Niofr04

1553

LODOVICO DOLCE, Le Transformationi, In Venetia, Appresso Gabriel Giolito de’ Ferrari, 1553, Canto Duodecimo e Terzodecimo, pp. 130-133

 

Era Niobe consorte d’Anfione

Re de’ Thebani, entro Serifo nata;

Ch’Aragne, benche fu d’humil natione,

Havea gia conosciuta e molto amata.

Non però per esempio si propone

Li fin, ch’avvenne a quella sventurata:

Che non lice agguagliarsi a un Dio celeste

L’huom, che terrena e mortal gonna veste.

 

Anzi tutta superba ella desprezza

Insieme ogni divina e humana cosa.

Cagion l’era d’orgoglio e d’alterezza

Non tanto d’Anfion vedersi sposa,

E di scettro, e di stato, e di richezza,

Quanto bramar si puote, alta e pomposa:

Quanto le havea la sana mente tolta

De’ cari figli suoi la copia molta.

 

E di felicità sarebbe stata

Certo ne la sua etade unica e sola;

Se per tal non s’havesse riputata;

Che spesso cade chi troppo alto vola.

Era fra questo tempo in Thebe entrata

Manto, che di Thiresia era figliuola.

Io non vi so ben dir, chi fu la madre;

M’havea spirto indovin, com’hebbe il padre.

 

Honorate (dicea Manto) honorate

Latona, & ambi i suoi parti celesti;

E le tempie d’Alloro incoronate,

Che non fur sacrifici altri piu honesti.

Ella il comanda, e vuol, che l’adoriate:

Per voi credenza al mio parlar si presti.

I Theban l’obediscono; e divoti

Porgono a santi Altari incensi e voti.

 

Ecco da molta turba accompagnata

Al tempio, ove piu folto il popol era,

con vesta ricca d’or, di gemme ornata

La bella Niobe entro’ superba e altiera.

Bella era Niobe, e piu sarebbe stata

Se l’ira non facea turbida e fiera

L’aria del viso. Havea le chiome sparte

Sopra gli homeri suoi neglette ad arte.

 

E poi, che qua e là drizzò piu volte

L’occhio superbo, con parlar turbato

Disse, perche le menti havete volte

Ad honorar chi non l’ha meritato?

Che (quantunque Latona hora m’ascolte)

Voi tutti commettete un gran peccato

Ad adorar, senza saper piu avante,

Colei, che fu figliuola d’un Gigante.

 

E a me, di cui l’origine discende

Da Tantalo, d’Atlante, e infino a Giove;

Alcun debito honor fin qui non rende

Ne a farmi Altar, ne ad adorar si move.

E pure il poter mio tanto si estende,

Che non avvien, ch’eguale hoggi si trove.

Ch’io son di Thebe altissima Reina,

E d’immensa beltà piu che divina.

 

Che dirò poi delle ricchezze tante?

Che de la mia si numerosa prole?

Che sono sette giovani, e altretante

Giovanette piu belle assai, che’l Sole.

Ecco, s’una figliuola d’un Gigante

(Como ho detto) anteporre a me si vuole.

A cui gravida il mondo fu interdetto;

Ne cieli, o terra, o mar diede ricetto:

 

Fin, che l’errante Delo per pietade

Quest’altra errante accolse in picciol suolo;

Ove addotta, in miseria e in povertate

Le nacque una citella, & un figliuolo.

Chi dunque agguaglia la mia felicitate,

Cercando ad uno ad un l’humano stuolo?

Ella è per certo tal, ch’in parte alcuna

A me nuocer non può l’empia Fortuna.

 

Che posto, ch’ella mi togliesse molte

De le ricchezze mie dal ciel largite;

Non ne potrebbe tante havermi tolte,

Che non me ne restasse anco infinite.

E s’io vedessi ancor spente e sepolte

Alcune de le mie figlie gradite;

E de gli amati miei cari figliuoli,

Restar non potrei madre di due soli.

 

Lasciate dunque i sacrifici indegni,

Che gran sciocchezze v’ha condotto a quelli.

Ne date a me cagion di giusti sdegni,

Col dimostrarvi al mio voler rubelli.

Ciascun, perche costei non si disdegni,

Si levan le ghirlande da i capelli.

Ma se ben a la Dea cessan gli honori,

L’adoran ne l’intrinseco de i cuori.

 

Non potè sopportar tanta arroganza

Latona, e trova l’uno e l’altro figlio;

Ch’intesa la superbia e la baldanza

Di Niobe, ogni pietà mandò in esiglio.

Si dolser ambi con la madre: e sanza

Indugio, a l’arme lor dieder di piglio.

Ma però, che’l mio canto è qui finito,

Un’altra vuolta ad ascoltar v’invito.

 

Il fine del Duodecimo canto.

 

 

Canto Terzodecimo

 

Non è, si come il cieco volgo pensa,

De’ beni human ministra la Fortuna:

Ma l’eterna bontà, che gli dispensa,

Tal, che costei non v’ha possanza alcuna.

E l’alta providentia è così immensa,

Che non penetra vista oscura e bruna

Di mortal occhio nel suo largo fondo,

Per questo avvien, che se ne inganna il mondo.

 

Che se noi non restassimo delusi

Dal folle error, che’l veder nostro appanna;

Vedremmo, come date a diversi usi

Son le ricchezze, ond’huom tanto s’affanna.

Ma quel, ch’a la ragion tien gli occhi chiusi,

E l’apre al suo contrario, che ci inganna,

Il talento, che Dio gli hebbe concesso,

Solo rivolge ad util di se stesso.

 

Alcuno a se dannoso, a molti infame

Con fatiche e sudor thesori ammassa;

E poi d’oro, d’argento, e d’un vil rame

Idol fassi, e gli s’inchina e abbassa.

In tanto il poverin, c’ha freddo e fame,

Morir co’ figli e con la moglie lassa;

& ha la mente si crudel e dura

Che non lo degna pur di sepoltura.

 

Altri intento a nudrir cavalli, e cani

Tutto di fasto e di superbia pieno,

Segue i piaceri & i diletti humani,

Consumando il suo haver senza alcun freno,

Ne sa, che sono fuggitivi e vani,

E che non sempre il ciel dura sereno:

Anzi sprezzando la Natura e Dio,

Come bestia adempisce il suo desio.

 

Ma che dirò di quei, c’hanno in governo

De le cose mortali il greve carco?

So, che s’io parlo del tempo moderno,

Grave periglio, e troppo duro varco.

Meglio adunque sarà, che’l mio quaterno

Torni a vergar, che troppo ho teso l’arco:

E dir, si come giusto sdegno accese

Febo e Diana, e qual vendetta prese.

 

Solevan spesso i gioveni Thebani

In larga e bella piazza esercitarsi,

In correr altri, alcuni in trar di mani,

Altri in girar cavalli, o ad affrontarsi;

E s’esercitij nobili e sovrani

Posson d’altra maniera ritrovarsi.

Quivi si pose l’uno e l’altro al varco,

Si come io vi dicea, co’ strali e l’arco.

 

V’eran tra molti i figli sopra detti

De la Reina; e con ardito core

In ricche vesti, e su corsieri eletti

Dimostravan destrezza, arte, e valore:

E in tutti i giuochi i nobili giovinetti

Procacciavan d’haver gloria & honore:

E così ben ciascun si adoperava,

Ch’intento ogn’uno a riguardarli stava.

 

Tra questi Ismeno, che fu’l primo peso

Di Niobe, & era bello a maraviglia;

Mentre a rotar il suo cavallo è inteso

In breve giro, e gli ritien la briglia,

Da non veduto stral nel petto offeso,

Cadendo del Destrier chiuse le ciglia:

Ne al meschin (tanto fu quel colpo rio)

Fuor, ch’un languido oime del petto uscio.

 

Sipilo, che vicino era al fratello,

Havendo udito il suon de la Saetta,

Gia per fuggire il Destrier pronto e snello

Voltava, e lo pungea con molta fretta:

Come al sorger d’un nembo oscuro e fello

Il navigante a prender porto affretta

Spedito legno; onde le vele accoglie,

E con molta prudenza il tempo toglie.

 

Ma nel fuggir quel misero fu colto

Anch’ei d’una saetta dietro il collo;

E cascò del Caval sossopra volto,

E in un momento diè l’ultimo crollo;

Il sangue, quasi un Fiume, iva disciolto

Pel terreno, e di se tutto bagnollo.

Era Fedimo e Tantalo, che tiene

De l’avo il nome, in piu lontane arene.

 

Questi, dapoi ch’esercitati un pezzo

Fur de’ veloci lor Cavalli al corso,

(Ch’era ben d’essi l’uno e l’altro avezzo

Ad allargare e rallentare il morso)

L’uno e l’altro a lottar n’andò da sezzo

Là, dove molto popolo era corso:

E, mentre questo quello abbraccia e preme,

Una saetta gli strafisse insieme.

 

Ambi gemer s’udiro, ambi cascaro

In terra, & ambi a un tempo chiuser gliocchi.

Gli vide Alfeno ambi cader di paro,

E havendo di pietade i sensi tocchi,

Corre per sollevarli: ma d’amaro

Colpo conven, che’l misero trabocchi:

Che Febo gli trapassa il petto e’l cuore;

E presso ai due fratelli anch’ei si more.

 

Ma non fu gia da un sol colpo ferito

Damasithone, il qual non era lunge;

Che in una coscia il calamo ghermito

L’hebbe, e dove il ginocchio si congiunge.

Restava Ilioneo, che sbigottito

Supplice l’una mano e l’altra aggiunge;

E chier a i Dei: che non sapea,

Che sol pregare Apollo egli dovea.

 

La fama via piu presta assai, che’l vento,

Il comune dolor, gli affanni, e’l pianto

De’ parenti, fer noto il suo tormento

A Niobe, che si stava in festa e in canto.

Laqual, non che ne prenda alcun spavento,

Ma stupisce, ch’i Dei possano tanto;

E s’adira col ciel, che si l’offenda,

E sopra lei tanta licenza prenda.

 

S’aggiunge a questo, che si come espresso

Fu’l caso de’ figliuoli al suo consorte,

Incrudelito alhor contra se stesso

Con le sue proprie man si diè la morte.

O, quanto l’esser misero e dimesso

Di Niobe, e la presente avversa sorte,

Era da quella prima differente,

Per cui fu si superba in fra la gente.

 

Poc’anzi altera comportar non volse,

Che la santa Latona s’adorasse,

E con minaccie il popolo rivolse

Si, che da i sacrifici lo ritrasse;

E con si fatto ardir la lingua sciolse,

Che pareva, ch’a Giove minacciasse:

Hor tal le son cangiati i di felici,

Che potria far pietosi i suoi nimici.

 

Ella nel mezo a morti figli stava

Pallida il volto, e lacera le chiome;

E questo e quel stringeva & abbracciava,

Di tutti ad uno ad un chiamando il nome.

E poi verso del ciel gliocchi inalzava:

Crudel (dice) Latona, ecco si come

Puoi trionfar del mio languir cotanto:

Pasci e satia il tuo petto del mio pianto.

 

Satia il tuo fer cor, gioisci affatto,

Che di sette figliuoli, empia e feroce,

M’hai fatto divenire orba ad un tratto

Con sanguinoso fin duro, & atroce:

Ma che? per questo gia non m’ha disfatto,

Se ben l’orgoglio tuo tanto mi nuoce.

Che piu copia di figlie m’è restata

Di te, che sei nel ciel Diva e beata.

 

Non hebbe la parola ultima detta

Basciando i morti corpi ad uno ad uno,

Che sentissi uno scoppio di saetta,

Ch’eccetto Niobe, spavento ciascuno.

Audace la facea l’essere astretta

Da tanti mali. In drappo oscuro e bruno

Stavan le figlie, e co’ sparsi capelli

Piangean dolenti i miseri fratelli.

 

Una volendo la saetta fuori

Cavare ad un di quei meschin del petto,

Caddè, perdendo in viso ogni colore,

Sopra di lui con lagrimoso effetto.

Un’altra mossa dal materno amore

A la madre, pietosa ne l’aspetto,

Dicea parole di conforto piene:

Ma chiuder tosto i labri le conviene.

 

Da subitanea piaga ella impedita

Chiuse la bocca, e sol l’aperse quando

L’alma dal corpo timida e smarrita

Nel cerchio di Pluton corse volando.

Altra cadde fuggendo, e uscì di vita,

Altra ne tol con lei perpetuo bando.

Un’altra in darno di celarsi tenta:

Altra del danno suo trema e paventa.

 

Gia sei con morti songuinose e preste

Eran cadute intorno a la Reina;

& una sola rimavea tra queste,

Di cui Morte facesse anco rapina.

Laqual con tutto il corpo e con la veste

Cercava di coprir Niobe meschina.

Ah per pietà (dicea) sorte spietata,

Questa, ch’è la minor, mi sia lasciata.

 

Ma non giovò, che l’istessa, per cui

Pregava, caddè a li suoi piedi morta;

E n’andò disperata a i Regni bui

A trovar l’altre, che le furo scorta.

Tra il marito, le figlie, e i figli sui

Si lasciò traboccar pallida e smorta

L’orbata madre; e tanto ella s’attrista,

Che sembra un marmo a chi la mira in vista.

 

Capello alcun non le moveva il vento,

Ha gliocchi immoti, e senza sangue il volto:

Il che poteva far chiaro argomento,

che sia lo spirito da le membra sciolto.

Gia per tutte le vene è il sangue spento,

Fredda la lingua, ogni vigor risolto,

Non puo volgere il collo, o mover passo,

E finalmente è divenuta sasso.

 

Di cui stillava fuor, come da fonte,

Nato dal pianto suo perpetuo humore.

Che’l vento la portasse è chi racconte

Ne la patria, che tutta era in dolore,

E la ponesse a la cima d’un Monte,

E che lagrime ancor n’escano fuore.

Alhor tutti i Thebani spaventati

Tornaro a i sacrifici abandonati.