Seconda metà XVI sec.
BENEDETTO VARCHI, Lezioni sul Dante e prose varie ... la maggior parte inedite tratte ora in luce dagli originali della Biblioteca Rinucciniana, I, 240-242
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http://bivio.signum.sns.it/bvWorkTOC.php?authorSign=VarchiBenedetto&titleSign=LezionisulDante
Entra nel petto mio e spira tue,
Sì come quando Marsia traesti
Della vagina delle membra sue.
Priega Apollo che voglia intrargli nel petto, e quindi favellare egli; la qual cosa non è discosto dalla verità, come potrebbe credere alcuno; perciocché quella prima e vera spezie di furore poetico, la quale viene da Dio, occupa la mente di maniera che i poeti, come dice divinamente Platone divino, passato quel furore non intendono eglino medesimi quello che hanno pronunziato e scritto. Onde diceva Ovidio:
Est Deus in nobis: agitante calescimus illo;
ed altrove:
Spiritus aethereis sedibus ille venit.
E perciò disse Dante: entra nel petto mio, cioè nel cuore, pigliando il contenente per lo contenuto, e favellò come suole peripateticamente, perciocché secondo Aristotile, tutte le virtù dell'anima sono principalmente nel cuore, e non nel cervello, come vuole Galeno ed in parte Platone. spira: spirare è propio in latino quello che noi diciamo soffiare, tolto pur da loro, ed è propio de' venti e delle saette ancora, come mostra il Petrarca nella canzone Verdi panni ecc.
Ove non spira folgore né 'ndegno
Vento mai che l'aggrave.
Ed altrove:
L'aura celeste che 'n quel verde lauro
Spira, ov'Amor ferì nel fianco Apollo.
Significa ancora quello che noi diciamo alitare. Ed il medesimo in altro luogo:
L'altra è d'un marmo che si muova e spiri.
E come significa generalmente, preso in significazione attiva, mandar fuori, così significa ancora ricevere dentro, preso invece di inspirare, come quando il Petrarca disse nella canzone
O aspettata in ciel beata e bella:
Onde nel petto al nuovo Carlo spira
La vendetta ch'a noi tardata noce.
TUE in vece di tu, o perché gli antichi nostri pronunziavano così, come si truova ne' lor libri, fue, amoe, udie ed infiniti altri, onde levata l'ultima lettera e sillaba rimase il medesimo accento acuto fù, amò, udì; il che non avviene in disse, lesse ed altri tali che non si dissero mai altramente, se non leggei e dicei, e per avventura più anticamente dicetti e leggetti; ovvero per quella figura chiamata da' Greci proparalesse e da alcuni paragoge, la quale è quando nel fine della parola s'aggiugne alcuna lettera, ovvero sillaba come in questo luogo; onde i Latini aggiungono a tutti gli infiniti passivi o che finiscono in i la sillaba er per questa figura, dicendo dicier, tradier ec.. Ed il Petrarca medesimo l'usò sì altrove e sì quando disse:
Che quasi un bel sereno a mezzo il die.
sì come quando Marsia traesti della vagina delle membra sue: non bastava a Dante che Febo gli entrasse nel petto e spirasse egli, ma lo prega che spiri in quella guisa che egli spirò quando vinse a sonare Marsia, e per punizione della sua arroganza lo scorticò. sì come, e s'intende spirasti, e si deve credere che egli mettesse allora tutto l'ingegno e forze sue; quando traesti marsia della vagina, cioè guaina, delle sue membra, il che non vuol significare altro che scorticare; ed è questo ancora luogo topico tratto dalla guaina, la quale come rinvolge e contiene il coltello, così la buccia e pelle nostra, che alcuni antichi chiamano il bucchio, contiene e rinvolge la carne nostra. E pare a me che egli con queste parole ci dimostri Marsia come in una pittura scorticato a guisa che si veggono molte volte i ranocchi; né poteva il poeta usare in sì alta e degna materia il propio verbo scorticare, come troppo basso e plebeio. marsia, la favola è questa: Minerva avendo dell'osso d'uno stinco fatto un piffero o veramente flauto, e sonando con esso a un convito di Giove, fu uccellata da tutti gl'Iddii, parendo lor brutta cosa che si guastasse il viso col gonfiare delle gote; ond'ella vedutasi tale nella palude Tritonia, gittò via il sufolo, il quale trovato da un Satiro chiamato Marsia, e cominciatolo a sonare, venne in tanta superbia ed arroganza che egli ardì di voler cantare a pruova con Apollo, ed a giudizio del re Mida, eletto giudice sopra questo fatto, ebbe la sentenza in favore. Ma Pallade, dea della sapienza, giudicò altramente; onde Apollo per punire Mida del falso giudizio suo, e mostrargli che non se ne intendeva, gli fece gli orecchi d'asino; e Marsia, per gastigarlo della audacia ed arroganza sua, scorticò, e così scorticato appiccò colla pelle pendente a uno albero, acciocché gli altri imparassero. Il fingimento di questa favola è che Marsia, preso per qualunche ignorante a cui nondimeno paia sapere, viene in tanta arroganza che egli ardisce di provocare a combatter seco Apollo, cioè qualunche uomo dotto e saggio, ed al giudizio di Mida, cioè degli altri uomini ignoranti o appassionati, è superiore; ma al giudizio di Pallade, cioè degli uomini scienziati, rimane stolto come egli s'era e perdente, e finalmente insieme col suo giudice rimane beffato e punito. E da questa favola verissima potemo cognoscere, che d'ogni tempo e in ogni luogo si trovarono de' Marsi e dei Midi.