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ARRIGO SIMINTENDI, Le Metamorfosi d’Ovidio, volgarizzate da ser Arrigo Simintendi da Prato, VI

Tratto da: Ovidio, Cinque altri libri delle Metamorfosi d’Ovidio, volgarizzate da ser Arrigo Simintendi da Prato, Ranieri Guasti, Prato 1848

Della iddea Latona e di Niobe

Lo romore era per tutta Lidia; e la novella del fatto n’andò per le castella di Troia, e impacciò lo grande mondo di molte parole. Niobe avea conosciuta colei dinanzi alla sua camera, quando ella usava d’andare a Meonia e al castello Sifilo: e nonne era amonita di fare onore agli dei per la pena d’Aragne popolana; ma usava oltraggiose e superbe parole. Molte cose le davano ardire: ma né le castella del marito, né la generazione d’ambedue loro, né la potenzia del grande regnio, così piacevano a colei (avegnia che tutte le piaceano) come gli suoi figliuoli e le sue figliuole: e sarebbe detta Niobe più aventurata che l’altre madri, s’ella non fusse paruta essere a se medesima. Però che Manto figliuola di Tiresia, profetessa di quello che doveva venire, mossa per divino ammonimento, avea indovinato per lo mezzo delle vie: o donne d’Ismenia, andate spesso, e date piatosi sacrifici a Latona e a’ due suoi figliuoli, con umili prieghi; e legatevi i capelli colle grilande dell’alloro: questo vi comanda Latona colla mia bocca. Fue ubbidita: e tutte le donne di Teba adornano le loro tempie delle comandate foglie, e danno gl’incensi e le parole preghevoli alle sante fiamme.

 

Della superbia di Niobe; e come rimosse il popolo da’ sagrifici di Latona

Ecco Niobe viene onorevole colla turba delle compagne, da ragguardare coll’oro tessuto ne’ vestiri di Frigia; e bella quanto l’ira la lasciava, e movente col bello capo e capelli mandati per l’uno e per l’altro omero. Stette ferma quivi, e poi che, superba, ebbe mandati datorno gli superbi occhi, disse: quale furore è a voi d’onorare prima gli dei udite, che quelli che voi vedete? perché si fa festa a Latona per gli altari; e la mia deità è ancora sanza sacrificio? Tantalo fue mio padre, al quale solo fue lecito di toccare le mense degli iddei di sopra: mia madre è sirocchia delle Pleiade: lo massimo Attalante è mio avolo; lo quale col capo sostiene lo fermamento del cielo. Giove è l’altro avolo; e gloriomi di lui mio suocero. Le gente troiane mi temono: io sono donna della reale città di Cadmo; ed è commessa alla fede del mio marito Amfione: cittadi con popoli sono rette da me e dal mio marito. In qualunque parte della casa volgo gli occhi, veggo infinite ricchezze: anche ho la faccia degnia di dia: a questo aggiungete sette figliole, e altretanti figliuoli giovani; e generi e le nuore. Or cercate se la mia superbia ha cagione; e per qual modo ardite voi di porre innanzi Latona, figliuola di Ceo di Tanide, a me: la quale la grande terra non volle ritenere, quando, per adietro, dovea partorire. La vostra iddia non fu ricevuta dal cielo, né dalla terra, né dall’acqua: ella era sbandita dal mondo; infino a tanto che Delo le diede non fermo luogo, abiente misericordia di lei che andava vagando; e disse a lei: tu viandante erri per le terre, e io per le acque. Quella fue fatta madre di due, ciò è di Febo e di Diana: e per uno ch’ella ne partorisse, io n’ho partoriti sette. Io sono aventurata: e chi lo negherebbe? e sarò aventurata : e chi ne dubiterebbe? l’abondanza de’ figliuoli e delle figliuole mi hanno fatta sicura. Io sono maggiore di colui, al quale la fortuna può nuocere: pognamo ch’ella mi togliesse molte cose, elle me ne lasserà più ch’ella non me ne potrà torre. Avenga che alcuno potesse perire di questi miei molti figliuoli, pure io non sarò receta a novero di due. Partitevi assai in fretta da’ sagrifici; e levatevi l’alloro da’ capelli. Elle lo si levarono, e lasciarono e non fatti sagrifici: ma quanto poteano, onoravano la deità di Latona con cheto mormorio; in quanto ella si discordava dalla cieca turba.

 

Come Latona si richiamò a Febo e a Diana, suoi figliuoli, di Niobe

Allora l’animo della iddea, menata dagli stimoli del suo dolore, disdegnò; e nella somma altezza del monte Cinto disse cotali parole co’ suoi due figliuoli. Ecco io vostra madre, ardita per voi, e che non dare’ luogo ad altra iddia, ch’a Iuno; altri dubita se io sono dea: e per tutti i secoli sono cacciata da’ luoghi onorati, o figliuoli, se voi non mi soccorrete. E non ho solo questo dolore. La figliuola di Tantalo ha aggiunti disonori al crudele fatto; ed è stata ardita, di nanzi porre gli suoi figliuoli a voi; e disse me cieca ( la qual cosa avvenga a lei); e ha crudele lingua, com’ebbe lo suo padre. A queste parole volle aggiungere preghieri. Febo le disse: non dire più; la dimoranza della pena è lungo lamento. Quello medesimo lo disse Diana. E con veloce volare per l’aria, coperti di nebbie, entrarono nella città di Cadmo.

 

Come furono morti tutti e sette e figliuoli di Niobe

Uno ampio campo, e ampiamente aperto, era apresso alle mura di Teba, picchiato da continovi cavalli; nel quale la moltitudine delle ruote avea tritate le sotto poste zolle colle dure unghie. Una parte de’ sette figliuoli d’Amfione salgono quivi in su forti cavalli, e priemono i dossi rossicanti di colore di porpora; e reggeano i freni gravi d’oro. De’ quali Ismenos, lo quale fue la prima soma alla sua madre, mentre ch’elli piega in certa ritondità i corsi del cavallo, e costrigne la schiumante bocca, grida Oi me! e porta la lancia fitta in mezzo al petto; e lassato il freno dalla moriente mano, a poco a poco cadde dalla parte del diritto omero. Sifilo, dopo costui, udito ch’ebbe il suono della saetta per l’aria, allargava i freni del cavallo per fuggire: sì come fugge lo governatore della nave, quando vede li nocenti nugoli; raccoglie le vele pendenti d’ogni parte, acciò che il lieve vento no gli possa nuocere; ma pure ferita da non potere essere schifata seguitò colui che allargava e freni; e la saetta si fermò nella sommità del capo, e vedeasi il ferro ch’avea passata la ‘ngnuda gola. Egli era come cadente per le perdute gambe, e pendea a’ crini del cavallo; e bagnò la sua testa del caldo sangue. Lo sventurato Fedimo e Tantalo, reda del nome dell’avolo, poi ch’ebbono posto fine all’usata fatica del cavalcare, aveano cominciato il giuoco della palestra, che si appartiene a’ giovani. Già alieno congiunti tre volte gli giucanti petti con istretto abracciamento: la saetta mandata dalla contenta corda, si come egli erano congiunti, passò l’uno e l’altro a un’otta. Piansero insieme; insieme puosero in terra e membri piegati per lo dolore, insieme giacenti travolsero gli occhi; a un’otta mandarono fuori l’anima del corpo. Alfenor vede loro, e percotente lo stracciato petto, quasi volando, corse per rilevare i gelati membri con abracciamenti; e cade nel pietoso uficio; però che Febo gli ruppe il cuore col mortale ferro: col quale ritratto, uscì fuori una parte del polmone; e coll’anima si sparse il sangue ne’ venti. Ma una sola ferita non tormentoe lo non tonduto Amasitona: egli era percosso in quella parte ove comincia la gamba, e colà ove lo nodoloso ginocchio fae le congiunture: e mentre ch’egli tenta colla mano di trarne la mortale saetta, l’altra saetta gli fu fitta pea lo colle infino alle penne dell’asta. Lo sangue la cacciò fuori; e gittandosi in alto, risprendea, e uscìa nella percossa aria. Ilioneo, sezzaio di tutti, sostenne, pregando, le levate braccia indarno; e avea duto: o iddei comunalmente tutti (Ignorante, che non bisognava che li pregasse tutti.) perdonatemi. Febo, che tenea l’arco, era già mosso a pietà; quando la saetta fu da no richiamare: ma pure quegli morio per piccola ferita, none abiente percosso il core della saetta molto e dentro.

 

Della morte del marito di Niobe, e della morte delle figliuole, e della morte sua

La fama della pistolenza, e ‘l dolore e le lagrime de’ suoi figliuoli, così subite, feciono la madre certa della ruina, maravigliantesi che li iddei avessono potuto fare questo, e adirantesi ch’eglino avessono auto tanto ardire, e ch’eglino avessono tanta ragione: però che Amfione, padre di coloro, passato col coltello, moriente avea finito il dolore insieme colla vita. O quanto questa Niobe era mutata da quella, che poco dinanzi avea rimosso il popolo da’ sacrifici di Latona, ed era ita superba per lo mezzo della cittade; alla quale eziandio li suoi poteano portare invidia: ma ora era in tale stato, che a’ nimici ne devrebbe essere preso piatà. Ella si gittava in su’ gelati corpi; e sanza alcuno ordine dava e sezzai baci a tutti i figliuoli. Da’ quali levante livide braccia al cielo, disse: o crudele Latona, pasciti del nostro dolore; pascitene, e sazia lo tuo petto del mio pianto, e satolla lo crudele cuore. Io sono menata per li corpi morti de’ miei sette figliuoli. O Latona, rallegrati: o nimica vincitrice, abbi vittoria. Ma perché se’ tu vincitrice? A me misera soperchiano più cose, che a te aventurata: dopo cotanti miei figliuoli morti, ancora vinco io. Ebbe detto: e la saetta risonò, mandata dal contento arco; la quale fece paura a tutte, se non se a Niobe sola: quella stava ardita nel male suo. Le serocchie stavano, scapigliate, co’ neri vestimenti, dinanzi a’ letti de’ fratelli. L’una delle quali, traente la saetta dalle budella del fratello, impigrio morta colla bocca posta in su la faccia del fratello: l’altra, sforzatasi di consolare la misera madre, subitamente chiuse la bocca, se non in tanto quanto n’andò fuori lo spirito. Questa, indarno fugiente, muore: questa si nasconde, l’altra parea che tremasse. La sezzaia rimanea dopo le sei date alla morte, e che aveano sostenute diverse ferite; la quale la madre coprendo con tutto il corpo, e con tutto il vestire, gridò: o Latona, io ti priego che, delle molte che tu m’hai morte, me ne lasci una minima; lasciamene una, di molte. E mentre che co’ prieghieri ne domanda una; quella, per la quale ella priega, muore. Ella rimase cieca tra’ figliuoli e le figliuole e ‘l marito; e per li mali diventò aspra: lo vento no la movea e capelli; lo colore era nel volto sanza sangue; gli occhi non si moveano nelle triste guance: niuna cosa era viva nella immagine. La lingua medesima diventò fredda dentro col duro palato: le vene non si poteano muovere; la testa non si può piegare; le braccia no hanno alcuno movimento; gli piedi non possono andare: dentro del cuore fue fatta sasso. Ma pure piagnie: e atorneata dal turbamento del forte vento, fu menata nella sua patria; ov’ella fue lasciata fitta nella sommità del monte, e ancora la sua immagine del marmo abonda in lagrime.