Prosfr07

1553

LODOVICO DOLCE, Le Transformationi, In Venetia, Appresso Gabriel Giolito de’ Ferrari, XI

Cerere prima al giovinetto mondo

L’uso insegnò di seminare il grano:

Ella prima il terren fece fecondo

Di biade, ch’era dianzi incolto e vano:

Et ella con parlar saggio e facondo

Diede le sante leggi al corso humano:

E, quanto è tra mortai d’utile e buono,

Fu sol di questa Dea cortese dono.


Di Cerere fia dunque il canto mio;

E potessi trovar voci sì degne,

Ch’appagassi in cantar l’alto disio,

Quanto a soggetto tal par si convegne.

Ma, mentre nel gran mar lieta m’invio

De le sue lode; ella il camin m’insegne:

Si, che’l mio legno dal suo raggio scorto,

Giunga sicuro al disiato porto.


Vana restò de’ fier Giganti l’opra,

Che dal gran Giove fulminati foto;

E la Sicilia poi ridotta sopra

Gli strani e smisurati corpi loro.

Onde ancora Tifeo folle s’adopra

Pentito de l’inutil suo lavoro,

Di levare il gran peso; e in van si scuote,

Che sgravarsene mai non se ne puote.


Perché di lui la destra mano è oppressa

Dal gran Pelor, la manca da Pachino:

E l’una e l’altra gamba è poi depressa

Da Lilibeo, che guarda il polo Austrino.

E’ la terrib il testa sottomessa

Ad Etna, sotto cui stando supino,

Eshala per la bocca arena e foco;

E fa spesso tremar questo e quel loco.


Per questo il Re de le perdute genti,

Temendo che la terra un dì s’aprisse;

E a l’apparir de’ bei raggi lucenti

La spaventata turba indi fuggisse;

Hebbe tutti i pensier fermi e intenti

A proveder, che questo non seguisse.

Onde, per venir suso a l’aria nostra,

Lasciò la trista e tenebrosa chiostra.

 

L’affumicato Carro havea Plutone

Asceso, che non fe dimora molta;

E i negri suoi destrier più che carbone,

Lo portan già per la Sicilia in volta:

A riguardar di qua di là si pone,

Se cosa vegga a sua ruina volta:

E, mentre ch’ogni cosa intera e sana

Trova, e la tema sua del tutto vana:


Lo vede dal suo Monte irne sicuro

La bella Dea, che’l terzo giro move;

E l’alato figliuol perfido e duro,

C'havea, non ch’altri Dei, ma vinto Giove,

Basciando, disse: figlio i ti scongiuro

Per queste man, c’han fatto tante prove,

C’hora ti movi al comun nostro honore,

O mia sola potenza, o mio valore.


Prendi Cupido mio, prendi quell’armi,

Onde sei già d’eterna gloria degno;

Quelle, contra di cui non val, che s’armi

Huomo né Dio, né val forza né ingegno;

E fa’, che d’alterezza si disarmi

Il negro Re del formidabil Regno.

A questa impresa nobile t’affretta,

Per far di te e di me figlio vendetta.


Tu conducesti già trionfo altero

Del mio gran padre e de’ celesti Divi,

E da l’Orfe a l’Antartico Hemisfero

Gli huomini hai vinto, e gli animai più schivi;

E giù nel mar Nettun superbo e fiero,

E tutti i Dei de’ più correnti rivi.

Domato hai terra, e mare, e’l ciel superno;

Solo ti manca a soggiogar l’Inferno.


Ti manca solo a penetrar là giuso,

Dove il nostro poter non giunse ancora;

Benché Pallade e Delia colà suso

Sciolta sen va del Regno nostro fuora;

E seguirà di lor lo stile e l’uso

(Se lunga pacientia in noi dimora)

Di Cerere la figlia adorna e bella,

Che per nome Proserpina s’appella.

 

Fallo, caro mio figlio, a noi soggetto;

E poscia che’l suo Regno è al mio vicino,

Che la ponga Himeneo nel proprio letto,

Et habbia sopra lei sempre domino.

Cupido più che mai con lieto aspetto

Dimostra al suo voler l’animo chino;

E a scelta de la madre una saetta

Hebbe fuori di mille e mille eletta.


Di cui non è meno infallibil strale,

Né che più tosto, ov’è mandato, vada.

Con l’un ginocchio il buono Arcier, c’ha l’ale,

L’usato Arco tendeo; né stette a bada,

Che Pluton, ch’era incauto del suo male,

Giunse nel mezo a la più colta strada:

E ‘l ricco ferro, che produce amore

Gli trapassò senza fermarsi il core.


Mentre Gigli, Amaranti, Acanthi, e Rose

Ne la semplice sua dolce contesa,

Quanti coglier potea, tanti ripose

Dentro la gonna, che tenea sospesa;

Dal Re de l’Infernal paludi ascose

Fu quasi a un tempo vista, amata, e presa:

Tanto fu frettoloso il nuovo Amante,

Che non haveva Amor sentito avante.


Non lunge ad Etna con piacevol onde

Corre un bel Lago: in cui Cigni gentili

Note cantano ogn’hor dolci e gioconde,

Verso ciascun domestici e humili.

Cinge il Lago con spesse e verdi fronde

Una gran Selva d’alberi non vili:

Che, quando il Sol più le campagne incende,

Fan, ch’ivi il suo calor nessuno offende.


E sì, come fresc’aura ogn’hor deriva

Da gli alti rami a più cocenti ardori;

Il morbido terren così nundriva

Diversi vaghi amorosetti fiori.

Quivi con le compagne errando giva

Proserpina; e spogliando i grati honori

A quelle sponde, a gara contendeva

Di chi più copia de’ be fior cogliea.


Spaventata colei con voce mesta

La cara madre, e le compagne chiama;

E de’ fior, che le cadder de la vesta

Si duole, e di ricorli affetta e brama,

Tanto la pura verginetta honesta

Fuggitiva bellezza apprezza e ama;

Ma molto più si duole e si sconforta

Del fiero predator, che via la porta.


Pluton teneva a lei fisse le ciglia;

E chiamando i Destrier spesso per nome

Scuoteva lor le ferruginee briglia

Pe’ lunghi colli e per le negre chiome.

N’andava il Carro presto a maraviglia,

Che nol gravavan già le doppie some,

Per alti Laghi, e per sulfurei Stagni,

Onde si fanno a l’huom salubri bagni.


E’ un picciol mar tra Ciane e Arethusa,

Che con anguste corna si congiunge.

Quivi (seguì la cantatrice Musa)

Ratto Pluton col presto Carro aggiunge.

Ciane dal Fonte suo tutta confusa

Uscì per fino al petto; che da lunge

Sentì il rumor de le sonanti ruote,

Onde conoscer l’uno e l’altra pote.


Era Ninfa costei del sacro Stagno,

E teneva di quello il nome istesso:

Laqual disse a Pluton, che tal guadagno

Era contra l’honesto e’ndegno d’esso.

Qui, dice, ove me stessa ascondo e bagno,

Non creder, che’l passar ti sia concesso.

Dovei pregarne Cerere divina,

E non far de la figlia empia rapina.


E, se lece aguagliar le cose humili

A l’alte; e io fu’ ancor d’Anapo amata;

Ilqual tenendo i consueti stili,

M’hebbe al padre per moglie addimandata.

Tu, s’hai costumi ancor saggi e gentili,

Chiedine lei, che non ti sia negata:

E così detto, ambe le braccia stende,

E’mpedirgli il camin pugna e contende.


Più non potè Pluton l’ira tenere:

E sferzando i terribili Cavalli,

Col Regal scettro impetuoso

Del Gorgo suo le non profonde valli.

Maravigliosa cosa fu a vedere:

Si divisero i lucidi cristalli;

E s’aperse la terra infino al centro,

E col Carro Pluton rinchiuse dentro.


Rimase mesta, pallida, e dolente

La bella Ninfa, e con turbata fronte:

Ne minor duol de la rapina sente,

Che del sprezzato honor de suo bel Fonte.

E piange sì, che liquefar repente:

Ma che bisogna, ch’io tutto vi conte

Minutamente? Basta, che la Ninfa

Conversa fu ne la sua propria linfa.