Marsfc29

II sec. d.C.

APULEIO, Florida, 3, Marsia ed Apollo

Traduzione tratta da: Apuleio, L'apologia o La magia, Florida, a cura di Augello G., UTET, Torino 1984, pp. 432-437

Hyagnis fu, come apprendiamo dalla tradizione, padre e maestro del suonatore di flauto Marsia. In tempi in cui ancora non si conosceva la musica, lui solo sapeva suonare delle ariette senza tuttavia conoscere, ciò che invece fu fatto dopo, né i suoni che commuovono l’anima né le armonie modulate, né il flauto dai molti fori. Giacchè quest’arte era stata inventata da poco e appena era alla sua nascita. È ovvio che nessuna cosa ai suoi inizi può essere perfetta, ma in quasi tutte le cose gli inizi della speranza precedono la prova della realizzazione. Insomma prima di Hyagnis generalmente non erano per nulla più abili del pecoraio e del bovaro virgiliano che “su stridula canna un miserabile suono disperdevano”. Che se qualcuno pareva andare un po’ oltre in questa arte, egli tuttavia aveva per abitudine di produrre dei suoni da un solo flauto, come da una tromba. Hyagnis fu il primo che nel suonare separò le mani, il primo che fece vibrare due flauti con un solo suono; il primo che per mezzo di fori praticati a destra e a sinistra, con note ora acute ora gravi, seppe formare un accordo musicale. Suo figlio Marsia seguì il padre nell’arte del flauto; ma per il resto frigio e barbaro, di aspetto bestiale, truce, ispido, con la barba immonda, col corpo coperto di spine e di peli. Si racconta (oh sacrilegio!) che volle gareggiare con Apollo, lui brutto con la bellezza in persona; lui, uno scorzone di villanaccio, con un essere tanto raffinato; lui, bestia, con un dio. Le muse con Minerva assistettero alla gara a titolo di giudici, ma in realtà per ridersela del mostro ed evidentemente per mettere in canzonella la sua barbarie e per punirlo altresì della sua stoltezza. Ma Marsia, vero monumento di scempiaggine, non capì nemmeno che lo si metteva in burla. E prima di cominciare a soffiare nel flauto, da quel barbaro che era, cominciò a sproloquiare con una serie di insensatezze su di se stesso e su di Apollo. Lodava se stesso, i suoi capelli all’indietro e la sua barba squallida, il petto irsuto e il fatto che era sì un flautista, ma quanto a condizioni, un povero. Rimproverava ad Apollo – cosa ridicola! – i meriti opposti, il fatto che egli avesse la chioma intonsa e le guance fresche e il corpo tanto liscio e che fosse così pieno di talenti musicali e di condizione ricca. “E per incominciare – diceva – che i suoi capelli con i boccoli bene acconciati  e i riccioli a tira baci ricadono sulla fronte e ondeggiano sulle tempie; tutto il corpo è bellissimo, le membra lucenti, la lingua profetica e di pari facondia, sia che tu voglia parlare in prosa sia in versi. Che dire del vestito? Delicato nel tessuto, molle a toccarsi, raggiante di porpora? E la sua lira? In essa brilla l’oro, biancheggia l’avorio, fan vario giuoco le gemme preziose. Che dire che sa cantare in modo piacevolissimo e abilissimo? – “Tutte queste seduzioni, diceva, non si addicono al valore, ma sono un segno di mollezza”. E innalzava le qualità del suo fisico, come il colmo della bellezza. Scoppiarono a ridere le Muse nel sentire rinfacciare ad Apollo delle accuse, che ogni uomo saggio vorrebbe rivolte a se stesso; e quel flautista, che fu vinto nella gara, lo lasciarono come un orso bipede, scorticato e con le viscere a nudo e lacerate. Così Marsia per la sua pena cantò e cadde. Peraltro Apollo ebbe vergogna di così modestia vittoria.