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BOCCACCIO, De Claris Mulieribus, cap. XVII

Traduzione di M. Donato degli Albanzani di Casentino detto l’Apenninigena, edizione curata da Giacomo Manzoni, Bologna, 1881

Aragne d’Asia

Aragne fu una donna d’Asia, e fu di popolo, figliuola di Idomonio di Colofonia tintore di lana; la quale, benché non fosse famosa per la sua schiatta, nondimeno si dee magnificare per alcune sue virtù. Affermano alcuni antichi, che ella trovò l’uso del lino, e che ella per prima pensò fare le reti: è incerto se furono da uccellare o da pescare. E avendo trovato suo figliuolo, il quale fu chiamato Closter, i fusi atti ad arte di lana, pensano che questa tenesse il principato nell’arte del tessere, e che ella fosse circa questa di sì grande ingegno, che ella con le dita, con le fila, con la spatola e con altre cose destre a siffatti uffizi, lavorava quello che un pittore faceva col pennello. E non è da spregiare questo artifizio in una femmina.  E certo, udendo di sì chiara dominanza, non solamente a Ipeo, dove abitando avea sua tesseria, ma in ogni luogo, insuperbì tanto ch’ella ardì venire a contenzione con Pallade, la quale avea trovata quell’arte. E non potendo comportare essere vinta con paziente animo, con un laccio finì sua vita. Per la qual cosa fu data cagione a quelli che di ciò vollero fare finzione, perché avendo convenienza Aragne con ragno, verme nel nome e nell’esercizio, e quello stando appiccato per lo filo, com’ella per lo laccio, dissero che Aragne, per misericordia degli dei, fu convertita in ragno, e con continua sollecitudine soprasta il primo artifizio. Altri dissero che, benché ella si mettesse il laccio per morire, non morì, sopraggiungendo l’aiuto de’ suoi; ma lasciata l’arte sua, sempre rimase in dolore. E al presente prego che, se alcuno è, il quale creda in alcuna cosa andare innanzi agli altri, dica, Aragne medesima se gli piace, se ella pensava poter volgere il cielo in sé, e trarre con seco tutte le dignitadi, o se piuttosto ella avrebbe potuto, co’ preghi e co’ meriti, avere fatto verso di sé il suo Dio, fattore di tutte le cose, benigno, sì che, con l’aperto grembo di sua cortesia, lasciate l’altre, avesse rendute tutte grazie a quella? Ma che dirò io? Questa pare avere così giudicato. E certamente fu somma stoltizia. La natura con eterna legge volge il cielo, e dà a tutti, gl’ingegni atti a varie cose. Questi, come diventano deboli per ozio e per pigrizia, così (per istudio e per esercizio), diventano chiari e capaci delle grandissime cose. E stimolando quella medesima natura, tutti siamo mossi dal desiderio al conoscimento di tutte le cose, benché non con una medesima sollecitudine e fortuna. E se così è, che contraria, che molti non possano essere pari in una medesima cosa? E per questo, alcuno a sua gloria stimare, sé solo avanzare gli altri nel corso di sì grande moltitudine d’uomini, è cosa che spetta a matto animo. E certo io desidererei che questa Aragne fosse sola, e a noi fosse sollazzo, perché sono senza numero i legati di tanta sciocchezza, i quali, levandosi in periodo di matta presunzione, fanno che non dobbiamo ridere di Aragne.