Arafr06

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GIOVANNI ANDREA DELL’ANGUILLARA, Le Metamorfosi di Ovidio ridotte da Giovanni Andrea dell’Anguillara in ottava rima, Venezia, Libro VI

 

Tutto ascoltato avea la saggia Dea

Il canto della Musa altero, e degno;

E de le dee vittoriose havea

Sommamente lodato il giusto sdegno.

Ne sta ben, ch’una donna infima, e rea

S’agguaglia à gli alti Dei del santo regno

E giusta è l’ira del divin collegio,

Se noce à quei, che ‘l cielo hanno in dispregio.

 

Ben puo, dicea, ciascun lodar le Muse

D’haver dato castigo al lor oltraggio;

Ma chi sarà, che me non danni, e accuse,

Poi ch’in sì giusto sdegno anch’io non cagio?

Ogn’un già sa, quanta arroganza hogi use

Aranne, che osa porsi al mio paraggio,

E s’io la lascio stare in questo inganno,

Quanto lodo le Dee, tanto me danno.

 

In Lydia già formò l’humano aspetto

A questa Aranne il colofonio Idmone,

Questi tingea nel suo povero tetto

Di più color la spoglia del montone.

Colei, che nel suo sen le diè ricetto,

Già passat’era al regno di Plutone.

De la piccola Hippepa i padri furo,

Ch’al mondo la donar di sangue oscuro.

 

Ma fu ben ne la Lidia in ogni parte

Famosa nel Palladio almo artificio.

Nel far fil de la lana, e ‘n ogni parte,

Che serve al necessario lanificio,

Tutte avanzò le donne di quell’arte

Di bontà, di splendor, d’ogni altro officio.

Ma quanto ogni altra superò costei,

Tanto la figlia Aranne avanzò lei,

 

Lasciaro spesso il monte di Timolo

Con le piante vinifere Liee

Di tutti i numi abbandonato, e solo

Le Driade, l’Amadriade, e le Napee;

Sovente abbandonaro Hermo, e Pattolo

Le risplendenti, e cristalline Dee;

Sol per veder come la dotta Aranne

L’elettissime fila insieme impanne.

 

Perche non sol la tela ben contesta

Facea stupire ogn’un di maraviglia,

Onde si vaga uscia più d’una vesta,

Ch’a rimirar vi si perdean le ciglia;

Ma veder come un fil con l’altro investa,

Se fila, come il tende, e l’assottiglia,

Rendeva ogn’un, che v’havea l’occhio intento

Tutto in un punto stupido, e contento.

 

Stupide le Napee dicean fra loro,

Con si gran studio ella il suo studio osserva,

E mesce cosi ben la seta, e l’oro,

E tutto quel, che l’arte amplia, e conferma,

Che mostra ben che dal celeste choro

Discesa ad insegnarle sia Minerva.

Ella superba il nega, e tiensi offesa

D’haver da si gran Dea quell’arte appresa.

 

Venga, dicea, la Dea saggia, e pudica,

S’osa di starmi al par qui meco in prova,

Che con ogni sua industria, ogni fatica,

Troverà l’arte mia più rara, e nova,

Buona fu già la sua scientia antica,

Ma il mio lavor l’uso moderno approva.

E se meglio la Dea vuol, ch’io gliel mostri

Armisi, e comparisca, e meco giostri.

 

Come dal monte pio Minerva scende,

E lascia l’immortale alma foresta,

E l’orgoglio d’Aranne ancora intende,

E come l’arte, e lei biasmar non resta,

D’una attempata vecchia il volto prende,

Crespa la pelle fa, calva la testa,

Curva, e debil ne và carca d’affanni,

E mostra al volto haver più di cent’anni.

 

Regge sopra un baston l’antico fianco,

E và, dove la vergine lavora,

E con inchino humil, debile e stanco,

Con ogni mostra esterior l’honora;

Poi come quella, c’ha quei denti manco,

Che balbo fanno andar l’accento fuora,

Alzando verso lei l’afflitto aspetto,

Un suono articolò non molto schietto.

 

Se ben l’età senil debile, e inferma

Infiniti dispregi al vecchio apporta,

S’ha per opinion fondata, e ferma,

Che non s’hà in tutto a riputar per morta,

Perche la prova, ove si fonda, e ferma,

La fa de l’altre età più saggia, e accorta.

Si che non disprezzar, ma dà l’orecchia

Al consiglio fedel di questa vecchia.

 

Non si può dir se non che troppo ardisca,

sia chi si sia qua giù nato mortale,

Che con parole indebite s’arrisca

Di chiamarsi a gli Dei celesti eguale.

Onde perche l’error tuo non punisca,

A la vergine saggia, et immortale,ì

Chiedi mercè, da poi che tu non sei,

Si come ti sei fatta, eguale à lei.

 

Bastiti haver nel mondo in ogni parte

Fra le genti terrene il primo honore

In questa, che trovò tant’utile arte

La Dea della prudenza, e del valore.

Ma cedi a l’immortal foror di Marte

Tu, che se nata nel mortale errore,

E duolti seco homai del troppo orgoglio,

Ch’ella mercede havrà del tuo cordoglio.

 

Guardò con torte, e disdegnate ciglia

L’allhor da lei non conosciuta Diva

La troppo ardita, e temeraria figlia,

Per lo troppo saper del senno priva.

Poi con questo parlar seco s’appiglia,

Con quel furor ch’in lei lo sdegno avviva,

E à gran fatica ritener si puote.

Di percotere a lei le crespe gote.

 

Pur troppo è ver, che la soverchia vita

Priva l’huom del più nobile sentimento.

Vedete questa vecchia rimbambita,

Che dar consiglio a me prende ardimento.

E ben convien, che sia del senno uscita,

Che mostra haver de gli anni più di cento.

Il consiglio del vecchio è buono, e saggio;

Ma non di quel, che vive di vantaggio.

 

Qualche tua pronepote, o descendente 

La voce tua fastidiosa assordi:

Ch’io ho tanto consiglio, e tanta mente,

Che non ho punto a far de tuoi ricordi.

S’atta a giostrar del par la Dea si sente,

La fila a figurar l’historie accordi,

Ma so, ch’ella tal prova non desia,

Che sa, ch’in questo affar la palma è mia.

 

Sdegnata Palla del soverchio orgoglio,

Che in questa insana vergine ritrova,

Minacciare dice, Contentar ti voglio,

Minerva io sono, e vo’ venire in prova.

E già di questa pelle mi dispoglio,

Ch’in me tutto in un tempo è vecchia, e nova,

E quel, ch’or tengo, volto antico, e schivo

Cangio col mio sembiante antico, e Divo.

 

Come la Dea palesa il suo splendore

Con la divina sua fronte, e favella;

Le Ninfe Lidie, e le propinque nuore,

Che stupian del lavoro de la donzella,

Tutte s’inginocchiaro a fare honore

A la presa da lei forma novella,

E improvviso terror ciascuna oprresse,

Se non l’altera vergine, che tesse.

 

E ver, ch’un improvviso sangue tinse

Di vergogna e rossor, l’invito volto;

E durò alquanto, e poi quel rosso estinse

Il primiero lavor nel cor raccolto.

Così talhor l’Aurora il ciel dipinse

D’ostro, ma quel color non durò molto,

Che tolse il rosso al cielo il Sol, ch’apparse

E di suo natural color lo sparse.

 

Fa , ch’Aranne il suo fatto il corso accende,

La stolida vittoria, che la move,

E superare in quella impresa intende

La figlia incomparabile di Giove.

Più la sdegnata Dea non la riprende.

Ma vuol venire à le dannose prove,

E le vuol far vedere quanto s’inganni

Con suoi perpetui e manifesti danni.

 

Conchiuso c’hanno il singular certame

L’alma inconsiderata, e la prudente,

Gli ordimenti apparecchiano, e le trame,

Et ogni altra maniera appartenente,

Il più lodato poi di seta stame

Fan nel pettino entrar fra dente, e dente.

Il filo il dente incatenato lassa,

E poi per molti licci al subbio passa.

 

Tutto d’un sol color fan l’ordimento,

E del par fila ad ogni dente danno;

Ma la trama vi fan d’oro, e d’argento,

E d’altri assai color, vaghezza al panno.

Le calcole vicine al pavimento,

Ch’ubidiscono al piè, sospese stanno,

Son molte e corrispondono in quest’opra

A i molti licci, ch’udiscon sopra.

 

La vergine terrena, e l’immortale

Secondo ne’ duelli et far si sole,

Vi combatter si dè con arma eguale,

Voler del pari haver colori, e spole,

Hor per haver la palma trionfale

Pensan formar figure uniche, e sole.

Onde ogn’una di lor molti cannelli

Veste di color varij, e tutti belli.

 

Chiude il cannello il picciolo spoletto,

E poi la spola in sen la canna abbraccia,

Elle poste à seder sopra quel letto,

Che serve à chi l’un fil con l’altro allaccia:

L’animo intende ogn’una al bello obietto:

Con le vest’alte, et con l’ignude braccia

Fan, che la trama per l’ordito passe,

E su’l passato fil batton le casse.

 

Questa calcola, e quella il piede offende,

E mentre preme lor l’attenta schena

Fa, che ‘l liccio, e l’ordito hor sale hor scende

E che la trama misera incatena,

La spola una man dà, l’altra la rende,

E questo e quella man le casse mena,

E mentre il pugno hor perde, hor si riscuote

Gira il cannello, e ‘l fil disvolge, e scuote.

 

Per aiutar l’historia col colore,

Varian le spole, ov’è il color riposto:

E ‘n quella parte appare il fil di fuore,

Che serve a l’opra, e ‘l resto stà nascosto.

Mover fa il piè la parte inferiore,

E ‘l liccio intende, e fa quel che gliè imposto.

E la trama informante in parte scopre,

Ch’al lavor giova, e tutto il resto copre.

 

Tingon ne l’opra istoria è questa, e quella

Vario, si come è vario il lor pensiero,

E fanvi ogni figura cosi bella,

E con cosi mirabil magistero,

Che sol manca lo spirto, e la favella

Al vivo gesto, e d’ogni parte intero:

E del vario color, che ‘l panno ingombra,

Un fa manto, un la carne, un’altro l’ombra.

 

Palla nel panno suo superbo, e vago (…)

 

(…)

E per farle veder di quai trofei

Dee trionfar la temeraria figlia,

Fa quattro historie d’huomini arroganti,

Che d’agguagliarsi osaro à i Numi santi.

 

Havea si ben la Dea tutta dipinta

Né la bell’opra questa istoria intera,

Che non l’havreste detta ombra dipinta,

Ma ben un’attion vivace, e vera.

La margine d’un fregio restò tinta,

Dove ramo con ramo intrecciat’era.

Del frutto, che i pacifici in pregio hanno,

E con l’arbore sua diè fine al panno.

 

L’altra mostrò con bel compartimento

Ne la sua dotta, e ben intensa trama

Giove tutto à l’amor lascivo intento,

(…)

 

D’hedera il panno estremo un fregio serra

Fatto a grotteschi industriosi, e belli,

Dove cerchio con cerchio in un s’afferra,

Pien di semicentauri, e semiuccelli,

Poi per dar fine alla Palladia guerra

Fan paragon de figurati velli:

E se ben quello di Palla era divino,

Di poco gli cedea l’Aranneo lino.

 

Quanto lodo la Dea d’Aranne l’arte,

Tanto dannò la sua profana istoria,

Che senza offender la celeste parte,

Ben acquistar potea la stessa gloria.

Tutto straccia quel panno a parte, a parte

De celesti peccati empia memoria,

Per non mostrare ai secoli novelli

Gli eccessi de gli zij, padre, e fratelli.

 

Poi ch’hebbe a le figure illustri, e conte

Tolto l’honor, c’havean dal vario laccio,

Si trovò in man del Citoriaco monte

Da misurare il lin tessuto in braccio:

E due, e tre volte ne l’Arannea fronte

Alzando più, ch’alzar si possa il braccio,

Lasciò cader il Citoriaco arbusto

Con degno premio al suo lavoro ingiusto.

 

Maggior non si può fare onta, ò dispetto,

Ch’opra, schernir, ch’un fa, conosce, e stima.

L’infelice donzella, che negletto

Vede, e stracciato un vel di tanta stima,

E percosso si sente il volto, e ‘l petto,

Prenda una fune, e monta a un banco in cima

Col laccio annoda il collo, et una trave,

Poi fida al lino attorto il corpo grave.

 

Ma prima che soffocasse il nodo l’alma,

Soccorso à tempo à l’infelice diede

De l’alma Dea la vincitrice palma,

C’hebbe del pender suo qualche mercede.

D’herba, e venen la sua terrena salma

Sparse con presta man dal capo al piede,

Poi disse, un nuovo corpo informa, e prendi,

E vivi venenosa, e tessi, e pendi.

 

Apena quel venen sopra le sparse

Che tolse al corpo il grande, il duro, e ‘l greve

Con picciol capo, e ventre a un tratto apparse

Un anima lanuginoso, e breve.

Un sottil piè venne ogni dito a farse,

Che pende il tetto risupino, e leve.

Dal picciol corpo il lin rende, e lo stame,

Et incatena achor l’antiche trame.

 

Tutta la Lidia già freme, e risuona

D’Aranne, e de la Dea di torma, in torma,

E che la tessitrice di Meona

Essercita il suo lin sotto altra forma.

La fama che di questo il mondo introna,

Stampa da Lidia ogn’hor più lunge l’orma.

Corre per tutto il mondo al Sole, e a l’ombra.

E del miser successo il mondo ingombra.

 

Ogni un si sbigottisce, ogni un risolve,

Che offender l’huom non dee celeste Nume

Perch’egli è l’offensore in forma volve,

Che segue in peggior corpo il suo costume

Overo il fa venir cenere, e polve,

O sasso senza mente, e senza lume.

(…)