
Titolo dell’opera: Dante invoca Apollo
Autore: Giovanni di Paolo
Datazione: 1444-1450
Collocazione: Londra, British Library, manoscritto della Divina Commedia di Dante Alighieri, Yates Thompson 36, f. 129
Committenza:
Tipologia: illustrazione
Tecnica: miniatura
Soggetto principale: Apollo porge due corone d’alloro a Dante
Soggetto secondario: Marsia, completamente scuoiato della sua pelle che giace in terra, suona il flauto; in cielo le nove Muse
Personaggi: Dante, Apollo, Marsia, Muse
Attributi: corona d’alloro, corvo, lauro (Apollo); pelle scuoiata, flauto (Marsia)
Contesto: scena all’aperto
Precedenti:
Derivazioni:
Immagini: http://www.bl.uk/catalogues/illuminatedmanuscripts/ILLUMIN.ASP?Size=mid&IllID=8245
Bibliografia: Pope-Hennessy J., Paradiso: The Illuminations to Dante's Divine Comedy by Giovanni di Paolo, Thames and Hudson, Londra 1993
Annotazioni redazionali: nel primo canto del Paradiso Dante, che si accinge a compiere l’ultima parte del suo viaggio, quella che lo porterà ad incontrare Dio, resosi conto della difficoltà e dell’altezza dell’argomento da trattare non invoca più, come aveva fatto nelle due cantiche precedenti, le Muse, simbolo della scienza umana e della tecnica poetica, ma direttamente Apollo, simbolo della scienza teologica. Nell’invocazione Dante fa un breve riferimento al mito di Marsia: “O buono Appollo, a l’ultimo lavoro/ fammi del tuo valor sì fatto vaso,/ come dimandi a dar l’amato alloro./ Infino a qui l’un giogo di Parnaso/ assai mi fu; ma or con amendue/ m’è uopo intrar ne l’aringo rimaso./ Entra nel petto mio, e spira tue/ sì come quando Marsïa traesti/ de la vagina de le membra sue” (Marsfm07). Questa allusione è stata variamente interpretata dalla critica: da una parte si pensa all’uso del mito di Marsia come simbolo di superbia punita, un esempio negativo che il poeta vuole evitare di emulare ammettendo la limitatezza dei suoi mezzi e invocando quindi l’aiuto divino; dall’altra, sulla scia delle interpretazioni pitagorico-platoniche, la pena subita da Marsia viene interpretata come un passaggio obbligato attraverso il quale dovrà passare lo stesso Dante per poter completare il suo viaggio, per cui lo scuoiamento viene interpretato come una liberazione dal legame troppo forte con la terra e con tutto ciò che concerne l’esperienza umana, limitante ai fini del viaggio ultraterreno del poeta. Molto interessante a tal proposito la miniatura attribuita a Giovanni di Paolo; come sostiene Pope-Hennessy, infatti, la maggior parte delle illustrazioni del primo canto del Paradiso mostrano Dante e Beatrice che parlano sul monte del Purgatorio. Un’eccezione a questa tradizione è costituita proprio dalla miniatura qui in esame, in cui le terzine di Dante sono illustrate in maniera piuttosto fedele. Partendo da sinistra troviamo Dante inginocchiato di fronte ad Apollo; il dio è coronato d’alloro, indossa un’armatura romana e porge al poeta due corone di alloro, quell’amato alloro simbolo per eccellenza della gloria poetica; sotto i suoi piedi un corvo. Alle spalle di Apollo un albero di alloro e un monte con due speroni rocciosi: si tratta del monte Parnaso, che viene ricordato in molti commentari danteschi del tempo come formato da “due corni, cioè due colli”, l’Elicona sede delle Muse, e Cirra sede di Apollo. E infatti in cielo, in corrispondenza del monte, troviamo le nove Muse, coloro alle quali Dante si era rivolto prima di iniziare a cantare dell’Inferno e del Purgatorio. Sulla destra riverso in terra il corpo di Marsia presenta una ferita lungo il torace; ancora più in là un uomo nudo, con la pelle di un colore piuttosto vivace, suona un flauto. Pope-Hennessy identifica correttamente il corpo in terra con quello di Marsia, ma è vago nel descrivere il suonatore. L’ipotesi più probabile è che la miniatura mostri Marsia che, già completamente scuoiato (particolare che spiegherebbe il colore rossastro della sua pelle, essendo i muscoli in vista), suona il flauto; di conseguenza, raffigurato in primo piano non abbiamo il corpo di Marsia, ma solo la sua pelle svuotata del corpo. Nell’ottica dantesca il liberarsi dell’involucro corporeo è il presupposto irrinunciabile per portare a compimento il suo viaggio nell’Aldilà ed arrivare alla visione di “colui che tutto move”, “che ridire/ né sa né può chi di là sú discende”; ed è per questo che – unico caso nell’iconografia del mito – Marsia scorticato non muore, ma vive dopo la morte. Riporto a tal proposito l’interpretazione Mazzoni (1914) della terzina dantesca in questione di: “Non la pelle è tratta al satiro, ma il Satiro al tocco onnipotente del Dio è tratto egli fuor dalla pelle, d’un sol colpo: fu come sfoderare una spada, il trarlo dalla vagina delle sue membra”.
Chiara Mataloni