1361-1362
GIOVANNI BOCCACCIO, De mulieribus claris, XV
Tratto da: Tutte le opere di Giovanni Boccaccio, a cura di V. Branca, Mondadori, Milano 1967, vol. 10, pp. 77-81
Niobe, regina di Tebe
Niobe è donna, tra le nobili, quasi ovunque ben nota. Figlia di Tantalo, antichissimo e famosissimo re dei Frigi, e sorella di Pelope, sposò Anfione, re di Tebe, a quel tempo illustrissimo sia perché figlio di Giove, sia per l’eccellenza facondia; e ne ebbe sette figli e sette figlie, mentre ancor dirava la gloria del suo regno. Ma ciò che avrebbe dovuto giovarle, se fosse stata saggia, le fu invece motivo di rovina per la sua superbia. Ella infatti, esalata sia dallo splendore della numerosa prole, sia dal fulgore della stirpe, osò pronunciare parole offensive contro gli dei. Un giorno i Tebani, per ordine di Manto, figlia dell’indovino Tiresia, erano tutti intenti ad un sacrificio in onore di Latona, madre di Apollo e Diana, divinità ivi adorate con antico culto, quando Niobe, quasi agitata dalle furie, circondata dalla schiera dei figli e distinta dalle insegne regali, irruppe in mezzo ai Tebani gridando: - Che demenza è la vostra, o Tebani, di compiere sacrifici a Latona e di anteporre una straniera, figlia di Ceo figlio di Titano, che partorì due soli figli, e per giunta concepiti con adulterio alla vostra regina, figlia del re Tantalo, che ne ha generati ben quattordici (voi ne siete testimoni) dal legittimo sposo? A me, più degnamente, son dovute queste cerimonie! - Ed ecco che pochi attimi dopo tutti i figli, floridi di splendida gioventù, alla sua presenza da un fulmineo morbo furono uccisi, fino all’ultimo; e il marito Anfione, che si vide privato improvvisamente di quattordici figli, sotto la spinta del dolore, si uccise di propria mano. I Tebani stimarono che ciò fosse accaduto per l’ira degli dei che vendicarono l’offesa recata alla dea. Ma Niobe, rimasta vedova, superstite a tanti lutti, cadde in una così grande mestizia e si chiuse in un così ostinato silenzio, che sembrò non più una donna, ma un immobile sasso. Così fu poi dai poeti immaginato che ella fosse stata mutata in una statua di pietra presso il Sipilo, dove i suoi figli erano stati sepolti. È cosa già difficile e odiosa, non dirò tollerare, ma solo vedere uomini superbi. Ma vedere donne superbe è motivo di ben più insopportabile fastidio. Gli uomini, la stessa natura ha per lo più prodotto d’animo caldo e superbo; ma le donne, le ha create d’indole mite remissiva e più adatte alle delicatezze che al comando. Nessuna meraviglia dunque se l’ira divina è più propensa, e il giudizio più crudele, contro le superbe, ogni volta che esse superano i limiti della loro debole condizione: come fece la stolta Niobe, ingannata dalla fallacia della fortuna e ignara del fatto che il generare numerosa prole non è opera della virtù di chi la partorisce, ma della natura che verso la madre volge la benevolenza del cielo. Avrebbe potuto bastarle – e questo era anzi il suo preciso dovere – render grazie a Dio per i benefici concessile, anziché cercar per sé onori divini, come se fosse stato merito suo aver generato così numerosi e splendidi figli. Niobe agì invece con superbia più che con prudenza; e pianse da viva la sua disgrazia, facendo sì che il suo nome ancor per molti secoli fosse odiato dai posteri.