2-8 d.C.
OVIDIO, Metamorfosi, VI, 382-400
Traduzione tratta da: Publio Ovidio Nasone, Metamorfosi, a cura di Bernardini Marzolla P., Einaudi, Torino 1994, pp. 228-229
Quando quel tale ebbe terminato di raccontare la fine di quei Lici, un altro si sovvenne del Satiro che suonando il flauto (il flauto inventato dalla dea del Tritone) fu vinto in una gara dal figlio di Latona e punito. “Perché mi sfili dalla mia persona? – gridava il Satiro – Ahi, mi pento! Ahi, il flauto non valeva tanto!” Urlava e la pelle gli veniva strappata da tutto il corpo, e non era che un’unica piaga: il sangue stilla dappertutto, i muscoli restano allo scoperto, le vene pulsanti brillano senza più un filo d’epidermide; gli potresti contare i visceri che palpitano e le fibre translucide sul petto. I Fauni campagnoli, divinità dei boschi, e i Satiri suoi fratelli, e Olimpo, a lui caro anche in quel momento, lo piansero, assieme a chiunque su quei monti faceva pascolare greggi lanute e mandrie cornute. Il suolo fertile s’inzuppò delle lacrime che cadevano, e inzuppatosi le raccolse e le assorbì fin nel profondo delle proprie vene; poi le convertì in un corso d’acqua, e riversò quest’acqua all’aria aperta. Così quel fiume che da lì corre tra rive in declivio verso il mare ondoso, si chiama Marsia, il più limpido fiume della Frigia.