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2-8 d.C.

OVIDIO, Metamorfosi, VI, 146-312

Testo tratto da: Ovidio, Metamorfosi, a cura di N. Scivoletto, UTET, Torino 2005, pp. 287-297

Tutta la Lidia freme e per le città della Frigia si spande la notizia del fato e diventa oggetto dei discorsi di tutto il mondo. Prima delle sue nozze Niobe aveva conosciuto Aracne, allorché giovinetta abitava nelle Meonia e presso il Sipilo; né tuttavia fu sollecitata dalla pena della conterranea a sottomettersi agli dei e a usare parole più moderate. Molte cose la rendevano superba; pur tuttavia né le arti del marito né la stirpe di entrambi e la potenza del gran regno piacquero a lei, quanto la sua figliolanza, sebbene tutti quei beni le piacessero: e Niobe sarebbe stata proclamata la più fortunata delle madri, se tale non fosse sembrata a se stessa. Invero, la profetessa Manto, figlia di Tiresia, aveva vaticinato per le strade, eccitata dallo spirito divino: «O Ismenedi, andate in massa e offrite a Latona e ai due figli di Latona pio incenso insieme alle preghiere e ornate i capelli con l’alloro; per bocca mia lo ordina Latona». Si obbedisce e tutte le tebane ornano le tempie con le fronde prescritte e offrono incenso e preghiere alle sacre fiamme. Ecco che viene con gran corteggio di compagne Niobe, ammirata per le vesti frigie, intessute d’oro; e leggiadra per quanto lo permette l’ira, che, muovendo con la bella testa i capelli cadenti su entrambe le spalle, si fermò; e dopo avere, baldanzosa, volto in giro gli occhi superbi disse: «Quale pazzia è la vostra, quella di anteporre gli dei di cui avete sentito parlare a quelli che vedete? O perché si venera Latona sugli altari e la mia divinità è ancora senza incenso? Mio padre è Tantalo, solo al quale fu concesso di sedere alla mensa degli dei; una sorella delle Pleiadi è mia madre; è mio avo il grandissimo Atlante, che con il capo regge la volta celeste; Giove è l’altro avo; mi glorio di quello anche come suocero. Le popolazioni della Frigia mi temono; la reggia di Cadmo è sotto il mio dominio e le mura, innalzate al suono della cetra di mio marito, unitamente agli abitanti, sono rette da me e dal mio consorte. In qualunque parte della casa volgo lo sguardo, vedo immense ricchezze; vi si somma poi una bellezza degna di una dea; aggiungi a ciò sette figlie e altrettanti figli e tra poco tanti generi e tante nuore. Chiedetevi pure quale giustificazione abbia la mia superbia, osate pure preferire a me Latona, figlia di un Titano, nata da un non so quale Ceo, alla quale in procinto di partorire una volta la terra vastissima negò una piccola dimora. Né in cielo né in terra né sulle acque la vostra dea fu accolta; era esule dal mondo, finché, avendo compassione di quella donna errante, Delo disse: “Tu, straniera, erri sulle terre, io sulle acque” e le diede un luogo instabile. Quella diventa madre di due figli; questa è la settima parte della mia prole. Sono felice; chi infatti potrebbe negare ciò? E felice resterò; anche di ciò chi potrebbe dubitare? L’abbondanza di figli mi rese sicura. Sono troppo in alto perché la Fortuna mi possa nuocere; ammesso che mi porti via molto, molto di più me ne lascerà. I miei beni sono ormai al di sopra di ogni timore. Immaginate che si sottragga qualche parte a questa moltitudine dei miei figli; benché privata, non mi ridurrò tuttavia al numero di due, che è la prole di Latona; e questa quanto si differenzia da una priva di prole? Allontanatevi [† … †] e toglietevi l’alloro dai capelli». Lo tolgono e lasciano incompiuti i sacri riti e, questo lo possono, venerano la divinità con sommessa preghiera.

La dea si indignò e sulla sommità del Cinto si rivolse ai due figli con tali parole: «Ecco che io, vostra genitrice, superba di avervi dato la vita, che non cederei a nessuna delle dee se non a Giunone, sono oggetto di dubbio circa la mia divinità; e vengo allontanata dagli altari onorati per tanti secoli, se voi, o figli, non mi venite in soccorso. E non è solo questo il dolore; la figlia di Tantalo aggiunse offese all’empia azione ed osò posporre voi ai suoi figli e mi chiamò priva di figli (il che ricada su di lei stessa) e fece sfoggio, la scellerata, della stessa lingua del padre». Latona stava per aggiungere preghiere a questo racconto: «Basta – disse Febo – ; la lunga lamentela costituisce un ritardo alla pena». La stessa cosa disse Febe e con celere volo attraverso l’aria, coperti da nubi, avevano già raggiunto la rocca di Cadmo.

Un campo pianeggiante e assai spazioso era presso le mura, battuto continuamente dai cavalli, dove la moltitudine dei cocchi e i duri zoccoli avevano reso molle il terreno sottostante. Ivi, alcuni dei figli di Anfione montano forti cavalli e ne premono i fianchi ricoperti di porpora tiria e li guidano con briglie cariche d’oro. Fra questi Ismeno, il quale a suo tempo era stato il primo peso che la madre aveva portato in grembo, mentre fa compiere al quadrupede in corsa un circolo perfetto, frenandone il muso spumeggiante «Ahimè», grida e riceve in mezzo al petto un dardo e, mollate le briglia dalla mano morente, cade lentamente di fianco dalla parte destra del cavallo. Sipilo, il più vicino a lui, udito il suono della freccia per l’aria, allentava le briglie e si dava alla fuga, come quando il nocchiero, presagendo la pioggia alla vista di una nube, spiega da ogni parte le vele arrotolate, perché neppure la più lieve brezza vada perduta. Tuttavia, l’infallibile dardo lo coglie mentre allentava le briglie e la freccia vibrante si conficcò nella parte alta del collo, sicché il ferro nudo sporse dalla gola. Egli, così com’era proteso in avanti, rotola lungo le gambe e la criniera del cavallo lanciato nella corsa e insozza la terra di sangue caldo. L’infelice Redimo e Tantalo erede del nome del nonno, come posero fine alla solita fatica, erano passati alla giovanile attività della palestra, dopo essersi unti d’olio; e già allacciati strettamente lottavano petto contro petto; scoccato dall’arco teso un dardo li trapassò entrambi, così stretti com’erano. Insieme gemettero, insieme deposero a terra le membra incurvate dal dolore; stesi a terra, insieme volsero al cielo l’ultimo sguardo, insieme esalarono l’anima. Alfenore li vede e, colpendosi il petto fino a dilaniarlo, accorre per sollevare, abbracciandole, le gelide membra e cade nel pio ufficio; infatti, il dio di Delo gli trapassò il cuore con ferro mortale, e non appena questo venne tirato fuori, anche una parte di polmone venne fuori sulla punta uncinata e insieme con la vita il sangue si sparse nell’aria. Ma Damasictone dai lunghi capelli non fu colpito da una sola ferita; era stato colpito dove comincia la coscia, cioè dove il ginocchio muscoloso forma una molle articolazione. E mentre tenta con la mano di estrarre il dardo mortale, una seconda freccia si conficcò fino alla base della gola. Il sangue la espelle e versandosi fuori sprizza in alto e zampilla per lungo tratto solcando l’aria. L’ultimo, Ilioneo, aveva levato al cielo in preghiera le braccia senza effetto e «O dèi, tutti insieme, risparmiatemi» gridò, ignorando che non tutti dovevano essere implorati. Il dio arciero s’era mosso a pietà quando ormai il dardo non si poteva più ritirare; tuttavia, lo uccise una piccola ferita, non avendo la freccia colpito il cuore in profondità.

La notizia della sciagura, il dolore del popolo e le lacrime dei suoi fecero consapevole dell’improvvisa catastrofe la madre, la quale si stupiva che gli dèi avessero potuto ciò e si adirava che lo avessero osato e che avessero sì gran potenza. Inoltre, il padre Anfione, conficcatasi una lama nel petto aveva posto fine con quella morte alla vita e al dolore. Ahi! Quanto questa Niobe distava da quella Niobe che poco prima aveva allontanato la folla dagli altari di Latona e che avanzava per la città con testa eretta, invidiata dai suoi, ma ora oggetto di pietà anche per un nemico! Si getta sui gelidi corpi e a caso dispensa gli ultimi baci a tutti i figli. Staccando da questi le braccia illividite per levarle verso il cielo: «Pasciti, o crudele Latona, del mio dolore, pasciti – dice – e sazia il tuo cuore con il mio pianto; e sazia il cuore feroce – ripeté –, son portata alla tomba a causa di queste sette morti; esulta e trionfa, nemica vittoriosa! Perché poi vittoriosa? A me infelice ne restano più che a te infelice; anche dopo tante morti son superiore». Aveva finito di parlare ed ecco che risuonò dall’arco teso la corda che atterrì tutti eccetto la sola Niobe; quella è temeraria anche nella sventura. Le sorelle stavano con le nere vesti davanti ai catafalchi dei fratelli, con in capelli sciolti. Una di esse, estraendo dalle sue viscere il dardo che vi si era conficcato, morente si accasciò con il viso reclinato sul fratello; un’altra, che tentava di consolare l’infelice genitrice, tacque all’improvviso e si piegò in due per una ferita nascosta [ chiuse la bocca solo quando esalò l’ultimo respiro]. Una, mentre fugge invano, stramazza, l’altra muore sul corpo della sorella; una si nasconde, e avresti potuto vedere un’altra muoversi tremante. Dopo che sei erano state uccise, avendo subito diverse ferite, restava l’ultima; la madre, ricoprendola con tutto il corpo e con tutta la veste: «Una sola, la più piccola, lasciamene; di molte ti chiedo la più piccola – gridava – e una sola». E mentre prega, quella la quale sta pregando, cade. Privata della famiglia si accasciò tra i figli esanimi e le figlie e il marito e divenne di pietra per tante sciagure; l’aria non muove i capelli, esangue è il colore del volto, gli occhi stanno immoti nel mesto viso, niente di vivo è nel suo aspetto. Anche la lingua nell’interno del duro palato si irrigidisce e i polsi cessano di battere; né il collo può piegarsi né le braccia muoversi né i piedi camminare; anche nelle viscere è pietra. Piange tuttavia a avvolta in un turbine di vento impetuoso fu trasportata nella sua patria; colà, collocata sulla vetta del monte, si stempera in pianto ed anche ora il marmo stilla lacrime.