Niofr06

1561

GIOVANNI ANDREA DELL’ANGUILLARA, Le Metamorfosi di Ovidio ridotte da Giovanni Andrea dell’Anguillara in ottava rima, Venezia 1563, Libro VI

Testo tratto da: www.bibliotecaitaliana.it

Ogni un si sbigottisce, ogni un risolve,

Che offender l'huom non dee celeste Nume,

Perch'egli ò l'offensore in forma volve,

Che segue in peggior corpo il suo costume,

Overo il fa venir cenere, e polve,

Ó sasso senza mente, e senza lume.

Si sbigottisce il nobile, e la plebe,

Eccetto Niobe allhor Regina in Thebe.

 

Prima, che 'l matrimonio celebrasse

Niobe co'l Re dolcissimo Anfione,

E che Meonia, e Frigia abbandonasse,

Che lei vestir della carnal prigione,

Visto più volte havea l'Arannee casse

Percoter su la spoglia del Montone,

E con piacer non poco, e maraviglia

Conobbe in altra età la patria figlia.

 

Ma non però la pena, che rapporta

La fama, che la Dea saggia le diede,

Del suo superbo cor la rende accorta,

De l'empia ambition, che la possiede,

Anzi tanto la gloria la trasporta,

Ch'à quei, che son de la celeste sede,

Cerca involar gl'incensi, e 'l pio costume,

Per arrogarlo al suo non vero Nume.

 

Chi troppo da gli Dei talvolta impetra

Di troppo alta superbia arma la fronte,

Ella un marito havea, che con la cetra

I sassi dispiccar facea dal monte,

E tanta co'l suo suon condusse pietra,

Tanto pin, tanta sabbia, e tanta fonte,

Che con rocche elevate; e forti mura

La sua Regia città rendè sicura.

 

Superba andava assai di questa sorte,

Ma molto più, che 'l suo terrestre velo,

E quel del soavissimo consorte

Origine trahean dal Re del cielo.

L'ameno regno suo fertile, e forte,

Sotto temperato ciel fra 'l caldo, e 'l gielo

Pien d'habitanti, e di militia, e d'arte

Nel grande orgoglio suo volse anchor parte.

 

L'animo le rendea non meno altero,

C'havea si raro, e nobile il sembiante,

Che non havea ne l'artico hemispero

Più venerabil volto, e più prestante,

Ma quel, che fe più indegno il suo pensiero,

E men considerato, e più arrogante,

Fur l'uscite da lei membra leggiadre,

Che felice la fer sopra ogni madre.

 

Felice lei se conosciuto tanto

Non havesse il suo pregio, e 'l suo favore,

E di quel, che capir può il carnal manto,

Si fosse contentata humano honore,

Si che parlando l' indovina Manto

Creduto havesse al suo fatal furore,

Che ammonendo gli heroi, la plebe, e lei

Cosi scoprì il voler de gli alti Dei.

 

Hoggi è quel lieto, et honorato giorno,

Che Latona diè fuor Febo, e Diana,

Onde del Sole il dì rimase adorno,

La notte de la Dea casta silvana.

Però cinga d'allor le tempie intorno

Co'l popol suo la nobiltà Thebana,

E le madri, e le mogli, e i figli invochi,

Donando i grati incensi à sacri fochi.

 

La Dea ne gli occhi miei s'affisa, e mira,

E passa per le luci, e 'l cor mi tocca,

E nel pensier quel, c' hò da dir, m'inspira,

E scopre il suo voler per la mia bocca.

Però la voce, l'organo, e la lira

Tutt'empia d'armonia l'Ismenia rocca,

E si servi ogni modo, ogni atto pio,

Che suol servarsi in venerare un Dio.

 

La fatal figlia di Tiresia à pena

Havea di questo suon l'aere cosperso,

Ch'ogni mortal, che bee l'onda Ismena,

Diè fede al suo vaticinato verso.

Già la principal piazza è tutta piena

D'invenerabil popolo, e diverso,

E v'han tre altari eretti adorni, e belli,

Uno à la madre, e l' altro à i due gemelli.

 

Ogni etade, ogni sesso il fato adempie,

Veste ogn'un le più ricche, e ornate spoglie.

Del verde alloro ogn'una orna le tempie,

Ó sia madre, ò sia vergine, ò sia moglie.

Di suoni, e supplicanti voci s'empie

L'aria, s'ornan le vie di fiori, e foglie.

Copron le mura i razzi, e i simulacri

Ardon d'incenso, e mirra i fuochi sacri.

 

Intanto vien la Imperatrice altera,

Spettabile di gemme, e d'ostro, e d'oro,

La risplendente vista alma, e severa,

Scesa parea dal sempiterno choro.

In mezzo và d'un'honorata schiera

Con maestà, con gratia, e con decoro,

Ma lo sdegno, c'havea nel lume accolto,

Togliea qualche splendore al suo bel volto.

 

Quando fu in mezzo à l'ampia piazza giunta

D'ogn' intorno girò l'altere luci,

E poi da invidia, e da superbia punta

Cosi diè legge à più honorati Duci.

Tu nobiltà da la tua Dea disgiunta,

Che l'ignorante mio popol conduci,

Porgi l'orecchie à me, lascia la pompa

Pria, che la greggia mia più si corrompa.

 

Qual folle vanità, quai pensier sciocchi

Dentro, e di fuor v'han tolto il doppio lume?

Che crediate à gli orecchi, più che à gli occhi

Nel venerare un non veduto Nume?

Non sò, che folle error l'alma à ogn'un tocchi,

Ch'à l'altar di Latona il foco allume,

Et io, visibil Diva à l'alma, e à sensi,

Anchor stò senz'altare, e senza incensi.

 

Facciam pur paragon di tanti, e tanti

Miei pregi con gli honor, ch'adornan lei,

Se l'origine sua vien da Giganti,

Nasce la mia dal Re de gli altri Dei:

Tantalo è 'l padre mio, che sol fra quanti

Mai furo huomini al mondo, e Semidei,

Veduto fu ne la celeste parte

À la mensa mangiar fra Giove, e Marte.

 

Colei, che nel suo sen già Niobe alberga,

È de le sette Pleiadi sorelle,

Atlante è l'avo mio, le cui gran terga

Sostengon tutto 'l ciel con tante stelle.

L'altro avo è quel, la cui possente verga

Dà nel ciel legge à l'alme elette, e belle,

E per maggior mio honor l' istesso Dio

Si volle in Thebe far socero mio.

 

Ovunque la ricca Asia dona il letto

À l'onde Frigie, il mio nome corregge,

La region, ch'à Cadmo diè ricetto

Di Niobe, e d'Anfion serva la legge.

Ovunque volgo il mio Reale aspetto

Nel sasso, dove albergo il miglior gregge,

Tutto veggio splendor, tutto thesoro,

Ostro, perle, rubin, smeraldi, et oro.

 

Aggiungi à questo il mio splendor del viso,

Che mostra, co'l Divin, che vi risplende,

Ch' io de l'elette son del paradiso,

Come sà ogn'un, ch' in me le luci intende.

L'albergo è tutto gioia, e tutto riso,

Altro, che canto, e suon non vi s' intende.

La prole mia dotata d'ogni honore

Sette generi aspetta, e sette nuore.

 

Vi par ,ch'aggiunga à l'alta gloria nostra

Quella, à cui tant'honor rendete, e fede,

Io parlo de la Dea Latona vostra,

Che si mendica al mondo il padre diede:

Che del sito, ch'al ciel la terra mostra,

Mentre egli intorno la circonda, e vede,

Negò di darne à lei tanto terreno,

Che bastasse à sgravar del parto il seno.

 

Darle un ricetto minimo non volse

Ne la terra, onde uscì, ne'l mar, ne'l cielo,

Sol la sorella instabil la raccolse,

Quell' isola, che poi fu detta Delo,

La qual dal volto human già si disciolse,

E piuma aerea fe del terreo pelo,

E poi si come piacque al maggior Nume,

Un mobil sasso in mar fe de le piume.

 

Vagar vedendo Ortigia la sorella,

E ch'ogni loco, ogni terren la scaccia,

Mobile essendo, et vagabonda anch'ella,

Vicino al lito, ove correa, si caccia:

Poi rompe in questi accenti la favella.

Sirocchia mia co' piedi, e con le braccia

Sostienti, e nuota, e monta su'l mio tergo,

Ch' io ti darò sul mobil dorso albergo.

 

Ben hebbe il suo ascendente quando nacque

Ciascheduna di noi mal fortunato,

Vagabonde ambe siam, si come piacque

Al nostro infausto, inevitabil fato;

Tu vaghi per la terra, et io per l'acque,

E fermar non possiamo il nostro stato,

Ma se 'l mio mobil dorso il tuo piè preme,

Ce n'andrem per lo mar vagando insieme.

 

Cosi l'essule Dea vostra mendica

Da un'altra sventurata hebbe ricetto,

Vi montò sù con pena, e con fatica,

E senza altra ostitrice, e senza letto

Lucina havendo al partorir nemica,

Che tenea il pugno incatenato, e stretto,

Dopo mill'alti stridi, e mille duoli

Fece al mondo veder due figli soli.

 

Veder fe al mondo la settima parte

Di quella, che gli hò fatta veder' io,

Considerate dunque à parte, à parte,

Qual' è maggior, ò 'l suo splendore, ò 'l mio.

D'ogni più raro don, che 'l ciel comparte,

Che può felicitar lo stato à un Dio,

Son felice hor, sarò felice sempre,

Mentre rotin del ciel l'eterne tempre.

 

Chi la felicità negar presente

Può? chi può dubitar de la futura?

L'una, e l'altra sarà perpetuamente,

L'abondanza del ben mi fa sicura.

Tanto beata son, tanto possente,

Che del destin non tengo alcuna cura:

Perch' io maggiore assai son di quell'una,

À cui non può far danno la fortuna.

 

E quando à questo mio stato tranquillo

Voglia l'empia fortuna esser molesta,

Non potrà mai talmente convertillo.

Che non sia più del suo quel, che mi resta.

Poniam, che contra me spieghi il vessillo,

E che mi toglia anchor più d'una testa,

Non però vincitrice la farei,

Che perdendone molti anchor n'havrei.

 

E faccia pur l'estremo di sua possa,

Con l'arme di Pandora, e di Bellona,

Non sarò mai si povera, e si scossa,

Com' è la vostra misera Latona,

E quando ingombri anchor l'ottava fossa

L'illustre germe de la mia corona,

Non m'aveggio però, che tanto io caggia,

Che più figli di lei sempre non haggia.

 

Togliete al vostro volto il verde alloro,

Ch'in cosi vano error v'orna le tempie,

Togliete à queste mura i razzi, e l'oro,

Taccia ogni suon, che l'aria assorda, et empie;

Taccia de Sacerdoti il sacro choro.

Ogni uno il dir de la Regina adempie.

Contra sua voglia ogn'un lascia, e interrompe

Le venerande, et imperfette pompe.

 

Ma non resta però, ch'entro col core,

E con tacito mormore non faccia

À la figlia di Ceo la turba honore,

Anchor, che le parole asconda, e taccia.

Vede la Dea, con qual profano errore

Colei da l'altar suo la pompa scaccia,

E sdegnata, e fermato il volo in Delo,

Disse à la luce gemina del Cielo.

 

Ecco io, che di me stessa andava altera

D'haver de i maggior lumi il mondo adorno,

D'ambi voi mia progenie illustre, e vera,

Ond'have il suo splendor la notte, e 'l giorno;

Io, che fuor, ch'à colei, che à l'altre impera,

Non cedo ne l'eterno alto soggiorno,

Son da Donna mortale, ingiusta, e rea

Posta nel mondo in dubbio, s' io son Dea.

 

Ne solo à l'altar mio fatt'have oltraggio

Di Tantalo la figlia empia, e rubella:

Ma à te, che sei del giorno unico raggio,

E al culto de la tua santa sorella,

Con parlare orgoglioso, e poco saggio,

Mentre rendea con pompa ornata, e bella

À noi tre l'alma Thebe il sacro voto,

Cosi diè legge al suo popol devoto.

 

Lasciate il sacrificio di colei,

Che partorì in Ortigia i due gemelli,

Non date incensi, come à vostri Dei,

A i due, ch'uscir di lei lumi novelli.

Sacrate à me, che son maggior di lei,

A figli miei più splendidi, e più belli.

Del nome mio fè il maggiore, e poi

I suoi figli morta' prepose à voi.

 

L' ha fatto à tanto orgoglio alzare il corno

L'haver visto dotato ogni suo parto

Di qualche don, che fa un mortale adorno,

E dopo i dieci haver contato il quarto,

Che con non poca nostra ingiuria, e scorno

Me, che il lume à la notte, e al dì comparto,

Che dò la Luna à l'ombra, al giorno il Sole,

Sterile hà nominata, e senza prole.

 

Ben s'assomiglia al temerario padre,

Che à mensa fu del sempiterno Duce,

E poi quà giù fra le terrene squadre

I secreti del ciel diede à la luce,

Poi ch'orba osa chiamar la vera madre

De l'una, e l'altra necessaria luce,

E in non temer la dignità superna

Cerca imitar la lingua empia paterna.

 

Volea pregar la Dea, che del suo orgoglio

Punir volesse la Regina Ismena;

Ma disse Apollo il tuo lungo cordoglio

Altro non fa, che differir la pena.

Sopra di me questa vendetta io toglio.

Ma la Dea, che le tenebre asserena,

Disse, ella anche oltraggiato hà il nome mio,

E parte vò ne la vendetta anch' io.

 

Il gemino valor, che nacque in Delo

Di strali empie il turcasso, e l'arco prende,

Poi fa scendere un nuvolo dal cielo,

E vi s'asconde dentro, e in aria ascende.

Verso Ponente il novo apparso velo

Il corso affretta, e sopra Eubea già pende,

Quindi dietro à le spalle il mar si lassa,

E verso la città di Cadmo passa.

 

Non lunge stà dal muro, che fondato

Fù da la cetra, e da la metrica arte

Di mura cinto un pian, che fù già prato

C'hor serve d'essercitio al fiero Marte.

Qui si vede la tela, e lo steccato,

Ingombrano i tornei quell'altra parte,

Qui il prato è da lottar, lì i cerchi, e calli,

Che servono al maneggio de cavalli.

 

Quei che nacquer di Niobe, e d'Anfione

Di cor, di volto, e di virtute alteri,

Eran venuti al martiale Agone

Sù i più superbi lor Regij destrieri,

Per far del lor valor quel paragone,

Ch'assicura i cavalli, e cavalieri,

E à pena fur nel destinato loco,

Che dier principio al virtuoso gioco.

 

Damasittone appar sù un turco bianco,

Macchiato tutto il dosso à mosche nere,

Si ferman gli altri, e 'l destro lato, e 'l manco

lngombrano in due liste per vedere.

Il cavalier ne l'uno, e l'altro fianco

In un medesmo tempo il caval fere,

E 'l morso allenta, e al corso si l'affretta,

Che non và si veloce una saetta.

 

Come il giovane accorto al segno giugne

Non lascia più al caval la briglia sciolta,

Ma 'l ferma, e 'l fren volge à man destra, e 'l pugne

Co'l piè sinistro, e 'n un momento il volta:

Come stampa al contrario in terra l'ugne,

Là il pinge, onde partì la prima volta;

Giugne, e 'l raffrena, e poi ne la destr'anca

Punge il destriero, e 'l fren volge à man manca.

 

Dove la groppa havea, volge la faccia,

E come l'altro termine rimira,

Non gli dà tempo alcun, di novo il caccia,

E come giunge al segno, il fren ritira,

Lo svolge, e invia per la medesma traccia,

Ne fin' al nono repulon respira,

Dove il ferma, che sbuffa ira, e veleno,

E sbava per superbia, e rode il fieno.

 

Di Spagna ad un villan preme la sella

Sifilo, ch'al fratel punto non cede,

La spoglia hà il suo caval tutta morella,

Dietro alquanto balzano hà il manco piede,

D' argento una minuta, e vaga stella

In mezzo al volto altier splender si vede,

E zappa, e rigne, e par che dica, io chieggio,

Che non ponga più indugio al mio maneggio.

 

Con gli sproni, e le polpe egli lo stringe,

E solleva in un punto alta la mano,

E con un salto in aria innanzi il pinge

Quanto può con un salto andar lontano:

Com'hà poi fatto un passo, il ricostringe

A gir per l'aria à racquistare il piano;

E come il mare ondeggia hor basso, hor alto,

E sempre dopo il passo il move al salto.

 

Con misura, e con arte il tempo ei prende,

Mentre fà, che s'alterni il salto, e 'l passo,

E 'l buon caval, che 'l suo volere intende,

Si move tutto in aria, hor tutto basso

Fin al decimo salto il corso stende,

Poi per non farlo il cavalier si lasso,

Ch'offenda il presto piè, la forte lena,

Al cavallo infiammato il salto affrena.

 

Alfenore vien sopra un leardo

Ginnetto, ch'argentato have il mantello,

C'hà leggiadro l'andar, superbo il guardo

Dal capo al piè mirabilmente bello.

A corvette ne vien soave, e tardo,

Poi spicca un salto in aria agile, e snello,

Tutto accolto in un gruppo, e cade, e 'mprime

L'orme del suo cader ne l'orme prime.

 

Ritorna poi dal salto à le corvette,

E tutto il peso à i piè di dietro appoggia,

Le ben piegate braccia in terra mette,

E dopo alquanti passi in aria poggia,

Poi quando che s'atterri, al piè permette,

Il vestigio di prima il piede alloggia,

E la corvetta à poco à poco acquista

Tanto, che giunge al capo de la lista.

 

Dove giunto il destrier non fa nov'orma,

Che 'l salto, e 'l corvettar gli vien conteso

Ma tien, secondo il cavalier l'informa,

Dinanzi il destro piede alto sospeso.

E con questa al caval non nova forma

Sostien sopra tre piè tutto il suo peso.

Poi piace al cavalier, che muti stato,

Et alza il primo piè del manco lato.

 

Mentre la gamba manca egli tien' alta,

Fà danzarlo à man destra senza un piede,

Poi secondo la verga, e 'l piè l'assalta,

Posar la destra, e l'altra alzar si vede,

E pian pian da man destra danza, e salta,

E fa ciò, che lo sprone, e la man chiede.

Al fin il cavalier ferma il suo gioco,

E cede al quarto atteggiatore il loco.

 

Ismeno di più tempo, e più sicuro,

E di più nervo, e 'n quel mestier più saggio,

Ne vien montato sopra un baio oscuro,

Per dare in quel maneggio il quarto saggio.

I due Partenopei parenti furo,

Che forte, e di magnanimo coraggio

Formaro à quel corsier la spoglia, e l'alma,

Ch'in prova hor vien per riportar la palma.

 

In questo mezzo à la lotta sfidati

S'eran Fedimo, e Tantalo gemelli,

Et eran sù due barbari montati,

Ch'al mondo non fur mai visti i più belli:

E con le mani essendosi afferrati

Pungono i lor destrier veloci, e snelli,

E corron verso il prato stabilito

Sempre del par senza passarsi un dito.

 

Con un trotto disciolto s'appresenta

Sopra il caval che si vagheggia Ismeno

Poi fa, che 'l manco sprone il destrier senta,

E gira à un tratto in ver la destra il freno.

Di salto in salto il buon caval s'aventa,

Dov'egli il volge, e cinge un picciol seno,

Forma il caval il giro, e vi stà dentro,

E l'huom possiede ogni hor l' istesso centro.

 

In un batter di ciglio il giro abbraccia

Il buon caval, mentre obedisce, e ruota,

Già tien la groppa, ove tenea la faccia,

Et in due salti fa tutta la rota:

Pure à man destra il cavaliero il caccia,

Fin, che 'l quarto girar perfetto nota,

Ne in otto salti fa manco, ò soverchio,

Ma preme il punto ù diè principio al cerchio.

 

Poi verso la sinistra il fren gli tira,

E tutto à un tempo il punge co'l piè destro,

E 'l caval, che l' intende, à un tratto gira

Co' suoi salti à man manca agile, e destro,

Et ad ogni due tempi il punto mira,

Che diè principio al suo cerchio terrestro,

Poi lo svolge à man destra, e giunge à punto

Ogni secondo salto al primo punto.

 

Come al fin del girar preme l'arena,

Con gli sproni, e le polpe egli lo strigne,

E 'l morso alza, e 'l caval l'intende à pena,

Che con un presto salto al ciel si spigne.

La verga il tocca allhor dietro à la schena,

Gli sproni un palmo lunge da le cigne,

E 'l caval mentre anchor in aria pende,

Una coppia di calci al ciel distende.

 

Ogni narice havea talmente enfiata,

Et ogni foro suo di modo aperto,

Ch'ogni sua vena si saria contata,

Ogni musculo suo tutto scoperto.

Come ristampa il piè l'arena amata,

Non gli dà tempo il cavaliero esperto,

Con gli sproni, e co'l fren l'estolle in alto,

Co i calci in aria insino al terzo salto.

 

E sempre che 'l caval la terra fiede,

Tien la medesma arena occulta, e oppressa,

E ne l'orma medesma pone il piede,

La quale havea con l'altro salto impressa,

E per quel, che ne giudica, e ne crede,

Chi vista prima havea la prova istessa,

Havrebbe fatto il quarto salto, e 'l quinto,

Se non havesse un dardo Ismeno estinto.

 

Con la sorella intanto arriva Apollo,

Che l'arco tien ne l'oltraggiata palma,

Et ecco un dardo, e passa à Ismeno il collo,

E gli toglie il maneggio, il sangue, e l'alma.

Come getta il caval con un sol crollo

Da se la sua poca pietosa salma,

Si mette in fuga, anchor ch'alcun no'l tocchi,

E s' invola in un punto à tutti gli occhi.

 

Sipilo, che cader vede il fratello

Da l'improviso stral percosso, e morto,

Non sà dolente, s'ei smonti à vedello,

Per dargli (s' anchor vive) alcun conforto,

Ó se cerchi il sicario iniquo, e fello,

Per vendicar sopra di lui quel torto,

Et ecco mentre ei ne dimanda, e grida

Un' altro stral dal nuvolo homicida.

 

Passa lo strale à l'innocente il petto,

E fa caderlo appresso al suo germano,

Quel, ch'è su'l turco con pietoso affetto

Per non mancar d'officio scende al piano,

E come preme il sanguinoso letto

Un dardo vien da la nemica mano,

Gli dà nel tergo, e giunge sangue à sangue,

E dopo un tremar corto il rende essangue.

 

Per torre almeno Alfenore dolente

Gli altri fratelli al non veduto inganno,

Sprona il caval fra la confusa gente,

Là dove gli altri due la lotta fanno.

Il buon Ginnetto, che ferir si sente

Da l'uno, e l'altro spron l'argenteo panno,

E prova più benigno, e dolce il morso,

Fa noto à ogn'un quant'è veloce al corso.

 

Tanto veloci i piè mosse il leardo,

Come il doppio castigo il fianco intese,

C'havria fatto parer quel folgor tardo,

Che Pelia, Ossa, et Olimpo in terra stese:

Ma molto più di lui fu presto il dardo,

Ch' in mezzo al corso à lui le spalle offese,

Ch'in aria uscì da l'homicida nembo,

E morto il fe cadere à i fiori in grembo.

 

Macchia di caldo sangue i fiori, e l' herba,

E mentre batte il fianco in terra, e more,

Contra la lotta dolcemente acerba

Una saetta vien con più furore,

E passa irrevocabile, e superba

A l'un la destra poppa, à l'altro il core,

Che nel lottare in quello istesso punto

Havean petto con petto ambi congiunto.

 

Manda Tantalo in aria un' alto strido,

Come nel lato destro il telo il fora,

Ma non può già Fedimo alzare il grido,

Ch'in un momento il calamo l'accora.

Di quei, c' hebbero in Niobe il primo nido,

Il giorno Ilioneo godea anchora,

Il qual piangendo ambe le braccia aperse,

E questi caldi preghi al cielo offerse.

 

Sommi celesti Dei voi prego tutti,

E voi, che state à queste selve intorno,

Qual si sia la cagion, che v' hà condutti,

Ad oscurare à sei fratelli il giorno,

Lascia alquanto à gli aspri humani lutti

L'anima mia nel suo mortal soggiorno,

À me non già, ma al mio pietoso padre

E à l'infelice mia Regina, e madre.

 

Già per ben mio la vita io non vi chieggio,

Ch' altro per l'avenir non fia, che pianto,

Anzi amerei, tanto hò timor del peggio,

Di giacer morto à miei fratelli à canto.

Perch'ama il padre mio nel Regal seggio

Un suo figliuol lasciar co'l regio manto,

Prego à salvar di tanti un figlio solo,

Che fia qualche conforto al troppo duolo.

 

Ben commove lo Dio, che nacque in Delo,

Il prego del garzon, come l'intende,

Ma rivocar l'irrevocabil telo

Non può, ch'è già scoccato, e l'aria fende:

E mentre anchora ei prega, e guarda al cielo,

La fronte à l'infelice il dardo offende,

E l'alma, come in terra ei batte il tergo,

Co'l sangue lascia il suo terreno albergo.

 

Del popolo il dolor, del mal la fama

Di Niobe à l'infelici orecchie apporta,

Che la succession, ch'ella tant' ama,

Giace su l' herba insanguinata, e morta.

Subito pon la sconsolata, e grama

L'addolorato piè fuor de la porta.

E 'l padre, che l'intende, e à pena il crede,

Anch'ei vi pon lo sventurato piede.

 

Come la madre infuriata arriva

À l' infelice Martial diporto,

E ne la prole sua pur dianzi viva,

Vede il lume del giorno esser già morto,

Resta d'ogni virtù del senso priva,

Lo splendor vien del volto oscuro, e smorto,

E tramortita presso à i figli cade

Su le vermiglie, e dolorose strade.

 

Non tramortisce il misero Anfione,

Se ben si duol, che l'animo hà più forte,

Ma del pugnal la punta al core oppone,

E di sua propria man si dà la morte.

De le figlie del Re, de le persone,

Ch'arbitre hor son di cosi crudel sorte.

Piange l' huomo, e si duol con basse note,

La donna alza le strida, e si percuote.

 

Con acqua fresca, et altri aiuti in vita

Cerca tornar la dolorosa gente

La Regina distesa, e tramortita,

E dopo alquanto spatio si risente,

E stride, e corre, e dove il duol l'invita,

Chiama questo, e quel figlio, che non sente.

Ne piange men la disperata madre

Lo sposo morto suo, de morti Padre.

 

Ahi quanto questa Niobe era lontana

Da quella Niobe, c'hebbe ardire in Thebe,

Di scacciar ver tre Dei folle, e profana

Dal divin culto i nobili, e la plebe.

Questa, c' hor miserabile, et insana,

Vinta dal gran dolor vacilla, et hebe,

Invidiata già da più felici,

Hor da mover pietà ne suoi nemici.

 

Mostra la passion, che l'ange, e accora

Con parole insensate, e indegni gesti,

Hor sopra i figli, hor sopra il padre plora,

E trova, e bacia, e chiama hor quelli, hor questi.

Ogni empia, ogni profana al fin dà fuora

Bestemmia contra i Lumi alti, e celesti,

E rivolgendo gli occhi irati al cielo,

Cosi danna la Dea, che regna in Delo.

 

Qual si sia la cagion, che t' habbia mossa,

Ó trista invidia, ò vendice desio,

Latona empia, e superba, à render rossa

Quest' herba, e questi fior del sangue mio,

Ingiustissima sei quanto si possa,

Poi che sceglier non sai l'empio dal pio,

Qual ragion danna il sangue de miei figli

À fare à questi prati i fior vermigli.

 

S'invidia havevi à me de la mia prole,

Si regia, si magnanima, e si bella,

Dovevi contra me l'acceso Sole

Mover con la pestifera sorella.

Ver questa sventurata, c'hor si dole,

Dovean tirar la freccia ingiusta, e fella,

C' havriano à l' invidiata i giorni sui

Tolti, e gli honor senza far danno altrui.

 

Se desio di vendetta à cio ti spinse,

Ingiustissimo sdegno il cor t' accese,

Che 'l figlio mio la tua vendetta estinse,

Ch' innocente, e leal mai non t'offese;

E se pur la mia gloria ti costrinse,

Dovevi contra me volger l'offese,

Ch' in tutto ingiusto, è chi vendetta prende

D'un, che si stà in disparte, e non offende.

 

Ecco hai pur tutto havuto il tuo contento,

Satiati del mio pianto, e del mio duolo,

Poi ch' in mio danno il vital lume hai spento

Dal primo insino à l'ultimo figliuolo.

Godi da poi, che più spirar non sento

Per dargli il mio bel regno, un figlio solo,

Ridi vedendo i miei gioiosi luoghi

Mostrare il lor dolor con sette roghi.

 

Trionfa poi c' hai vinto alta, e superba,

E siano i miei lamenti i tuoi trofei,

Anzi il mio honore anchor salvo si serba,

Che son due figli i tuoi, son sette i miei.

E sono in questa mia fortuna acerba

Maggior di te, che fortunata sei,

E anchora in queste sorti adverse, et atre

Di più figli di te mi chiamo matre.

 

Mentre contra la Dea Niobe ragiona,

E chiama le sue voglie ingiuste, et empie

Superba una saetta in aere suona,

Ch' ogni altra, fuor che lei di terror empie.

La freccia de la figlia di Latona

Stride, e percote Fitia ne le tempie,

La qual con viso lagrimoso, e bello

Sopra il corpo piangea d' un suo fratello.

 

Con vesti oscure, misere, e dolenti

Eran corse à veder tanta ruina,

Empiendo il ciel di strida, e di lamenti

Le figlie de la misera Reina;

E con diversi, e dolorosi accenti

Sopra i morti tenean la testa china,

E parlavano al corpo senza l'alma,

Battendo il petto, e 'l volto, e palma à palma.

 

Come la freccia ingiuriosa offende

Innanzi à la scontenta genitrice,

E morta l'innocente figlia rende,

Novello oltraggio al suo stato infelice,

D'ira maggior contra la Dea s' accende,

E la biasma, l'ingiuria, e maledice,

Et ecco à l' improviso un' altro strale

Passa Pelopia, e giunge male à male.

 

Co i crini sparsi il lagrimoso lume

Havea nel primo figlio intento, e fiso,

Quando battendo il dardo altier le piume

Ferille il capo, e scolorolle il viso.

Che non oltraggi più l'irato Nume

Prega Niobe Nerea con saggio aviso,

E con vive ragioni la conforta,

Che cerchi di salvar chi non è morta.

 

Mentre l'accorta vergine Nerea

Move alquanto la madre, e 'l cor le tocca:

L'irata man de la triforme Dea

L'arma terza mortal da l' arco scocca,

E mentre verso il ciel la fan men rea

Le ragion, c' hà la figlia escon di bocca,

Passa lo strale il core à la donzella,

E le toglie la vita, e la favella.

 

La sventurata madre, che si vede

Toglier dal terzo stral la terza figlia,

E che i futuri calami prevede,

Si graffia, si percote, e si scapiglia:

E mentre straccia il crine, e 'l petto fiede,

Rende del sangue suo l' herba vermiglia

Un' altra più innocente, e più fanciulla,

L'ultima, ch'era uscita de la culla.

 

Vede dopo costei cader la quinta,

Dopo la quinta insanguinar la sesta.

Onde, perche non sia l'ultima estinta,

La madre in tutto disperata, e mesta,

Trovandosi slacciata, inconta, e scinta,

L' asconde sotto il lembo de la vesta,

E di se falle, e de la vesta scudo,

E piange, e dice al nembo oscuro, e crudo.

 

Deh moviti à pietà contrario nembo,

Ch'animi si crudeli ascondi, e serri,

E prega per costei, ch' ho sotto al lembo,

Si che nova saetta non l'atterri.

Di quattordici germi del mio grembo

Salvane un sol da gli nemici ferri:

Si che non secchin l'ultima radice

Di questa sventurata genitrice.

 

Deh chiedi nembo pio questo per merto,

Se forse gli empi Dei celi di Delo,

D'haver tenuto il lor arco coperto

Dentro del tuo caliginoso velo.

Delia intanto à la cocca il pugno aperto

Dato havea il volo à l'infelice telo.

Fende l' irato strale il cielo, e stride,

E la coperta figlia à Niobe uccide.

 

Tosto, che ne le figlie amate, e morte

Ferma la madre misera la luce,

E i dolci, e i cari suoi figli, e consorte

Vede giacer distesi, e senza luce:

Lo stupor, e 'l dolor l'ange si forte,

Che più per gli occhi suoi Febo non luce.

E lo stupore in lei si fa si intenso,

Che stupido rigor le toglie il senso.

 

Il crin, che sparso havea pur dianzi il vento,

Hor se vi spira, ben mover non puote,

Stassi ne' tristi lumi il lume spento,

Le lagrime di marmo ha ne le gote.

Il palato, la lingua, il dente, e 'l mento,

Il core, il sangue, e l'altre parti ignote

Son tutti un marmo, e si di senso è privo,

Che l' imagine sua null' hà di vivo.

 

Da ragionar materia al mondo offerse

L'estirpata prosapia d'Anfione.

E contra Niobe ogn' un le labra aperse,

Che troppa hebbe di se presuntione.

Ma quasi il mar, la terra, e 'l ciel disperse

L'orgoglio de l' Eolia regione,

Per quel, ch' Euro, Volturno, e Subsolano

De la moglie parlar del Re Thebano.