Marte ricoperta

da Vulcan nelle rete onde la guerra

nacque col Sol che fe' l'opera aperta

a tutto el ciel? Se adunque om mortal erra,

lo aiuta el Fato come credon molti,

non lo sforza però, secondo i stolti.

  Piacer non me è, però de odiar convenni

ciò che a lui piace, tanto Amor mi ponse;

quel dì che in libertà vinta a lui demmi,

me a mezzo il pecto, e lui nei panni gionse,

e da quel giorno in qua poi nel cor stemmi,

cum tanta forza Amor me li congionse!

Or ecco Cefal che ne vien mutato:

quietar mi voglio in qualche ombroso lato.

CEFALO     Chiama madonna giù, discreta ancilla,

ch'io ho bisogno di parlarli alquanto.

ANCILLA   El me conviene andar fora a la villa

per gran facende: io non potria star tanto!

CEFALO    S'el te concede Iddio vita tranquilla,

grato servizio e de le serve il vanto,

se bon merto al servir te fia ancor dato,

fallo, ch'io scio non servirai l'ingrato.

PROCRI     Chi è quel che inanti a quella nostra porta

teco ragiona e fa parole tante?

ANCILLA   L'è un, madonna, che più merze porta

e mostra esser famoso mercadante.

PROCRI    Oh come hà electo ben fidata scorta!

Or su fa che me expecti lì davante.

Tu via camina, e studia el tornar presto!

Ma via, che già te hai smenticato il cesto!

 

CEFALO in abito di banchiero:

 

  Salve, madonna. Vostra fama audita,

come fanno i par nostri a vui ne vienni

e per tra gli altri aver robba fiorita,

occulta al vulgo e a le piacce la tenni.

Ma la virtù che in vui sento infinita,

senza parlar cognosceramme a cenni;

se cose grate vi seran, qual sono,

senza denar ve le oferisco in dono.

  Questo è il pomo che sforzò Atalanta

per sua ricchezza uscir giù del sentiero,

quando di corridor fra turba tanta

Ippomene trovossi esser primiero;

Questa è la tela che ogni istoria avanta

ove ogni studio pose e ogni pensiero

Minerva alor che Aragne seco perse,

Quando per sdegno in ragno la converse.

  Questo è un liquor che con mirabil prove

la bellezza a ogni donna radoppiava,

questo usò già per suo dilecto Giove

quando cum qualche amante dimorava;

questo altro a darlo a ber, l'amor rimove,

e questo cum più forza poi lo agrava;

l'olio che usò Tiresia questo è desso,

che fa cangiar de l'uno in altro sesso.

  Ma io ho ancora un ben sacrato anello

che a riguardarvi ogni cosa si vede,

questo avea Iuno, quando in un ocello

Iove ne andò per rapir ganimede,

e mirandovi dentro vide quello,

questo altro ha forza a far servar la fede,

e se una donna avesse un rio marito,

non curi d'altro e porti questo in dito.

 

Qui CEFALO manda via el suo fameglio.

 

  Ma che bisogna dir tante parole?

Questo è vil dono, a quel ch'io spero ancora!

Cognoscer, Procris, la stagion si vòle,

chè in milli anni non vien quel che in un'ora.

Chi perde il tempo, indarno poi si dòle,

e in sua bellezza un fior poco dimora;

se tu consenti a me or che sei in fiore,

toi fiano i doni, e me tuo servitore.

 

Qui PROCRIS a' preghi del marito se rimase de fuggire, no 'l cognoscendo mutato.

 

Deh non fugire, eh non sì altiera in vista!

Odime alquanto e scolta i preghi mei,

chè fama mai per crudeltà se acquista.

Bellissima sei pur, cruda non déi!

Non sciai che Amor non vòl che se resista

a' colpi soi? Così vinto mi dèi

subbito ch'io ti viddi. Eh, non fuggire,

forza non ti farò! Deh, stammai a udire!

  Iove non son, non son Febo o Mercurio,

ch'io mi sappia far cigno o farmi un toro!

Son un tuo servo, e cum felice augurio

te anunzio ultra quei don cento onze d'oro.

Qui fora de la terra è un mio tugurio

dove alcun non va mai: piglia el tesoro,

che doppo quello io mi ti dono e lego.

Segui con utel tuo questo mio prego!

  Cosa secreta mai non se riprende,

el tempo che si perde mai non torna.

Qui non sarai veduta: or che se attende?

Quel se ha a dolere che al suo ben sogiorna.

Secreto è il loco: el sol pur non vi splende!

Bella sei tu, sol manca che sii adorna

di veste come io intendo, ultra il tesoro.

Deh, non mi tener più! Vedi ch'io moro!

 

Qui vede il suo fameglio CEFALO e da lui va. In quel mezo PROCRI a se stessa parla così dicendo:

 

  O combatuto cor mio, che farai?

Da un lato Amore e i bellissimi doni

stimulan forte. E chi ne vide mai

di simil? Cefal, vo' che mi perdoni,

chè s'io lo accepto non inganarai

e contra me non fia ch'io ragioni.

Ma il dover pure al mio desio contrasta;

poi Amor me dice: - Ogni secreta è casta -

 

Stato alquanto CEFAL col fameglio e mandatilo via, ritorna ala moglie PROCRI e lei a lui parla cusì:

 

Qual che tu sei, che cum larga mano

cum la persona tua l'oro prometti,

perchè te mostri, nelo aspecto, umano,

voria por fine a toi amorosi effetti.

Ma condurmi a tale opra è un caso strano,

benchè Amor me abbia già tra soi subietti

e tutta già per te mi sento presa,

ma far contra il mio Cefal pur mi pesa.

 

Fuge PROCRI cognosciuta il marito e dice:

 

  Non sia mai vero, ingratto e disleale,

che mai più teco viva in tal sospecto!

L'amor e la mia fede che mi vale,

poi che oggi facto me hai tanto dispecto?

El sdegno e l'onestà mi prestan l'ale

ch'io mi levi danante al tuo conspetto.

Non me seguire, che tu ne perdi i passi,

nè creder che impunito il ciel ti lassi!

 

PROCRI fugendo è seguitata da CEFALO, il quale a lei prega dicendo così:

 

  Cara consorte mia, perchè ti parti?

non fugir, torna quivi ala tua stanza!

per dubi non l'ho facto, o per provarti,

non crederei di te tanta fallanza!

Non correr sì veloce, almanco guarti

di qualche sterpo o spino! E questo è usanza

tra gli amanti, alcun scherzo! E son ben certo

che tu mi cognoscisti ancor coperto.

 

PROCRIS intrata nel bosco, CEFALO da sé parla:

 

  Che bisognava a me paccio cercare

nel gionco el nodo, o ne la arena el grano?

Trovato ho quel che io non volea trovare;

ohimè, come fui mai cotanto insano?

Che volevo io di questo prova fare?

Or fatto è: non mi de' parer strano,

ché gionto premio a così gran piacere

se faria Iuno dal suo ciel cadere!

 

Qui la AURORA col coro de le ninfe festeggia per il caso inter venuto novamente a CEFALO:

 

  O mie ninfe, iubilate,

biastemate or meco Amore!

Mie bellezze disprezzate

volse tòr quel traditore,

ma ben siamo vendicate

cum suo danno e disonore.

Vendicato è il mio dolore,

biastemate or meco Amore!

  El crudel me accese il petto

sol per far di me vendetta,

poi impiombò quel giovenetto

che al mio amor si fe' disdetta.

Ma ben vist'ho con effetto

che chi offende, offesa expetta:

tra lor posto è grande errore,

biastemate or meco Amore!

  Fùggia mo' la mia richiesta,

segua Cefal Procri mo'!

Pur se accorgi se l'è onesta,

che la fugge quanto pò!

fate meco, o ninfe, festa,

vui cantate, io ballarò.

Festegiam con tutto il core,

biastemate meco Amore!

 

 

ATTO II

Qui segue il secondo acto di questa fabula, nel qual PROCRI si vede uscir de un bosco, la quale scontratase in DIANA, a lei fa orazione come segue qui, dicendo così per ordine:

 

silenzio

 

Dïana, ohimè, che un vergognoso caso

oggi m'è occorso contra la tua lege!

Cefal mutato se avia, persüaso

trarmi per premio de la onesta grege;

pur l'onor mio nel suo loco è rimasto,

ma tanta offesa mal per me si rege.

Conobil presto, e in sdegno sum fugita;

tu che ami l'onestà, porgime aïta!

  Tutto me ha facto per lo antico amore

che ala sua Aurora questo iniquo porta.

Adopra contra a lui, dea, il tuo furore,

ché mai più intendo abandonar tua scorta.

Come Calisto mai non feci errore,

né de acto tristo in me mai te sei accorta.

Lasciami andar per le tue limpide acque,

ché tal vita al mio gusto sempre piacque!

DIANA       Procri mia cara, quella antiqua fede

che già servasti per le silve meco,

che al bisogno ti lassi non concede,

né cefal meritò de averte seco.

Gran mancamento è de chi presto crede!

Vientene meco in questo ombroso speco,

che di virgine(e) vesti io vo' vestire,

che sempre possi di mie ninfe dirte.

  E perché tu non stii tra l'altre occiosa,

Florida, dammi quel fatato dardo:

l'occhio o il desio non bramarà mai cosa

che, tractolo, al ferir si trovi tardo:

questa virtù non vo' ti sia nascosa;

e ancor ti dono un can tanto gagliardo,

che 'l lion de ardire e di prestezza el tigre

avanza, e le altre fere a lui fian pigre.

 

DIANA veste PROCRI a guisa de ninfa del bosco, e CEFALO, de ciò non sapendo, uscendo indi, parla così seco:

 

  O sfortunato amore, o iniqua sorte!

O amante troppo al suo damno veloce!

Perché non viene a me pregata morte,

a cui quanto più vivo, el viver nòce?

Sequo la donna mia per vie più storte,

né di lei sento, for che la mia voce,

la qual dì e nocte al suo chiamar non tace.

Deh, rendi a Cefal tuo, Procri, ormai pace!

  Tu te ne vai tra le silve sicura,

e temi chi più te ama che se stesso!

Solevi aver tra le ninfe paura,

e non temi or che te son gli orsi appresso.

Pigliasti ardir per mia maggior sciagura!

Né de vederti alquanto mi è concesso.

Scrivote in sassi e chiamo: Ecco risponde

e aiuta el pianger mio le verde fronde.

 

PROCRI come ninfa esce del bosco cum lepor e cane e, vòltossi, CEFALO la viddi, cominciolla a sequire che fuggiva.

 

  Lassa li sdegni omai, lassa il dolore!

Fallai, il confesso, deh perdona omai!

Raffrena, ninfa bella, il tuo furore,

ché senza te non credo viver mai.

Che temi? Non salvasti il nostro onore

quando scortesemente io te tentai?

Deh, non fuggire, o Procri, alquanto expecta,

odime, e fà con le tue man vendecta.

  Dove te offese le silvane fiere

che di darli la morte te diletti?

Se pur tue voglie son sì crude e altere,

perché quel dardo al mio pecto non metti?

S'io non son degno averti per mogliere,

né véndica ancor sei de' toi dispetti,

acceptami nel numer de toi servi

fà di me strazio, e lassa andare i cervi.

PROCRIS     Cefal non mi seguire, anci stà largo!

Moglie non ti son io, ma donna strana.

Non me impedir per queste silve el vargo,

ch'io son votata ninfa de Dïana.

Non me seguir, che se fosti ben Argo,

l'affaticarti seria cosa vana.

Vanne a tua posta e qui non far dimora

e de più onesta donna te inamora.

CEFALO     Amar non vo' mai più donna che viva,

né de seguirti mai stanco vedrommi.

Febo la sua crudel Dafne seguiva,

né in minor laccio Amor per te ligommi;

Garamante ancor lei Iove fugiva

e uno animal la tenne; io perderommi

d'animo per seguire una mia amica?

Or come cacciarei gente inimica?

Fuggime pur, se sciai; per fin ch'io viva

con ogni studio intendo de seguirti.

Ove el piè tocca, ove el corpo ariva,

abbraciarò in sua vece e lauri e mirti,

e voglio la mia morte alfin se scriva

per fama al mondo de famosi spirti;

sopra ogni querza e tenerel virgulto

Cefalo e Procri ancor se vedrà sculpto.

  Non invidiava alcun celeste nume,

satiri, fauni, e non omo mortale,

solo il cacciar me avea posto in costume;

non stimava potermi avenir male.

O dee de' boschi, o vui ninfe del fiume,

fermate quella! E tu, Amor, dammi l'ale!

Paratevegli inanti, o vui pastori,

se Amor ve adempia i desiati ardori!

 

Un pastor vecchio, udendo CEFALO, si leva e ritenendo PROCRI fugiente in tal modo dice:

 

  Deh, non fugir, donzella,

colui che per te mòre

e senza te del suo viver non cura!

Poi che sei tanto bella,

piatà del suo furore,

ché longo sdegno in gentil cor non dura.

E non stracciar toi panni,

e non tanta paura,

che qui non giocarà forza né inganni.

Poi che non te comovi

e da lui i passi torci,

el convien ch'io ti sforci:

ferma qui i passi e fà che non ti movi!

CEFALO      Piatà, pastor, de lo infelice amante!

E tu piatà, mia ninfa, a tal tormento!

Se tu vedesti, per seguirte, quante

sono le pene, e udesti el mio lamento!

Son lacerato dal capo a le piante

tra questi sterpi, e più non mi risento.

Se la mia morte brami e n'hai pur gioco,

fermate, e me vedrai finir qui in poco.

  Ma se tu pensi ben la immobil fede

e del tuo amante i dilicati vezzi,

non potrai far che non abbi mercede

e che 'l cor di diamante non si spezzi.

Lasciai de Aurora le superne sede

e tu più di tal fede un sdegno aprezzi,

se ricompensi con l'amaro il mèle.

Scio non serai contra di me crudele!

 

PROCRI disdignosamente parla:

 

  Or su, non più, poi che sforzata sono.

Testimonio mi sia Iove, del tutto

mai questa offesa darò in abandono

fin che 'l mio onor non è al suo ver condutto!

CEFALO     Anzi, da ora io ti chieggio perdono,

e perso tu l'onor, sarei distrutto:

chi scia meglio di me come andò el fatto,

che mai ti pòti indur per alcun patto?

  L'ira del cel se me rivolga adosso

sì che spetacul sia di ciascun male,

se mai mi dolsi, nè doler mi posso,

di te, che dea del cel tanto non vale!

PROCRIS    Anzi no sei ma' tu di grazia mosso,

e se impossibile è farti immortale,

non più, poi che cum ver tu m'hai per casta,

di quel che è dicto in fin questa ora basta.

 

El pastor che ritiene PROCRIS invita chiamando altri pastori a festegiare insiemme in versi de rime sdruzole:

 

  El non è manco a nui disconvenevole,

o pastor da zampogna e tu da cetera,

a non far qui qualche acto sollacevole

quanto erano a color da l'età vetera;

però co' un canto o con un sòn piacevole

cantiam d'amore in fin che el caldo pretera.

Lor parlarano, nui qui sotto a una acera

laudiamo Amor che sì gli amanti lacera.

 

Egloga de CORIDONE e TIRSE.

 

  Su, Tirse, leva e chiama Alfesibeo,

Damone, e io dirò verso menalio

come Sarpago a l'ombra e Pasifeo.

  Senza altro aiuto dal fonte Castalio

la musa ancor fronduta sonaremo

che ci diè Pan sul -monte Acidalio;

  over sonati vui, nui cantaremo

quando nel fiume a l'ombra di quei faggi

Galatea vene a fuggir Polifemo.

  Cantiam la ninfa mia, che par non aggi

più di me cura, e vassene sì altera

che 'l sol, vedendo lei, declina i raggi.

COR:         Deh, dine quando sopra la rivera

nuda giongesti quella mia inimica

insuperbirsi a vagheggiar sua spera!

TIR.          O Coridon, perché vo' tu ch'io dica

di quel che al fine a lacrimar mi mena?

Cantiam d'amor, qui la stagione è aprica!

  D'amanti questa silva è tutta piena:

chi gode, tace, e in fin dal cel s'asconde;

sola cantando piange Filomena.

  Tessiamo adonque de 'ste verde fronde

un'umile casetta, e ognun si prenda

una ninfa per forza in mezzo l'onde.

DA.          E non freneticar! Fà che 'l se intenda

che sol cantiamo qui per quei dui amanti

pacificati, e ' Amor grazia si renda!

  Grazie rendiamo adunque tutti quanti

e sia laudato el signor nostro Amore

cum dolci soni e cum usati canti.

(TIR.)        Come vo' tu ch'io canti, o buon pastore,

l'altrui felicità, se 'l mio tormento

a pianger mi conduce a tutte l'ore?

(DA.)        Del tempo come va, resta contento,

né ti ricordi più, Tirse, di quella:

chi troppo abbraccia spesso stringe il vento.

AL.          In questa erbetta verde e tenerella

mi ricordo aver già in braccio Elisea,

gli acti ricordo, il volto e la favella.

COR.         ed io ricordo ancora Galatea

fuggirmi inanti a questo sito florido

e rider quanto più mi distruggea.

TIR.          O che insolenzia alora era in te Corrido,

seguir colei che ardea per un garcione

sul primo pelo, e tu già pastor orido!

  Andiamo, ché partir si vòl Damone,

e li pasciuti greggi al fiume mandise:

dicto han gli amanti sua longa ragione,

  or lacti e fiori in tanta festa spandise.

 

 

ATTO III

Qui segue il terzio acto nel quale PROCRI e CEFALO pacificati insieme escono del bosco avendo Lelapa cane cum seco, e PROCRI gli dona queste cose, dicendo così a CEFALO:

 

  Quanti affanni e passion, quanti rancori

vengon tra amanti e paron cose strane!

Pur son refirmamenti de gli amori,

con milli oltraggi e parole villane;

ma quando se cognoscon de soi errori,

se vergognan de molte cose vane,

come io, che avendo già l'ira deposa,

più mi tormenta che null'altra cosa.

  La excelsa fama tua c'hai, mio consorte,

che excede a' nostri dì ciascun vivente,

vòl che, essendo più d'altri ardito e forte,

ti facci degno d'un mio car presente;

chè quando un vale e ha poi felice sorte,

la forza con lo ardir doppia si sente;

e quella cosa (de) ch'io ti ragiono

diede Dïana a me per grazia in dono.

  E questo è un dardo che è affatato in modo

che, tracto da ciascun, mai in fal non gionge;

che tu 'l possedi per mio amor, ne godo,

e sapi che più d'altri il ferro ponge:

per prova el dico, e voluntiera el lodo,

chè già l'ho tracto da presso e da longe

nè mai fera campò de le mie mani,

e Lelapa ti do, ch'è re d'i cani.

  Di questo teme ogni animal gagliardo,

temon di lu' i lïoni e le pantere,

ogni veloce tigre parria tardo

e timidi al fugir tutte le fere;

spinge orsi, lupi, lince e leopardo

e porci e tori, impaurite schiere.

Lassalo a quel che vòi, che a dirlo ardisco,

che occider già l'ho visto un basalisco.

  Acceptal per mio amor, che mai non nacque

omo di te più fortunato al mondo:

mentre servì' Dïana in le fredde acque,

cum questo occisi i pessi in mare al fondo,

e sol per te quando l'ebbi, mi piacque

e dissi: - Cefal fia un Ercul secondo! -

Servalo bene, e quando el provarai

Dïana invoca, e me recordarai.

CEFALO      Cara mia donna, i tuoi celesti doni

accepto con quel cor che sol Dio vede,

e perché lo error mio tu me perdoni,

l'alegrezza al responder non concede.

Quel che di toi presenti mi ragioni

credo: donarla te con tanta fede

Farebbe ogni vil cosa esser gagliarda!

Ma andiamo a casa ormai, ché l'ora è tarda.

  Vien, mi ristora di mei longhi affanni,

vien, ch'io te possa a mio modo abbracciare!

Vien, ti rivesti de gli usati panni,

vien, che di averti ancora non mi pare.

Vien, che un'ora mi pare un secol de anni

ch'io possa il dardo e questo can provare!

Vien, ch'el mi par che debbi esser rapita,

vien, Procri, cara a me più che la vita!

 

PROCRI, visto un cinghiale, dice a Cefalo:

 

  Eccoti il tempo che pòi far la prova:

lassa, Cefalo, il can, ritiene il dardo!

 

Cefalo a Lelapa:

 

Ecco el ginghial! Ah, Lelapa, và 'l trova!

Piglialo, traditor! Và là, gagliardo!

PROCRIS    Ohimè, l'entra nel bosco! El non mi giova,

tu no 'l potrai videre! Abbi riguardo,

come tu il segui almen, che qualche male

non te introvenga! El par che l'abbia l'ale!

  Che cosa non può Amor, che non fa Amore!

Chi pò slegar(se) da sua arte e ingegni!

Pur dianzi io ne fuggea tutta in furore,

e in un momento son placati i sdegni.

Adesso gli anni mi parebon ore

A starmi seco, e dolmi ch’el non vegni!

Egli è pur vero, e io son testimonio,

che amor non è che aguaglia el matrimonio.

  Pur non ritorna! El dovea seguitare:

in abito so’ ancor da venatrice;

qualche disgrazia gli potria inscontrare,

che al mondo io non sarei mai più felice.

Quanto più se aman queste cose care

Più affanno se ha ancor che non se dice.

‘Sta poca absentia sua più mi tormenta

Quanto più la presenzia mi contenta.

  Io andarò fra questo mezzo a casa

E vedrò come ben vadan le cose.

La sciocca fante sola è qui rimasa:

circassa è lei, che son tutte viziose;

tutta la casa, essendogli, travasa,

non gli esendo, diè aver più cose ascose.

Cefal non vien: gli averà facto preda.

Che torni salvo Iove gliel conceda!

 

PROCRI entra in casa e CEFALO esce dal bosco così dicendo:

 

  Io non ritrovo el can, nè trovo l’orma;

sangue non veggio ne veggio pedate;

non veggio Procri e alcun non me ne informa

dove queste due fere siano andate.

Meglio serà che quivi alquanto dorma,

ché le pupille mie non son serrate

da l’ora in qua ch’io seguitai mia moglie;

star voglio al fresco de ‘ste ombrose foglie.

  Aura suave, al mio bisogno spira!

Soccorri a lo affannato cacciatore!       

Cacciai doe fere, e l’una al bosco gira,

ch’io non la trovo, e quella altra il mio core

seco portava, tutta accesa d’ira:

pur la mossi a pietà del mio dolore.

Soccorri lo affanno in tante pene:

medico alle fatiche, aura mia, viene!

 

Un FAUNO cognosciuto CEFALO, falsamente lo accusa a PROCRI che lo aspettava a la finestra, dicendo:

 

  Liggiadra ninfa che te stai pensosa,

forsi el tuo amante con desio l’aspetti:

gran ragion hai, se sei di lui gilosa,

ch’io l’ho lassato solo, e par che expetti

e chiama certa donna o sia amorosa;

dir non scio el nome, ma de udirlo stetti,

e tanto me accostai dove dimora

che udir mi parve nominar l’Aurora.

  Adio, ti lasso. El gli starebbe bene

Che tu el pagassi de un simil partito;

a colui che’l fa , far se gli conviene:

un cimer gli seria ben investito!

Tu te consumi qui misera in pene,

e un’altra donna gode il tuo marito:

ma se al consiglio mio tu crederai,

de un nuovo amante te provederai.

PROCRIS      Sacrato fauno e de le silve idio,

dove hai tu visto tanto mio dolore?

Udisti con sua bocca Cefal mio

Chiamar colei che gli ha robato il core?

Sia maledecto alor che in acto pio

Io me riconciliai col traditore!

FAUNO      Udillo e viddi, e simil nome certo

Mi parve risonar per quel diserto.

  Duolmene, cara Procri. Io me ne vo,

comandami, s’io posso altro per te.

Se tu ‘l vorai vider, te ‘l mostrarò,

ma farai bene a non servarli fé.

Se me ami, per tuo amore io morirò,

né un servo come me lasciar si de’;

scio che sei savia, io non parlarò più:

s’avraidi me bisogno, io sto là su.

PROCRIS     Andar ne voglio a quello ombroso loco

Ove contro di me tanto se adopra,

e s’io li giongo a quel nefando gioco,

al ciel convien che simil acto io scopra!

Poi intorno al bosco accenderò gran foco

Per arder quegli, e porromegli sopra,

e tutti insieme, a confusion di Venere,

voglio siàn sparti al vento àrrida cenere.

  Ecco ch’el ne ven dal suo amor vinto,

e finger si vorà dal cacciar stracco!

O gliel vò dir, se ven dal laberinto

E da i liti de’ Colchi tanto fiacco!

Milli bein sogni el me averà dipinto,

e de parole false ha colmo un sacco.

Ma s’io non me ne vendico, ch’io possa

esser sepulta viva in una fossa!

 

CEFALO vede PROCRIS alla finestra e parla così venendone a casa:

 

  Cercato ho, cara sposa, e silve e piani

da la ripa del fiume in fin sul monte,

la spiaggia tutta in ciascaduna mano,

sì che sudato me è più volte el fronte;

non vi è rimaso satiro o silvano,

pastori in campo o ninfa in alcun monte

ch’io non abi del cano adimandato:

non v’è che l’abia visto in alcun lato.

  Come tu sciai, a quella fera el missi

e dentro il bosco se ne introrno insieme;

non potii tener gli occhii tanto fissi

ch’io penetrassi quelle parte extreme

del folto bosco. – Ohimè - , più volte dissi,

come colui che del futuro teme:

             - s’io el perdo, la mia Procri n’arà sdegno ! –

e dissi el ver, ché ben ne vedo el segno.

  Altro non posso se non gli umer stringere,

ché stato è forsi de gli dei summa opra.

PROCRIS   Parti che sappi questo ingrato fingere?

E come a persuadermi ben si adopra!

Ma el falso non saprà tanto dipingere,

che la industria mia non lo discopra;

torni pur quando vòle a lo adulterio,

che io gli interromperò el suo desiderio!

 

Qui esce el FAUNO che accusò CEFALO, innamorato de PROCRI: vedendosi averli discordati insieme, chiama satiri e fauni cum strani e disusati instrumenti a lui; di quali alcuni in novi acti ballavan dicendo cusì:

 

  Sartiri alpestri, o vui mixta natura,

lassati alquanto i tenebrosi boschi:

piatoso Amor ha di nui preso cura!

  Lassa tu, Silvio, gli antri oscuri e foschi,

lassa le capre, e vien cum la zampogna,

ch’altro ch’elegia vo’ che tu cognoschi.

  Tu Leuco, vien, el tuo aiuto bisogna:

piatoso Amor oggi mi s’è dimostro:

sonar sempre agli armenti è a nui vergogna!

  Sillo, famoso nel satiro chiostro,

vien cum la corna che l’altrier per forza

tresti del fronte a quello orribil monstro!

  O di sambuchi o di canne o di scorza

fistole, tibbie, trombe, alpestre muse,

venite, fauni, ognun si snodi e storza.

  Di salti, balli e sòn non fate scuse:

venite a festeggiar, ché Amore il vòle

poi ch’al mio pecto il suo stral d’oro infuse.

  Procri, la ninfa bella, ora si duole

del superbo amator che la disprezza

e d’altra ninfa inamorar si vòle.

  Ardo come ogun scia, dela bellezza

di questa già gran tempo, e mai fui certo

de l’amor suo, ma scio or che me apreza.

  Fàtine risonar questo diserto,

che’l cor, che è volto, già si sfumi in lei

a vendicar di quel ch’io ho scoperto!

  Se ala mia grotta io posso aver costei,

di lacte e ghiande, pomi e di tartufoli

vo’ far convito a tutti i semidei!

  Non vo’ chi resti cetre, cimbo o zufoli,

per queste silve, che non sòni meco,

e ballarano insin le capre e ‘ bufali.

  Cantarem Procri e Procri udiran Eco

rispondere e far doppio sempre il nome,

Procri risonerà dentro ogni speco.

  Al sventilar di le sue bionde chiome

attenti stanno... I satir son fugiti,

e me han lasciati solo, e non so come!

  serian per qualche vista impaüriti?

 

 

ATTO IV

Qui segue el quarto acto nel quale la fante di PROCRIS esce di casa per trovare el Fauno che accusò CEFALO , e per la via da sè va parlando, così lamentandosi:

 

  Quanta disgrazia al mondo oggi è la mia!

quante lacrime ognor convien ch’io spandi!

Star mi convien tutto il giorno per via,

nè scia la mia patrona ove me mandi.

In tanta rabbia vive e gielosia,

che l’ho a obedire a tutti i soi comandi:

in cercar del marito le sue orme

Argo se stracaria, che mai non dorme.

  Ora mi manda un fauno a dimandare,

e dove sta non scio, nè sua dimora.

El padron mio ne va fuora a cacciare,

e lei di gielusia tutta se accora;

stimo che dreto la gli vorà andare...

Ecco che la glie va! Vada in malora!

Tornarò a casa, e poi, se me adimanda,

- Non lo trovai – dirò, - in alcuna banda. -

  Quante sono le donne a chi i mariti

rompen la fede, e pur nulla si sente!

Costui non falla, e a milli bei partiti

dato ha repulsa, onde forsi si pente.

e tra le donne io son pur parisente!

Questa rampogna, morde a tute l’ore

e per fugirla è facto cacciatore.

  Che farebbe costei, se ritrovato

l’avesse qua come Iuno il suo Iove,

o una sol volta vistolo mutato

in pioggia d’oro o in qualche forme nove?

o ch’elo avesse il tempo duplicato

come lui per Alcmena, e simel prove,

o qual per Iole quel, contra Dianira,

poi che per leve amor tanto sospira?

  Paccie le donne son che se dan pena

di quel che non gli ponno providere!

E quelle cose che a doler le mena,

potendo ancor, non le dovrian sapere.

A Progne che nocea, se Filomena

in tela el fal non gli facea vedere?

Dica chi voglia, io reputo felice

chi crede a l’occhio e non quel che se dice!

CEFALO      Questa vita inquïeta de’ mortali

ogni dì più desia quel che più noce.

Chi segue per le silve gli animali,

chi caccia con le rete i pesci in foce,

chi segue chi è cagion de più soi mali:

a’ soi danni ciascuno è più veloce.

Questi doi exercitii, caccia e amore,

cum piacer breve da’ longo dolore.

  Provai già come Amor tormenta un pecto,

ora gli affanni de le silve provo;

trovomi qui dal caldo immenso astrecto,

e un rivo fresco o un venticel non trovo.

Aura invocata mia, vien, ch’io te expecto

steso tra ‘ fiori, vien, ch’io non mi movo!

Solaccio ale fatiche e ale mie pene,

de gli affanni ristoro, Aura mia vene!

  Sii qual fera tu vòi, che in queste fronde

forsi pascendo o riposando vai,

questo dardo te mando, e non scio donde,

ma la virtù de questo provarai;

fera nè ucello al suo ferir se asconde.

Dïana, questo colpo aiutarai!

Promise a Procri in ogni mio ferire

di chiamar te e lei nel cor tenire.

 

CEFALO, ferita PROCRIS in cambio de una fera, entra nel bosco e trova lei caduta languire:

 

  Ahimè crudele amante, ohimè consorte!

Ahimè vita mortal, come te lasso!

O infelici amatori, a che rea sorte

conducte siamo, e a che infelice passo!

Ahimè, che de tua man m’hai dato morte,

crudo amante e marito! oh cor di sasso!

O stelle, o celi, o Fato crudo ed empio,

perchè vòi farne de gli amanti exempio?

 

CEFAL, vista PROCRI che ha dato a lei nel core:

 

 Sconsolato amatore! eh non più, vita!

Ritorna, o crudo iaculo al mio pecto!

O cara sposa mia, questa ferita

da me l’avesti, e mio stato è il difetto.

Ma prima che da mi facci partita,

vedi come nel core il ferro metto,

e non potendo la mia pena dirti,

palese la farò col mio seguirti!

  Questo misero fin aran dui amanti

per far pietoso al mondo ogni vivente:

non serà ver che solo io resti in pianti,

spetacul tristo al mio secul presente;

non vo’ patir che tu me vadi inanti

a richiamarmi a l’anime dolente,

e come io fui cagion de la tua morte,

venir vo’ teco a quella infima corte.

 

PROCRIS vieta a CEFALO che non la sferri:

 

  Non mi sferrar! eh non, per Dio, mercede!

Lassa che alquanto tenga questa vita!

Tanto al mio corpo viver si concede

che questo dardo stia in questa ferita.

Se una grazia mi fai, ti do la fede

che contenta da te farò partita:

se la farai e observarai quel dici,

tra molti amanti io serò de’ felici.

  Cagione è stato el feminil furore

di questa morte, e non tu, Cefal mio!

Cagione è stato el troppo ardente amore,

e sola intendo de passar quel rio.

Se al nodo marital far vòi onore,

prego per altra non me dii in oblio:

se mi prometti non pigliar l’Aurora,

tira poi el ferro del mio pecto fora.

 

CEFALO piangendo parla a PROCRI moriente:

 

  Questo ultimo tuo fiato, ohimè, che spandi,

con quei lumi splendenti che tu chiudi,

perchè in bocca al tuo Cefal non lo mandi?

Poi che la nostra compagnia refiudi,

che io non pigli l’Aurora me dimandi;

ma prima che la vita al fin concludi

l’anime nostre ne andaranno insieme,

e la mia de tardar troppo si teme..

 

Parlando CEFALO, PROCRI l’anima rende, e lui morta cognoscendola, dice così:

 

  Ohimè, l’ultimo fiato

lassato hai, ninfa bella,

e lo extremo tuo dì con gli occhi hai chiuso.

Ohimè, che mi hai lassato,

e più la tua favella

non sento, con dolor, come io son uso.

Veniti, o sacri cori,

veniti a pianger meco:

Questa che è morta ancor convien se onori.

Calliope, e vui, sorelle

che già l’amasti tanto, spiegate un mesto canto,

ch’a pietà di costei mova le stelle.

CALLIOPE    Membre ligiadre, che registi in terra

la vita di costei che morte ha spenta,

dove si vive in sempiterna guerra;

ogni anima continuo si tormenta

quando la spoglia sua non si riserra

sotto qualche sepulcro: ond’è contenta

ogni ninfa di darli sepultura,

poi che fornito ha in lei suo fin natura.

  Eurania, Euterpe, Terpsicore e Clio,

Melpomene mia, Erato, e tu Talia,

Dïana vòl che con ufficio pio

Procris di nostra man sepulta sia,

e d’alta pira vòl ornarla: unde io

a tagliar questa selva serò pria,

che quella a cui sacrata esser (si) crede,

che si spenda in tal acto ne concede.

 

CEFALO, visto due ninfe, a quelle parlando dice:

 

  O sacre ninfe, che per freschi fonti

inscie del nostro mal cantando gite,

se accerbo caso obtenebrò mai f(r)onti,

uno excesssivo danno alquanto udite.

Non aspetati che ‘l mio mal raconti,

ma queste fresche rose impalidite

ch’io vi discopro, a contemplar restate,

chè cagion le man mie ne son state.

 

FILIS ninfa se acostò a PROCRI; qual veduta morta, se volge ale altre ninfe sopragionte, chiamando a sè poi la sua compagna:

 

  Ohimè sorelle, ohimè, corrite presto,

la delicata Procri morta giace!

O Galatea, soccorri al caso mesto,

che l’alma è già da lei spirata in pace.

E vui, sorelle, provedite al resto.

Cefal sospira, e ‘l ciel guardando, tace.

Tu el nardo piglia, e quivi el foco accendi;

l’ellera pigliarò, tu el mirto prendi.

 

GALATEA a CEFALO:

 

  Misero amante, non più pena omai!

Ove non è rimedio, el pianto è vano.

Se ‘l corpo non più tuo el lassarai,

sepeliremol nui cum acto umano:

costei, che già, vivendo, tanto amai,

merita exequio aver da la mia mano.

Ninfe vui siate, ed io sum Galatea

sacrata in fonte, e questa è Deiopea.

CEFALO     Lassate a me fornir l’officio extremo,

Procri non merta già men degno onore!

Non son Ciclope e non son Polifemo,

non ti tolsi Ati o ti sturbai il tuo amore!

De viver doppo questa solo io temo,

e seguirla determino in poche ore.

Se pietose mai fosti a alcune pene,

in braccio me lassate ogni mio bene!

  Questa fu la mia vita, viva o morta,

questa al mondo mi fe’ viver felice,

questa mi fia seguendo optima scorta,

Questa mi fu più ch’al suo Orfeo Euridice,

questa seguendo, al fiume mi trasporta,

chè ‘l legno di Caron tocar non lice,

questa è colei per cui vivea contento,

questa morì per gielusia del vento!

  Morte, del mondo hai pur spento el bel sole!

Morte, hai de ogni virtù pur trïumfata!

Morte, se alcun mortal di te si dòle,

Morte, io son quel che t’ha più desprezata.

Morte, se agli umil perdonar si sòle,

Morte, son quello ancor che t’ho pregata.

Morte, se acquistar vòi eterno onore,

Morte non manchi al misero amatore.

 

GALATEA e FILLIS levano CEFALO tramortito e copreno PROCRI.

Lui resentito, andando a casa dice:

 

  Ohimè, dove ti lasso, o sposa mia!

L’ultimo vale pur mi convien dirti.

Ohimè, chi mi te tole? o scortesia!

Come esser pò ch’io non debbie seguirti?

Come aver pòi più fida compagnia

ai campi Elisii o tra gli ombrosi spirti?

O ninfe, a tormi el mio desio sì crude,

come de pietà seti tanto ignude?

 

DEIOPEA a PROCRI morta:

 

  Anima sciolta dal mortal tuo velo

non ezpectando el tuo fin naturale,

come qui al mondo lassi el più bel velo,

che lacrime ne sparge ogni mortale?

Poi che là su sei incoronata in celo,

odi benignamente el nostro male:

presto ti seguirem, come a Dio piace;

riposa, ninfa, eternalmente in pace!

CALLIOPE   Pietoso fin de doi miseri amanti

veduto avete, exempio (a) ogni amatore:

morta e sepulta Procri in tristi pianti,

Cefal non pò morir, tanto è il dolore.

La donna non convien che qui si vanti,

chè amor non parve il suo, ma fu furore:

così a vui donne una doctrina sia

che riposo non sta cum gielosia.

 

Coadunate le MUSE cantano questa stanza a guisa de columba sopra a PROCRIS:

 

  Qui senza spirto exanimato iace

el corpo, e l’alma è già da lui disciolta;

riposar possa in la quïeta pace

ove si gode e ‘l pianto non si ascolta.

Tu, Galatea, con quella ardente face

la pirra accendi, e sia Procri sepolta,

e poi in quella urna el cener sia servato,

che ‘l passo in Stige non sia negato.

 

Adunate le MUSE come sopra dicemo, GALATEA cum face, tenente DEIOPEA una urna, dice el suo capitolo; inde le MUSE cantano come dicemo:

 

  Piangete, silve alpestre, fiumi e rive,

piangete, dei de’ boschi e dei de’ monti:

questa che è morta qui, su nel ciel vive.

  Nereide, Driade, e vui, ninfe de’ fonti,

piangete tutti, o sacri semidei,

de verde querze denudati i fronti!

  Venite a pianger qui morta costei

che viva accese tra vui mille cori,

tanta vaga onestà si vide in lei.

  Lassate vostri armenti, o vui, pastori;

veniti al mesto e tenebroso canto:

le lacrime seran sacri liquori.

  se in cel pò penetrare el nostro pianto,

non poi far che pietosa non ti mostri,

o tu che lustri el cel cl viso sancto:

  le lacrime vedendo a li ochii nostri,

se altro poi desïar che ‘l summo bene,

ti duol d’aver lassato i nostri chiostri.

  Ma poi che in ciel alcun dolor non vene,

nui, tue sorelle, qui continue in terra

per tua memoria viviremo in pene.

  Questa spoglia mortal che si sotterra

visitaremo in tua eterna memoria;

e tu che in pace sei, tolta di guerra,

di nui poi ti ricorda in la tua gloria.

 

ATTO V

Qui segue il quinto acto nel qual DIANA, veduta le coadunate NINFE e MUSE e a GALATEA con la face e a quelle così disse:

 

  Silenzio! O ninfe, il funerale officio

fornito è ormai con suo debito onore;

defunta è Procris, non per alcun vicio,

ma sol per troppo sviscerato amore.

A me se expecta omai novo exercicio,

troppo gran pena è morte a un poco errore:

senza me ritornò procri a sue tede,

onde morta n'è lei come si vede.

  E perchè lei non merita tal pena,

consentir non intendo a tanto male;

Cefal sua vita dolorosa mena,

chiama la morte, e 'l suo chiamar non vale.

Scopri tu questa pira, o Filomena,

e vedrai cose sopra naturale:

che Procri al mio chiamar vo' se risenti,

ché in cel comando, e in terra, a gli elementi.

 

DIANA tocca col dardo PROCRI dicendo:

 

  Levati, Procri! Surge, o ninfa bella!

L'alma che tu lasciasti, ecco, in te spiro.

Dïana son, non son pura donzella,

e son discesa dal superno giro;

leva dagli occhi el vel, guarda e favella;

viv, che più con teco non mi nadiro.

Tu Cefal chiama, o Galatea, tu, Fille:

cantisi in festa qui, siate tranquille.

 

GALATEA va per CEFALO con FILLE, e PROCRI, a DIANA ingionochiata, parlando dice:

 

  Pietà, o dei superni! o tu, mercede,

commiserata a tanto mio dolore,

excelsa dea, in cui mai persi fede!

Cellebrarotti sempre in sommo onore,

poi che m'hai tolta da l'inferne sede:

mai più da te vo' dilungare il core.

Vivendo, assai credea di tua possanza,

ma molto al creder mio lo effecto avanza.

Tu sempre sii di tanta opra laudata,

che ringraziar te ne dovria natura,

che oggi per l'opra tua vien ristorata

di me, che era già posta in parte obscura.

Ma poi che l'alma al corpo hai relegata,

fà ch'io ti serva e di me prendi cura;

se ben del matrimonio el laccio è forte

sciolselo a un tracto col mio viver morte.

DIANA       Anzi non sia mai ver, Procri dilecta,

che richiamata indarno te abbia in vita:

tra nui non si fa mai opra imperfecta,

ogni cosa convien sia stabelita.

Vedi là Cefal che ne viene in frecta

che poco men non t'ha morto seguita!

Acceptal volentier, ché a me ancor piace,

e stiate insieme longamente in pace.

 

GALATEA, venendo cum Cefalo, gli spoglia el negro mantello:

 

  Lassa, Cefalo, omai gli oscuri panni,

vedi là Procris tua levata in piede.

Scio che non credi omai che più te inganni,

l'occhio tuo fa che al mio parlar dai fede!

CEFALO     Andiamo presto, che 'l mi par milli anni

ch'io la tocchi, che l'occhio ancor no'l crede.

GALATEA   vanne a Dïana, e prima lei ringrazia,

che di ben farti mai si viddi sazia!

 

CEFALO ingionochiato a DIANA dice:

 

  Perdona, o sancta dea, che 'l troppo amore

con l'alegrezza mia dir non mi lassa

quel ch'io vorebbi e ch'io son debitore;

ma el gran servizio che di longi passa

ogni mio ringraziar, mi stringe il core,

e la mia servitudte infima e bassa

a tanta maiestate offrir non osso,

e magior don de me dar non te posso.

DIANA       Leva su, Cefal: i mistier celesti

e l'oprar nostro al mondo non se intende.

Ecco qui Procris tua che già occidesti,

per divina pietà la si te rende.

Scio che non sciai perché tu la perdesti,

ché spesso no'l sapendo un dio se offende,

ma del vostro fallir portasti pene,

or che viviati lieti si conviene.

  Rendoti adunque la tua cara sposa

e ti ritorno nel tuo primo stato,

e perché Iuno non vi fusse odiosa,

sia qui di novo il suo Imeneo chiamato.

Tu, Procris, non serai mai più gielosa,

nè Cefal fia mai d'altra innamorato.

Vivete insieme con felice prole!

Vui, ninfe, adunque festigiar si vòle.

 

Le NINFE danzando cum CEFALO intrano in casa cantando e CALLIOPE esce a cantare l'ultima stanza:

 

  Cantate, o ninfe belle,

spargete vaghi fiori;

e vui, sacre sorelle,

ché Dïana convien che qui se onori.

de le superne stelle

e dal cor degli dei,

richiamata è costei

che extinta avea le coniugal facelle.

cantate, o ninfe belle.

  Ralegrative amanti,

e vui, cari consorti:

sciuscitata è da morte

la bella Procri, e vòlto in riso i pianti.

Ognun qui se conforti

e soni, balli e giochi,

ognun Dïana invochi

in silve, in fonti, in cielo e fra le stelle.

Cantate o ninfe belle.

  Qui Imeneo sia chiamato

a relegare el nodo

che morte avea slegato,

e siali Amor cum legiptimo modo.

Il cel ne sia laudato,

e in casa foco accendasi,

debite grazie rendasi

a chi ce ha resa procri, o mie sorelle.

Cantate, o ninfe belle.

CALLIOPE    Veduti aveti, o mei cari auditori,

del spetaculo nostro el mezo e 'l fine;

là dentro raconciliansi gli amori,

dando ristoro alle sue discipline.

Questa vita mortale è come i fiori

che stan coperti sotto accute spine.

S'el v'è piacciuta questa nostra festa,

fàtine segno, ed altro a far non resta.

 

FINIS